Il bambino, il pesce rosso e le terne pitagoriche
a Cecilia, a Sara, a Carlo Maria
Luigi
Alcide Fusani
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Il bambino, il pesce rosso e le terne pitagoriche by Luigi Alcide Fusani is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported License
Dicembre 2012

Non c'è presa di coscienza senza sofferenza.
In tutto il mondo la gente arriva ai limiti dell'assurdo per
evitare di confrontarsi con la propria anima.
Non si raggiunge l'illuminazione immaginando figure di luce,
ma portando alla coscienza l'oscurità interiore.
Chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro si sveglia.
Chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro si sveglia.
Carl G. Jung
La settimana
scorsa, parlavo di Matematica con una studentessa del liceo.
Le sue
competenze ovviamente, poca cosa; tuttavia la sua ingenuità, la sua curiosità,
il suo stupore, mi sembravano sinceri e disarmanti. “Ma cosa c’è ancora da
scoprire in Matematica?”, mi domandava.
Mi ha fatto
venire in mente alcuni conoscenti, alcuni parenti, che quando ero studente
all’università mi domandavano: “Ma come si fa a fare una tesi in Matematica?”,
come se la Matematica fosse qualcosa di eterno, di perfetto, esistita dalle
origini dei tempi e per sempre immutabile.
Non c’è da
stupirsi di tanta semplicità; la Matematica non fa audience; i matematici
appaiono raramente in televisione, e quando questo accade, di solito li fanno
parlare di altro… spesso di teologia.
Io penso che
sarebbe meglio non parlare di cose su cui è meglio tacere… e sarebbe meglio non
prestarsi a portare acqua a quel mulino dove si macinano in continuazione
banalità e luoghi comuni.
Ho cercato di mantenere
un atteggiamento comprensivo e una conversazione gradevole; ho risposto a tutte
le domande nel modo più esauriente e più chiaro possibile.
Su una sola
domanda sono stato evasivo, perché si trattava di una domanda personale… una
domanda che pure mi ero già posto, ma per la quale non avevo ancora elaborato
una risposta onesta.
“Ma lei, quando ha
cominciato a occuparsi di Matematica… quando si è reso conto di ‘essere
portato’ per la Matematica?”.
La mia risposta
è stata evasiva: “Non lo so… non me lo ricordo esattamente… mi ricordo solo che
fin da piccolo riuscivo facilmente a risolvere i problemi che mi venivano
proposti a scuola… che ero veloce a fare i conti, che memorizzavo senza sforzo
le tabelline e tutte le formule che mi venivano insegnate… la Matematica era la
materia in cui riuscivo meglio… il resto è venuto da sé”.
Questa è stata
la mia risposta, ma non è stata del tutto sincera, e questa cosa mi ha lasciato
un senso di disagio.
L’esercizio
della memoria per arrivare alla verità, ha un prezzo in dolore che nessuno
vorrebbe pagare; tuttavia ho sentito che era arrivato il momento di definirla,
quella risposta e così ho deciso di affrontare questo percorso e di riportare
in superficie il rimosso.
Quello che ho
voluto ricordarmi, non si può dire in quattro parole. Ecco perché ho deciso di
scriverlo qui.
Ho vissuto i
primi anni della mia vita in una cittadina dell’Italia centrale. Il mare era
vicino, la luce chiara, il clima mite.
Io ero il primo
e per il momento, unico figlio. Le famiglie dei miei genitori erano numerose.
Ogni giorno, io e la mia mamma, andavamo a trovare una nonna o una zia o una
cugina… insomma, qualche parente; se non andavamo noi, c’era qualcuno che
veniva da noi. A me piaceva restare ad ascoltare le chiacchiere, gli
aggiornamenti… i pettegolezzi, e poi, quasi tutti portavano qualcosina per me:
caramelle, cioccolatini, giocattolini, matite colorate e album da colorare; ma
la cosa che più mi faceva piacere era che tutti mi dicevano che ero un bel
bambino, e mia madre aggiungeva che si, “ero bello, ma più importante era che
fossi bravo”; e io ero bravo, tranquillo e obbediente.
Abitavamo in una
casa piccola, di mia nonna, e per quel che mi ricordo, anche abbastanza povera.
Erano i primi anni del dopoguerra; lavoro ce n’era poco. Mio padre, rientrato
da un campo di prigionia in Inghilterra (era stato fatto prigioniero a Tobruk),
lavorava dove trovava; una settimana in un laboratorio, una in una cava,
un’altra in un ufficio; era apprezzato perché conosceva il disegno geometrico e
il calcolo.
A un cero punto
gli capitò una occasione: gli offrirono un posto fisso in una città del nord,
come direttore di un laboratorio; erano gli anni della ricostruzione… erano
anni di fiducia e di speranza.
Mio padre
accettò, e così tutti e tre ci trasferimmo.
Mia madre non
era contenta; forse era troppo giovane. Penso che fosse un po’ spaventata
all’idea di andare in giro per il mondo, con un uomo maturo e già vissuto, e
con un bambino piccolo, senza la sua mamma, il suo babbo, le sue sorelle e
tutti i suoi parenti … e poi avrebbe preferito che mio padre trovasse un lavoro
più sicuro, più protetto… magari nella pubblica amministrazione, come sua
sorella… che aveva sposato un impiegato statale.
