Viaggiando
in treno con mio figlio
Venerdì
27 giugno 2014, ore 19.05, treno da Vigevano a Milano-Porta Genova
Non mi
piace viaggiare senza biglietto; non mi piace rischiare di perdere il treno perché
la biglietteria è chiusa e al bar, se non è chiuso anche quello, c’è la fila di
chi oltre al biglietto compera le sigarette, paga il cappuccino, discute della
partita e sembra che faccia apposta a perdere tempo.
È per
questo che sono abituato a comperare dieci biglietti per volta, e a tenere la
scorta nel portafoglio.
Venerdì
sera devo andare a Milano; anche mio figlio deve.
Guardo
nel portafoglio; ho solo un biglietto. Glielo lascio ed esco prima di lui che
si sta ancora preparando per andare all’edicola a ricostituire la mia scorta.
Mio
figlio prende il biglietto e si accorge che il biglietto è “scaduto” il giorno
prima; i biglietti ora hanno validità solo di due mesi.
Chi ha
autorizzato le ferrovie di stato a emettere biglietti con scadenza? C’è una
legge o è solo un regolamento?
Da
quando i biglietti delle ferrovie scadono? E perché devono scadere? Sono forse yogurt?
E perché due mesi? Perché non sei mesi? O un anno? O una settimana?
Dico a
mio figlio che per un giorno non è possibile che ci facciano delle storie. “Ma
si… speriamo”. Nota bene, il prezzo del biglietto non ha subito aumenti negli
ultimi due mesi… capirei se il prezzo fosse aumentato.
Ci
ritroviamo sulla banchina; biglietto vecchio lui, biglietto nuovo io.
Il
treno è in ritardo di venti minuti, (il viaggio dura in tutto circa mezzora) e
mio figlio si innervosisce; arriverà in ritardo al suo appuntamento.
Arriva
il capotreno (così si qualifica); guarda il biglietto: “Questo biglietto non è
valido, è scaduto ieri”
“E
allora cosa succede?”
“Deve
pagare otto euro e …” e intanto tira fuori il blocchetto per scrivere la multa.
Otto
euro è più del doppio del costo del biglietto che è già stato pagato.
“Per
un treno che ha venti minuti di ritardo? Io non pago. Ho già pagato questo.”
“Se
non paga o scende o chiamo la polizia.”
“La polizia
per il ritardo non c’è mai?”
“Se
vuole, per il ritardo può compilare un reclamo quando arriva a Milano ma ora
deve pagare!”
“Piuttosto
che pagare di nuovo scendo.”
“E
allora vada!”
Il
capotreno accompagna mio figlio alla porta con protervia e arroganza.
Anch’io
vado alla porta per poter seguire tutta la scena. Siamo ad Abbiategrasso. Mio
figlio scende.
“Vada
in biglietteria, fa un biglietto nuovo e tra un’ora prende il prossimo”.
È evidentemente
soddisfatto del suo operato. Le porte si chiudono. Adesso intervengo io: “Lei
si fermi che devo dirle una cosa.”
Il
capotreno cambia tono e atteggiamento. È giovane, avrà trent’anni e i miei
capelli bianchi lo inducono a mettere da pare l’arroganza.
“Dica”
“Quello
che lei ha costretto a scendere dal treno è mio figlio. Lei sa di avere
sbagliato, vero?”
“No…
il regolamento dice…”
“Il
regolamento è senza senso e sbagliato… a scuola non le hanno insegnato che ai
regolamenti sbagliati, alle leggi sbagliate si deve disubbidire!”
“Se il
biglietto è scaduto è carta straccia… non è colpa mia!”
“Ubbidendo
a certe leggi e a certi regolamenti è stato costruito Auschwitz, e sono stati
massacrati milioni di innocenti… mentre ne sono stati salvati migliaia da chi
si è rifiutato di ubbidire a quei regolamenti…”
“Ma
lei non può fare questi paragoni”
“Ha
ragione; non si può. Quelli che hanno salvato migliaia di innocenti lo hanno
fatto a rischio della loro vita… lei invece non rischiava proprio niente… lei
ha solo voluto affermare la legge del più forte, lei ha voluto compiere un atto
di prepotenza gratuito e senza senso.”
La
gente che nel frattempo si è avvicinata si fa forza e lo apostrofa “… perché è
uno stronzo!”; “Non dubitare che se c’erano due o tre che si incazzavano e gli
mettevano le mani addosso, non parlava mica con quel tono lì…”.
È ora
di concludere: “Adesso vada, lei ha sbagliato, lo sappia e si ricordi di quello
che le ho detto: quando le leggi sono sbagliate non si devono applicare”.
Il
capotreno mette sotto il braccio le sue cose e si allontana a testa bassa.
“Ha
fatto bene!”; “Grazie!”
“Gli
mettono una divisa addosso e si credono chissà cosa”
“Meno
male che ogni tanto c’è qualcuno che è capace di rispondergli. Grazie”
Torno
a sedermi al mio posto. Mi telefona mio figlio. “Ciao pa’,… non ti preoccupare
per me, ho preso il biglietto e adesso sto aspettando… ho telefonato a Milano
che arrivo in ritardo… stai tranquillo… buona serata”.
No,
caro figlio, tranquillo non ci sto. Non riesco a non pensare al mondo paranoico
dei piccoli burocrati di Kafka e della “La banalità del male” di Annah Arendt; penso
ai bigliettai dello stadio che dopo la proclamazione delle leggi raziali
impedivano agli ebrei di entrare a vedere la partita … “La legge è legge! Le leggi
non le ho fatte io…”
Ci
siamo ancora. Percepisco questo cancro che lavora e si diffonde silenzioso nella
società, pronto a riemergere per prendere il potere non appena qualcuno gli
aprirà un varco per dilagare. No caro figlio, tranquillo non ci sto.