domenica 29 giugno 2014

Viaggiando in treno con mio figlio

Venerdì 27 giugno 2014, ore 19.05, treno da Vigevano a Milano-Porta Genova

Non mi piace viaggiare senza biglietto; non mi piace rischiare di perdere il treno perché la biglietteria è chiusa e al bar, se non è chiuso anche quello, c’è la fila di chi oltre al biglietto compera le sigarette, paga il cappuccino, discute della partita e sembra che faccia apposta a perdere tempo.
È per questo che sono abituato a comperare dieci biglietti per volta, e a tenere la scorta nel portafoglio.
Venerdì sera devo andare a Milano; anche mio figlio deve.
Guardo nel portafoglio; ho solo un biglietto. Glielo lascio ed esco prima di lui che si sta ancora preparando per andare all’edicola a ricostituire la mia scorta.
Mio figlio prende il biglietto e si accorge che il biglietto è “scaduto” il giorno prima; i biglietti ora hanno validità solo di due mesi.
Chi ha autorizzato le ferrovie di stato a emettere biglietti con scadenza? C’è una legge o è solo un regolamento?
Da quando i biglietti delle ferrovie scadono? E perché devono scadere? Sono forse yogurt? E perché due mesi? Perché non sei mesi? O un anno? O una settimana?
Dico a mio figlio che per un giorno non è possibile che ci facciano delle storie. “Ma si… speriamo”. Nota bene, il prezzo del biglietto non ha subito aumenti negli ultimi due mesi… capirei se il prezzo fosse aumentato.
Ci ritroviamo sulla banchina; biglietto vecchio lui, biglietto nuovo io.
Il treno è in ritardo di venti minuti, (il viaggio dura in tutto circa mezzora) e mio figlio si innervosisce; arriverà in ritardo al suo appuntamento.
Arriva il capotreno (così si qualifica); guarda il biglietto: “Questo biglietto non è valido, è scaduto ieri”
“E allora cosa succede?”
“Deve pagare otto euro e …” e intanto tira fuori il blocchetto per scrivere la multa.
Otto euro è più del doppio del costo del biglietto che è già stato pagato.
“Per un treno che ha venti minuti di ritardo? Io non pago. Ho già pagato questo.”
“Se non paga o scende o chiamo la polizia.”
“La polizia per il ritardo non c’è mai?”
“Se vuole, per il ritardo può compilare un reclamo quando arriva a Milano ma ora deve pagare!”
“Piuttosto che pagare di nuovo scendo.”
“E allora vada!”
Il capotreno accompagna mio figlio alla porta con protervia e arroganza.
Anch’io vado alla porta per poter seguire tutta la scena. Siamo ad Abbiategrasso. Mio figlio scende.
“Vada in biglietteria, fa un biglietto nuovo e tra un’ora prende il prossimo”.
È evidentemente soddisfatto del suo operato. Le porte si chiudono. Adesso intervengo io: “Lei si fermi che devo dirle una cosa.”
Il capotreno cambia tono e atteggiamento. È giovane, avrà trent’anni e i miei capelli bianchi lo inducono a mettere da pare l’arroganza.
“Dica”
“Quello che lei ha costretto a scendere dal treno è mio figlio. Lei sa di avere sbagliato, vero?”
“No… il regolamento dice…”
“Il regolamento è senza senso e sbagliato… a scuola non le hanno insegnato che ai regolamenti sbagliati, alle leggi sbagliate si deve disubbidire!”
“Se il biglietto è scaduto è carta straccia… non è colpa mia!”
“Ubbidendo a certe leggi e a certi regolamenti è stato costruito Auschwitz, e sono stati massacrati milioni di innocenti… mentre ne sono stati salvati migliaia da chi si è rifiutato di ubbidire a quei regolamenti…”
“Ma lei non può fare questi paragoni”
“Ha ragione; non si può. Quelli che hanno salvato migliaia di innocenti lo hanno fatto a rischio della loro vita… lei invece non rischiava proprio niente… lei ha solo voluto affermare la legge del più forte, lei ha voluto compiere un atto di prepotenza gratuito e senza senso.”
La gente che nel frattempo si è avvicinata si fa forza e lo apostrofa “… perché è uno stronzo!”; “Non dubitare che se c’erano due o tre che si incazzavano e gli mettevano le mani addosso, non parlava mica con quel tono lì…”.
È ora di concludere: “Adesso vada, lei ha sbagliato, lo sappia e si ricordi di quello che le ho detto: quando le leggi sono sbagliate non si devono applicare”.
Il capotreno mette sotto il braccio le sue cose e si allontana a testa bassa.
“Ha fatto bene!”; “Grazie!”
“Gli mettono una divisa addosso e si credono chissà cosa”
“Meno male che ogni tanto c’è qualcuno che è capace di rispondergli. Grazie”
Torno a sedermi al mio posto. Mi telefona mio figlio. “Ciao pa’,… non ti preoccupare per me, ho preso il biglietto e adesso sto aspettando… ho telefonato a Milano che arrivo in ritardo… stai tranquillo… buona serata”.
No, caro figlio, tranquillo non ci sto. Non riesco a non pensare al mondo paranoico dei piccoli burocrati di Kafka e della “La banalità del male” di Annah Arendt; penso ai bigliettai dello stadio che dopo la proclamazione delle leggi raziali impedivano agli ebrei di entrare a vedere la partita … “La legge è legge! Le leggi non le ho fatte io…”
Ci siamo ancora. Percepisco questo cancro che lavora e si diffonde silenzioso nella società, pronto a riemergere per prendere il potere non appena qualcuno gli aprirà un varco per dilagare. No caro figlio, tranquillo non ci sto.