Mi ricordo che erano
venuti a prenderci con una macchina nera della ditta, una specie di Balilla
(credo che sia stato il mio primo viaggio in macchina); durante il viaggio
pioveva e mia madre, ogni tanto piangeva silenziosamente. Quando arrivammo, ci
sistemammo in un appartamento in un vecchio palazzo: sala da pranzo, camera,
cameretta per me, cucina e bagno.
Mio padre a
quell’epoca fumava ancora, e portava un cappello a tesa larga come quelli che
si usavano allora. Era ancora sofferente per i postumi della prigionia… aveva
una faccia da film neorealista.
Dopo qualche
giorno anche a me non piaceva stare in quella nuova casa, in quella nuova
città. Non uscivamo mai; mia madre diceva che fuori faceva troppo freddo… e se poi
mi ammalavo…?
Per andare a
fare la spesa scendeva lei, da sola, nei negozi sotto casa e mi lasciava “a
giocare per bene, senza rompere niente”; poi tornava in fretta e si metteva a
cucinare. Mi annoiavo molto; guardavo a lungo, dalla finestra; le persone in
strada andavano, lavoravano, costruivano, imbiancavano.
Avevo visto
degli scalpellini che rifacevano il cordolo del marciapiede; c’erano anche dei
ragazzini… forse avevano otto, dieci, dodici anni; facevano fatica a sistemare
quei blocchi di pietra grigia. Quanto avrei voluto andare giù a lavorare con
loro.
Un’altra volta,
avevo visto degli zingari; una donna con in braccio un bambino seminudo, seduta
sulla neve e vicino a lei un altro bambino che avrà avuto la mia età e, scalzo,
in piedi, con una piega dolorosa nel volto, chiedeva l’elemosina. Avrei voluto
scendere e scappare con lui; andarcene via… andare liberi per il mondo; avremmo
lavorato, avremmo fatto anche noi gli stradini… avremmo fatto i muratori,
costruito le case.
Un giorno un
imbianchino arrivò per rimettere a nuovo la facciata di un negozio che stava
dall’altra parte della strada. Per prima cosa diede una passata di bianco
sull’insegna, poi, dopo avere rimesso a nuovo la saracinesca, con una
precisione meravigliosa incominciò a tracciare, con smalto rosso,nello spazio
in alto, che ormai si era asciugato, le lettere della nuova scritta. Restai a
osservare attentamente ogni fase del lavoro e, quando questo fu finito, andai a
chiamare mia madre perché mi dicesse cosa c’era scritto: “MACELLERIA”, mi disse
tranquillamente.
“Come fai a
saperlo?”,
“Basta leggere”,
“Come si fa a
leggere?”… e fu così che a poco più di quattro anni, mia madre incominciò a
insegnarmi a leggere, a scrivere e a contare.
Una sera, mentre
prima di andare a cena, mio padre mi lavava le mani col sapone Palmolive…
quello verde… mi chiese che cosa avevo fatto di bello tutto il giorno.
“Niente”,
“Come niente?”.
Provai a pensare, ma non mi venne in mente niente.
“Hai giocato?…
con cosa hai giocato?”,
“Non mi ricordo…
”,
“E non ti sei
annoiato?”,
“Si”,
“… questo non va
bene… l’ozio è il padre dei vizi”, disse, “… su, andiamo a tavola”.
Dopo la solita
cena serale, a base di verdure cotte e formaggio, mio padre disse a mia madre
di prepararci per uscire. Lei disse subito di no: faceva freddo e ci mancava
solo che ci prendessimo un qualche malanno; io dovevo andare a letto presto
perché ero piccolo ed ero abituato così… e poi, “… dove dovevamo andare, a
quell’ora?”.
“Al parco dei
divertimenti”,
“A
quest’ora!?... ma no! … chissà poi a che ora torniamo a casa!”.
Intervenni io:
“Si mamma, dai, … io non ci sono mai stato…”.
Dopo un minimo
di contrattazioni, con la mamma risentita perché ‘nessuno le dava mai retta’…
“e poi vedremo quando il figliolo avrà la febbre a quaranta…”, uscimmo.
Credo che
camminammo per due o trecento metri che a me sembrarono una distanza
lunghissima, quasi una camminata da perdersi. Quando arrivammo, le luci
intermittenti meravigliosamente davano vita alla scritta dell’ingresso del Luna
Park.
Dentro:
giovanotti e ragazze ridevano, sparavano, urlavano sul calcinculo e sulle
autoscontri.
La musica dagli
altoparlanti raggiungeva ogni punto. C’era tanta animazione e tanta vita che mi
metteva emozione e mi faceva anche un po’ di paura.
Ogni tanto mio
padre proponeva un gioco, ma mia madre, prontamente lo vietava; l’unico al
quale non si oppose, fu quello di tirare delle palline di plastica, rosse, e
cercare di farle entrare in vasetti di vetro che contenevano pesci rossi. Se si
riusciva, se ne vincevano uno o due. Io fui fortunato; una delle 3 palline
entrò. Il pesciolino ce lo diedero in una bustina di plastica grossa come un
bicchiere.
La mamma non
voleva che lo prendessimo, disse di lasciarlo lì, ché non sapevamo dove
metterlo; mio padre comperò una boccia di plastica, in modo che il pesce avesse
un po’ di spazio per nuotare..
Saremo stati
fuori meno di mezz’ora; tornando a casa, mia madre mi teneva per mano
immusonita: era uno dei suoi primi silenzi punitivi. Mio padre sorrideva tranquillo
sotto i baffi, reggendo il pesciolino e la boccia di plastica, avvolta in una
carta di giornale.
Il giorno dopo,
il pesce nuotava tranquillo nella vaschetta sul mobile della sala da pranzo; io
lo stavo guardando da vicino fantasticando; mia madre mi chiamò e mi mise il
cappottino. Uscimmo e andammo in centro; entrammo in una bella libreria; la
mamma chiese una copia di Pinocchio; gliene mostrarono tre o quattro; le
sfogliò, le guardò bene, poi scelse quella scritta con i caratteri più grossi
(anche se le illustrazioni erano un po’ grossolane). Quando arrivammo a casa me
lo regalò: “Ecco, questo è per te; lo leggeremo per bene e soprattutto dovrai
stare ben attento a quello che successe a Pinocchio quando, decise di andare a
divertirsi nel paese dei balocchi”.
Cominciai a
leggere Pinocchio una pagina al giorno, ad alta voce e tenendo il segno col
dito… la mamma ascoltava e correggeva. Alla fine dovevo riassumere la paginetta
perché lei potesse controllare se avevo ben capito, e in questo caso dovevo
rispondere alla domanda da cento milioni “… e qual è la morale di questo
capitolo?”. Dopo essermi arrampicato sui vetri per darle la risposta
costruttiva ed edificante che lei aspettava, ottenuta la sua approvazione
potevo andare, e allora, correvo dal pesce a raccontargli quello che avevo
letto e tutte le paure che il libro aveva suscitato in me. Quelle paure che a
mia madre non potevo raccontare; probabilmente lei riteneva che quelle paure
fossero educative… il suo commento più frequente era “… ecco, vedi cosa succede
ai bambini monelli e disubbidienti?”.
Leggendo certe
pagine la paura mi attanagliava: l’incontro di Pinocchio con il serpente;
Pinocchio impiccato dagli assassini; Pinocchio disperato sulla tomba della
fata… pregavo Dio di fare in modo che io non mi trovassi mai in una situazione
simile.
Al pesce avevo
anche dato un nome e con lui facevo lunghe conversazioni: lo avevo chiamato
Mario, come un bambino di Torino che veniva al mare dove abitavo io prima. Quando
era tornato a casa mi aveva regalato una macchinina, anzi una piccola corriera
che ho conservato, e che ancora è appoggiata sul mio tavolo da lavoro.
Qualche mese
dopo, si avvicinava la festa di santa Lucia.
Brunello, un
cugino di mia madre, diplomato alla scuola magistrale, venne ospite a casa
nostra per un paio di giorni, per partecipare a un concorso. Io fui spostato a
dormire nel lettone dei miei, e la cameretta rimase a sua disposizione.
Me lo ricordo
come un ragazzone allegro e pacioso; sosteneva che santa Lucia in persona gli
avesse consegnato direttamente due regali per me: un libro con le favole di
Andersen, e una scatola contenente pezzi di legno delle più comuni forme
geometriche: cubi, prismi a base quadrata, prismi a base triangolare, cilindri,
mezzi cilindri… il foglio delle istruzioni mostrava come con quei legnetti si
potessero costruire palazzi, castelli, fortini e fortezze. Il primo lo
costruimmo insieme, io e Brunello, e resistette fino a quando la mamma non
dovette mettere la tovaglia in tavola.
Quanto al libro
delle fiabe, Brunello me ne lesse una, non ricordo quale, forse quella della
piccola fiammiferaia, ma la mamma decise che quei racconti erano troppo tristi,
e appena Brunello se ne andò, il libro scomparve dalla circolazione.
Mi rimase il
gioco dei pezzi di legno. Ricostruire i palazzi e i castelli secondo le
istruzioni non era particolarmente divertente, era più interessante costruire
figure geometriche sempre più grandi e complicate. Era interessante calcolare
quanto era lunga la strada del bordo… (allora non sapevo ancora che si chiamava
perimetro), e non sapevo nemmeno cosa fosse l’area, anche se spontaneamente,
confrontavo le superfici delle diverse figure.
Un giorno,
sempre verso i quattro anni e mezzo, mi capitò di osservare una cosa che mi
sembrò una stranezza non accettabile senza una ben precisa motivazione: avevo
costruito un quadrato con nove cubetti, cioè un quadrato di lato tre; vicino un
altro quadrato appena più grosso… un quadrato di sedici cubetti, cioè un
quadrato di lato quattro… meravigliosamente aggiungendo i cubetti del quadrato
più piccolo al quadrato più grande, si otteneva un quadrato ancora più grande…
un quadrato col lato di cinque.

In prima media,
avrei imparato a scrivere quello che avevo sperimentato da piccolo, usando la
formula
32 + 42 = 52
(infatti 9+16=25)
E in seconda, il
mio professore mi avrebbe detto che 3, 4, 5 costituiscono una terna pitagorica,
cioè un insieme di tre numeri interi che soddisfano la formula del teorema di
Pitagora, e quindi rappresentano le misure dei lati di un triangolo rettangolo…
ma questo è poco importante; quello che mi lasciava terribilmente perplesso era…
come mai, con un quadrato di 4 e uno di 5, non si otteneva un quadrato di 6 ?...
infatti
42+52 fa 41 e non 36…
c’erano 5 cubetti
che avanzavano… e cosa potevo farmene di quei 5 cubetti? Mistero.

Provai ad
aumentare
52+62 = 72
? … ma no! 52+62 =
61 e non 72 che fa 49…
Qui avanzavano
addirittura 12 cubetti

Provai a
condividere la mia perplessità con mia madre, ma lei non fu per nulla turbata e
mi rispose “…è così… se non si può, non
si può.”.
Andai a parlarne
con Mario; gli spiegai tutto il discorso; gli feci vedere i cubetti e le figure
che si potevano comporre. Avevo costruito, sul tavolo davanti a lui 5 quadrati

Ogni volta che
costruivo una figura più grande aumentava il numero dei cubetti che dovevo
aggiungere.
Per fare il
quadrato di 1, bastava 1 solo quadrato.
Per fare quello
di 2 bisognava aggiungerne 3.
Per fare quello
di 3 bisognava aggiungerne 5.
Per fare quello
di 4 bisognava aggiungerne 7.
Per fare quello
di 5 bisognava aggiungerne 9.
Mario mi fece
osservare che, (lo scrivo in formula) 52
= 1 + 3 + 5 + 7 + 9 …
cioè mi fece
capire che per ottenere 52, dovevo sommare 5 numeri… prendendo un
numero si e uno no, partendo da 1… insomma, bisognava sommare i primi 5 numeri
dispari.
Dovevo
verificare subito… andai a prendere di corsa altri 11 cubetti e li portai
vicino alla vaschetta di Mario; li disposi bene-bene sul bordo del quadrato da
5 e mi venne il quadrato di lato 6.
Andai a
raccontare la mia scoperta alla mamma, che stava spuntando dei cornetti da far
bollire per la cena, e lei, senza scomporsi più di tanto, disse: “… va bene… e
allora?”.
E allora, forse
questa scoperta avrebbe potuto aiutarmi a capire qualcosa sul problema dei
quadrati che, quando si uniscono i loro pezzi… si formano altri quadrati.
Mi ritirai nella
cameretta e cominciai a costruire quadrati sempre più grandi; ben presto i
cubetti finirono e dovetti ricorrere ai prismi a base quadrata, ma altezza
doppia, che in pratica equivalevano a 2 cubetti, e quando anche questi finirono
presi quelli con altezza tripla o quadrupla (ma io li consideravo come fossero
tutti cubetti singoli).
Aggiunsi 13, 15,
17, 19, 21, 23, 25, 27 cubetti… non ricordo che misura avesse il quadrato più
grande, ma ricordo che rimasi a lungo a osservare in silenzio il quadratone
formato da tutti i pezzi di legno che mi erano stati regalati.
Pensavo… per
costruire il quadrato di 5, avevo aggiunto tutti e 9 i pezzi del quadrato di 3,
al quadrato di 4. il miracolo era stato possibile perché tutti e 9 i pezzi del
bordo del quadrato di 5 formavano un quadrato di 3. Mi venne l’idea di
scomporre il gran quadrato, separando tra loro i bordi, cioè fare dei
mucchietti di 13, 15, 17, 19… cubetti, e vedere se con qualcuno di questi, si
poteva costruire esattamente un quadrato.
Con il
mucchietto di 13, si formava un quadrato di 3, ma ne avanzavano 4.
Con il
mucchietto di 15, si formava ancora un quadrato di 3, ma ne avanzavano
addirittura 6.
Con il mucchietto
di 17, si formava un quadrato di 4, ma ne avanzava 1.
Con il
mucchietto di 19, si formava un quadrato di 4, ma ne avanzavano 3.
Con il
mucchietto di 21, si formava un quadrato di 4, ma ne avanzavano 5.
Con il
mucchietto di 23, si formava un quadrato di 4, ma ne avanzavano 7.
Con il
mucchietto di 25, si formava un magnifico quadrato di 5, e non ne avanzava
nessuno.
Ero emozionato…
stavo per trovare una nuova terna; ricomposi il quadrato di lato 12, aggiunsi i
25 cubetti e meravigliosamente si formò il quadrato col lato di 13… 52 + 122 = 132 (infatti 25+144 = 169)

La terna
pitagorica 3, 4, 5 non era più sola!
Andai di corsa a
raccontare tutto a Mario, e lui cominciò a girare in tondo nella vaschetta,
evidentemente soddisfatto; poi, quasi a volermi sfidare, mi disse “Sono sicuro
che ce ne sono anche delle altre”. Andai da mia madre; le raccontai quello che
avevo scoperto; credo che lei mi ascoltasse senza capire molto; stava
rammendando della biancheria. Le chiesi se lei conosceva altri quadrati che si
potessero ‘comporre in modo perfetto’. Mi disse, “Basta giocare con i legnetti…
vai a prendere Pinocchio, ché ne leggiamo una pagina”.
“Sono sicuro che
ce ne sono anche altre”. Si, anch’io ne ero sicuro. Esaminando con pazienza
l’elenco dei numeri dispari, ero arrivato a scoprire che con 25 cubetti si
formava un quadrato utile per la mia ricerca. Bisognava insistere
sistematicamente.
Provai con 27,
29, 31, 33… niente… finché non trovai 49; con 49 si formava un bellissimo
quadrato di lato 7. Disposi i 49 cubetti come se fossero intorno a una
quadratone immaginario. Uno nell’angolo in basso, 24 di sopra e 24 a sinistra. Poi ne disposi
degli altri per “vedere”, meglio il quadrato immaginario.


Questo quadrato
immaginario aveva il lato di 24 e coi 49 cubetti del bordo formava un quadrato
col lato di 25. Cioè, 72 + 242 = 252 (infatti 49+ 576 = 625). E 3! Come al
solito corsi a raccontare tutto a Mario.
Mario
scodinzolava soddisfatto e taceva; sembrava quasi ridacchiasse, come se mi
dicesse… “Tutto qui?”. Tornai nella cameretta, e presi il quaderno a quadretti
che la mamma mi aveva comperato per imparare a scrivere i numeri (a matita) e a
eseguire le prime facili operazioni.
Scrissi 3 4 5
5 12 13
7 24 25
e incominciai a chiedermi come
sarebbe stata la quarta terna; feci anche i disegni, utilizzando i quadretti della
carta.
Certo,
il primo numero della quarta terna sarebbe stato 9; dopo 3, 5, 7 non poteva
essere che 9; ma gli altri 2? A prima vista, l’unica cosa che si capiva era che
l’ultimo era 1 più del secondo:
5 = 4+1; 13 =
12+1; 25 = 24+1… ma con il primo numero, cosa c’entravano?
Guardavo le
figure. Cercavo… ero sicuro di poter trovare il segreto, e a un certo punto…
emozione (non avevo ancora 5 anni)… 24 e 25 insieme facevano 49, cioè 7 per 7.
24
+ 25 = 49 = 72
e la proprietà
funzionava anche per le altre terne, infatti
4
+ 5 = 9 = 32
12
+ 13 = 25 = 52
Ora ero in grado
di costruire la quarta terna: primo numero 9; 92 … mi ci volle un
po’ di tempo… 81, e 81 era facile da dividere in due parti che avessero la
differenza di 1: 40 e 41, e quindi la quarta terna era
9 40 41.
Adesso ero in
grado di costruire anche la quinta, la sesta, la settima… tutte le terne che
volevo[1]!
Anche la millesima… avrei solo dovuto diventare un po’ più bravo con i calcoli.
Ero molto
felice; non andai a raccontare la mia scoperta alla mamma; la raccontai
direttamente a Mario. Lui se ne restava calmo sul fondo della vaschetta… stava
pensando… “… bravo… hai trovato il modo per ricavare tantissime terne… quelle
dove il primo numero è un numero dispari… ma non ce ne saranno anche altre?...
per esempio quelle dove il primo numero è pari?”.
Doveva avere
ragione Mario… perché mai, il numero minore delle terne doveva essere sempre
dispari? Certo la strisciolina che costituiva il bordo al quadrato, era formata
sempre da un numero dispari di cubetti… ma se io avessi considerato un bordo
‘doppio’, il numero dei cubetti sarebbe stato pari!
Cominciai da 1. Il
doppio bordo era formato da 3 + 5 cubetti… 8 in totale, con cui purtroppo non si può fare
un quadrato.
Continuai con 2.
Il doppio bordo era formato da 5 + 7 cubetti… 12 in totale, e anche con 12
purtroppo non si può fare un quadrato.
… con 3.

Il doppio bordo
era formato da 7 + 9 cubetti… 16
in totale. Questa volta il quadrato si poteva fare… era
il quadrato di lato 4… ma era solo un mezzo successo. La terna pitagorica che
si otteneva la conoscevo già: era la terna 3, 4, 5.
Questo parziale
successo, tuttavia mi incoraggiava a proseguire nella ricerca.
Con 4 il doppio
bordo era formato da 9 + 11, cioè 20 cubetti, ancora niente.
Con 5 il doppio
bordo era formato da 11 + 13, cioè 24 cubetti, niente.
Con 6 il doppio
bordo era formato da 13 + 15, cioè 28 cubetti, niente.
Con 7 il doppio
bordo era formato da 15 + 17, cioè 32 cubetti, niente.
Con 8 il doppio
bordo era formato da 17 + 19, cioè 36 cubetti, forse ci siamo! Il quadrato di
partenza, infatti, aveva lato 8; il quadrato ricavato dal bordo aveva lato 6;
il quadrato grande aveva lato 10.

La mia esultanza
si era un po’ spenta. La terna 6, 8 ,10, non era altro che la terna 3, 4, 5,
coi numeri moltiplicati per 2… Non vale!
Ora si
presentava il solito problema… pezzi di legno ormai non ce n’erano più.
Provai a scrivere
i numeri che avevo ottenuto: 20, 24, 28, 32, 36… ogni volta aumentavano di 4.
Avrei voluto
costruirmi dei quadretti di carta per integrare la mancanza di cubetti e poter
continuare. Chiesi alla mamma carta e forbici, e naturalmente la risposta fu:
“No, ché con le forbici ti puoi far male!”. Tornai in camera e cercai di
arrangiarmi. Volevo vedere se continuando ad aggiungere 4 cubetti per volta, si
potevano ottenere altri quadrati: 36, 40, 44, 52, 56, 60, 64.
64! Finalmente!
Con 64, si poteva fare un quadrato di 8 per 8. Adesso dovevo provare a fare,
con i 64 cubetti, 2 gruppi formati da due numeri dispari ‘vicini’. Prima divisi
in 2 parti uguali… 32 e 32, poi spostai un cubetto da una parte all’altra: 31 e
33. disposi i 2 bordi a L rovesciata.

Il quadrato
interno doveva avere il lato di 15, quello esterno 17. avevo ottenuto la terna
8 15 17
Questo si, che
era un bel risultato; 8, 15, 17 era una terna nuova che non aveva niente a che
fare con quelle del primo gruppo (quelle ottenute partendo dai numeri dispari).
Provai a
scrivere le 3 terne che avevo ottenuto partendo dai numeri pari
4
3 5
6 8 10
8
15 17
Come doveva
essere la prossima terna… quella che cominciava con 10?
Usai tutti i
pezzetti di legno… per fare il quadrato di lato 10, ne occorrevano 100; i 100
pezzi si dividevano in due strisce di 49 e 51; con queste si potevano fare 2
bordi: 24 + 24 +1 e 25 +25 +1

quindi il
quadrato interno doveva avere il lato di 24 e quello esterno di 26; la terna
era
10 24 26
Anche questi
numeri erano tutti ‘doppi’ cioè pari, e anche 5, 12, 13 era una terna già
conosciuta.
Rimasi a lungo a
osservare le 4 terne… volevo trovare una ‘formula ‘ come quella che avevo
trovato per i dispari… i numeri pari
erano decisamente più antipatici dei numeri dispari… mi seccava il fatto che
con i pari io avessi trovato solo 4 terne di cui 3 già conosciute.
Andai a parlare
del problema con Mario. Non avevo un numero di pezzi sufficienti per andare
avanti nella ricerca; la mamma non mi permetteva di usare carta e forbici per
ritagliarmi dei quadratini; le mie capacità di calcolo non mi permettevano di
proseguire nella ricerca.
Mario mi disse
che solo mio padre avrebbe potuto aiutarmi.
Dovevo chiedere
aiuto a papà.
Quando arrivò a
casa, una mezz’oretta prima di cena, prima che si mettesse a leggere il giornale,
presi tutto il coraggio che avevo e cominciai dicendo: “Vuoi sapere cosa ho
scoperto?”, “Certo!”, rispose sorridendo sotto i baffi.
Lo feci venire
in cameretta dove avevo già preparato alcuni quadrati per spiegargli prima le
terne che venivano generate dai numeri dispari. Mio padre ascoltava con
attenzione e sembrava divertito.
La mamma ci
chiamò a tavola. “Va bene, ma ora andiamo”, disse; “… ma dopo cena torniamo…
devo finire di spiegarti”.
Andammo in bagno
a lavare le mani; mio padre me le insaponò per bene, sempre col sapone Palmolive
verde, poi mentre io me le risciacquavo sotto l’acqua corrente bella fresca, mi
fece una carezza sulla nuca. Ricorderò sempre il calore di quella mano. È uno
dei ricordi più belli della mia infanzia.
Quella sera mangiai
tutto in fretta senza fare storie, anche finocchi e zucchine, bolliti e conditi
con aceto e un filo d’olio; li detestavo, ma la mamma li cucinava spesso… diceva
che facevano bene, non so perché.
Appena finita la
mela, chiesi al papà se potevamo andare in camera a finire il gioco dei
quadrati.
Mio padre si
accese una sigaretta, la prese da un sacchetto verde su cui era disegnata una
delle caravelle di Cristoforo Colombo, ne fumò una metà e dopo averla spenta si
alzò e venne con me.
Gli raccontai
tutta la storia delle terne che nascevano dai numeri pari; alla fine gli
spiegai che volevo proseguire la ricerca; doveva aiutarmi a costruire la terna
che cominciava con 12.
“Il quadrato col
lato di 12, quanti pezzi ha?”
“144”
“… e diviso in 2
quanto viene?”
“72”
“… e allora i
due numeri vicino a 72, sono 71 e 73…”
“Certo”
“… 71… bisogna
togliere il cubetto che va nell’angolo… rimangono 70… 70 diviso in 2 quanto
viene?”
“35”
“… allora la
terna che comincia col 12 deve essere 12, 35, 37…”.
Chiesi a mio
padre di controllare… gli feci calcolare 122 , 352 e 372...
(144, 1225, 1369) e mio padre poté verificare che in effetti 144 +1225 era
uguale a 1369.
Ero contento;
avevo trovato una terna che non era multipla di nessuna terna trovata
precedentemente, e soprattutto avevo trovato il metodo per ottenere una terna
partendo da un numero pari qualsiasi.[2]
“sei contento
adesso?”, mi chiese mio padre, e intanto sorrideva
Non credo che
avesse capito fino in fondo quanto era importante per me essere arrivato in
fondo al mio problema. Mi aiutò a mettermi a letto e mi diede il bacio della
buona notte.
Mi addormentai
felice pensando che il giorno dopo avrei raccontato tutto a Mario.
Come finisce
questa storia?
Mario rimase mio
amico per tanto tempo ancora. Con lui sfogavo, raccontandogliele, tutte le mie
paure… ricordo di averlo terrorizzato con Peter Pan, Capitan Uncino e il
coccodrillo, per non parlare del Ladro di Bagdad, di certi acconti di Cuore o di
Tom Sawyer con Huck Finn. Con lui sognavo di partire e andare alla scoperta del
mondo e dei mari insieme a personaggi di Jules Verne.
Un giorno tornai
a casa da scuola e non lo trovai più. Mia madre disse che era morto e che lo
aveva buttato, ma io non ero veramente convinto. Ho sempre avuto il dubbio che
lei, gelosa della nostra amicizia, e stufa di dover accudire la sua vaschetta,
approfittando della mia assenza, lo avesse gettato nel lavandino o nella tazza
del gabinetto ancora vivo. Piansi un pochino; dissi che avrebbe dovuto
aspettare per farmelo salutare. Mia madre trovò molto stupida la mia richiesta
e il discorso per lei finì lì. A me piacque pensare che Mario, finalmente
libero, fosse sceso dalle fogne alle rogge, dalle rogge ai fiumi e dai fiumi al
mare per scendere vicino al Nautilus del capitano Nemo alla scoperta degli abissi.
Per quanto mi
riguarda, quando ebbi sei anni mia madre fu costretta a lasciarmi andare a
scuola, ma mi accompagnava e mi veniva a riprendere. Raccomandò al maestro di
non lasciarmi giocare con gli altri bambini perché potevo farmi male, e poi
avrei potuto assumere le cadenze di quell’orribile dialetto del nord.
Non mi mandò né
all’oratorio né al catechismo per prepararmi per la prima comunione e per la
cresima. Parlò col parroco e si prese lei la responsabilità di farmi studiare
tutto il necessario; così crebbi senza mai tirare un calcio al pallone, senza
fare il chierichetto e senza mai prendermi a botte. L’intervallo lo passavo in
classe col maestro e gli altri bambini credevano che io fossi suo figlio.
A scuola mi
annoiavo molto; il maestro ci dava dei temi sui quali io non sapevo mai cosa
scrivere: “Ho incontrato una persona anziana”, “Il vigile urbano”, “Una
golosità punita”, “L’albero davanti alla finestra della mia stanza”…
Mia madre,
allora, perché io imparassi a scrivere qualcosa di più di quelle quattro parole
in croce, visto che non avevo un minimo di fantasia e non mi veniva mai in
mente uno straccio d’idea, mi comprava dei libri di temi svolti. Questi testi
grondavano di banalità leziose, di buoni sentimenti, di retorica per me
insopportabili. Io li rifiutavo; mia madre mi rinfacciava di averle fatto
spendere dei soldi inutilmente e di non voler collaborare a migliorarmi.
Il maestro dal
canto suo ci dava da imparare a memoria poesie che per me non avevano alcun
significato. Ricordo ‘Salve Piemonte’ e Teodorico di Verona… tornerem sacra
corona a la casa che ci aspetta… poi passava le mattine a far ripetere a tutti
la stessa poesia, mentre lui leggeva il giornale; se qualcuno si interrompeva e
non sapeva più andare avanti, erano minuti e minuti di silenzio e di ansia, e
se proprio il malcapitato non riusciva a ripartire , c’era la punizione della
dinamo. Il compagno doveva tenere in mano i due capi dei fili elettrici, e il
maestro girava la manovella un po’ di volte, più o meno veloce, a seconda della
simpatia o del grado di monelleria del bambino… una specie di piccola sedia
elettrica; se il bambino lasciava andare gli elettrodi, sberle. Era la scuola
italiana prima del ’68.
Per la geografia
ricorso elenchi di confini, capitali, monti, fiumi, laghi, province…
Per la storia,
un rosario infinito e sconnesso di incoronazioni e battaglie con relativa data.
Per quanto
riguarda la Matematica ,
il maestro a scuola ci dava da calcolare decine e decine di operazioni e
equivalenze. Per la geometria ci dettava le formule da applicare senza altre
spiegazioni. Io a casa cercavo di capirne il significato, ma mia madre mi
diceva di non perdere tempo e di fare in fretta a fare i compiti… “Chi dorme
non piglia pesci”, diceva con un tono acido che sento ancora riecheggiare nella
mente.
Il mio compagno
di giochi, in quel periodo era Bruno Munari: un giorno alla settimana, mi pare
al giovedì, faceva una trasmissione televisiva in cui insegnava ai bambini
nuovi giochi. Ogni gioco era fondato su qualche principio della fisica e io ne
ero affascinato. Era una bella scuola di creatività.
Mia madre ben
presto cadde in crisi depressive sempre più profonde e costernanti; passava
dall’abbattimento più nero all’aggressività più gratuita; dolore e angoscia per
tutti. Mi diceva che non avrei mai combinato niente nella vita e progettava di
‘comperarmi’ una gioielleria… l’oro non passa mai di moda e non va mai a male.
Mio padre,
invece, anche se era quasi sempre assente per lavoro, si era accorto, forse
aiutandomi a fare qualche compito o controllando quelli che avevo fatto da
solo, della mia disposizione per la Matematica.
Ogni settimana
(lui comperava regolarmente la settimana enigmistica), sceglieva un problema…
un quesito di tipo matematico e me lo proponeva; se io riuscivo a risolverlo, metteva,
sorridendo, qualche centinaio di lire nel mio salvadanaio. Io non me ne facevo
niente dei soldi, ma mi dava soddisfazione ottenere il suo consenso.
Quanto alle
terne pitagoriche, capitò alle medie, che il professore ci spiegasse la differenza
tra equazioni e identità. Sul libro c’era un esempio
(a2+b2)2 = (a2- b2)2 + 4a2b2
Bisognava
sostituire dei numeri a piacere e constatare che l’uguaglianza risultava sempre
verificata. Provai con a =2 e b = 1…
(4+1)2 = (4 – 1)2 + 4x4x1… cioè 52 = 32
+ 42
Incredibile!, la
formula generava una delle mie terne pitagoriche. Provai ancora ponendo a =3 e
b =2…
132 = 52 + 122
e ottenni
un’altra terna.
Cominciai a
sostituire varie coppie di numeri e tutti davano terne differenti… ponendo a =
15 e b =11, risultava la terna 104, 330, 356.
Avevo
riconosciuto una formula molto semplice che permetteva di generare tutte le
possibili terne pitagoriche.
Sono sicuro che
Mario, nel profondo degli abissi degli oceani, sorrise e mormorò: “… finalmente!”.
Quando superai
l’esame di terza media, la mia famiglia ricevette dalla scuola una lettera
nella quale si diceva che da un esame della mia personalità, dei miei interessi
e delle mia capacità, certamente ero in grado di affrontare l’istituto per
geometri.
Io mi impuntai e
dissi a mio padre che assolutamente volevo fare il liceo scientifico.
Assolutamente.
Mio padre
accettò; mia madre si disperò: non ce l’avrei mai fatta.
Al primo anno
non fui fortunato. L’insegnante di lettere ci imponeva continue gare di latino,
almeno una a settimana, fondata sulla velocità e sul nozionismo; di italiano, anche
qui, decine e decine di poesie a memoria, e ore e ore di lavoro impegnate a
compilarne le parafrasi. Le parafrasi… quell’esercizio ostinato e massacrante,
orientato alla traduzione della poesia in prosa banale, cioè all’annientamento
della poesia stessa.
Dovetti ripetere
l’anno, dati i miserabili risultati in latino, e quelli un po’ migliori ma
sempre insufficienti in italiano. Al secondo tentativo fui promosso. I docenti
che mi capitarono erano indubbiamente migliori di quelli che avevo incontrato
al primo anno… sapevano motivare, suscitando interesse e attenzione. Il punto
debole della scuola di quegli anni erano i vecchi programmi; paradossalmente mi
annoiavo in particolare alle lezioni di Matematica; non sopportavo le
noiosissime procedure, accompagnate da grafici su grafici per risolvere
equazioni e disequazioni irrazionali o trigonometriche, oppure l’esasperante
discussione del sistema misto parametrico di secondo grado, eseguita col metodo
di Tartinville.
Ricordo ancora
nei primissimi anni della mia carriera, i richiami di una famosa preside,
autrice di un prestigioso libro di testo, che mi rimproverava di dedicare
troppo poco tempo a questo argomento fondamentale per la formazione di una
rigorosa mentalità matematica. Ero ancora un giovane precario; non potevo
nemmeno replicare e dovevo solo adeguarmi.
Quando ero
insegnante già da una decina di anni, venne pubblicato un libro di testo nella
cui introduzione si motivava più o meno così l’espulsione del metodo di Tartinville
dagli argomenti proposti: il metodo di Tartinville, una vuota tecnica estremamente
farraginosa, ha avuto finora un ruolo eccessivo, in Italia, nella didattica
della Matematica e questo è successo a causa dell’influenza di alcuni mediocri
matematici italiani nella formulazione dei programmi scolastici. Il tempo, le
energie e l’impegno profusi per colpa della ‘tartinvillite’, nello studio di
questo metodo, hanno contribuito sicuramente ad allontanare migliaia di
studenti dallo studio della matematica. (A conferma, si può rintracciare
facilmente un famoso articolo di Bruno de Finetti ‘Come liberare l’Italia dal
morbo della trinomite’).
Incontrai ancora
le terne pitagoriche: in terza, quando la mia professoressa mi insegno che la
parabola è il luogo dei punti equidistanti dal punto fisso detto fuoco e dalla
retta fissa detta direttrice.

e in quarta, quando imparai il
significato delle funzioni trigonometriche, e compresi che con le terne
pitagoriche si potevano costruire triangoli rettangoli in cui gli angoli acuti
avessero ‘quasi’ ogni inclinazione… infatti, per esempio, non si può costruire
un triangolo di 45, 45, 90… ma inserire qui una digressione sui numeri
irrazionali, mi pare eccessivo.
Alla fine del
liceo, mia madre avrebbe voluto che io mi iscrivessi a ingegneria; mio padre, a
economia.
Io volevo la
libertà. Mi era stato impedito di conoscere il mondo che mi circondava; sapevo
che avrei sempre fatto fatica a capire il comportamento degli altri, a tessere
relazioni con le persone che conoscevo solo dai romanzi, dai film, dai teatri;
mi trovavo a mio agio solo nel mondo dei numeri e delle figure geometriche;
ebbene, ora volevo esplorare liberamente e in profondità il solo mondo nel
quale mi era stato consentito di muovermi senza paura: il mondo della Matematica.
E la mia scelta fu Matematica.
Qui ebbi la
fortuna di scoprire nuovi immensi territori. Mi dedicai allo studio della
meccanica razionale e della fisica matematica; studiai i problemi della numerabilità,
della decidibilità e della computabilità; scoprii che le mie terne pitagoriche
erano legate alle equazioni diofantee e alla ‘insolubile’ congettura di Fermat
ed ebbi la fortuna di scoprire per caso alcune proprietà di una famosa funzione
ricorsiva.
Ne parlai col
professor M. che ne fu incuriosito; insieme andammo a parlarne col professor
T.: una autorità, sull’argomento. Con una certa civetteria, mi disse di
spiegare, scrivendo alla lavagna… “scriva grosso, ché io non ci vedo tanto
bene… e parli lentamente, ché io faccio fatica a capire…”. La sua frase mi mise
a mio agio.
Quando alla
lavagna spiegavo quello che avevo scoperto mi sembrava di essere tornato a
quella sera in cui spiegavo a mio padre tutto quello che avevo scoperto sulle
terne pitagoriche..
I due professori
mi ascoltavano con grande attenzione. Alla fine il professor T. , che aveva
annuito ripetutamente durante la spiegazione commentò: “Certo… certo… è proprio
così…”. Il professor M. mi si avvicinò e guardandomi negli occhi mi chiese: “…
ma lei questa ricerca l’ha fatta tutta da solo?”, “Si, certo”. Il professor M.
mi tese la mano, annuì, e mentre si congratulava mi chiese: “… perché non si
ferma a lavorare con noi?...”. … perché io ora, volevo esplorare il mondo.