martedì 20 dicembre 2011

l'ultima regia di Hoffmann Sandor

Luigi Alcide Fusani
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L’ultima regia di Hoffmann Sandor

Su uno schermo vengono proiettati alcuni ritratti di Kafka.
Una voce fuori scena:

La colonia penale si trova su un’isola.
Un esploratore straniero vi arriva, e viene invitato ad assistere alla esecuzione capitale di un condannato per insubordinazione e oltraggio al superiore.
La pena viene eseguita per mezzo della “macchina”: una invenzione del precedente comandante. L’ordinamento di tutta la colonia è opera sua.

L’ufficiale incaricato dell’esecuzione, illustra all’esploratore il funzionamento della macchina.
La macchina è formata da tre parti: la parte inferiore si chiama il letto, quella superiore il disegnatore e quella di mezzo, oscillante, l’erpice.
Sul letto viene steso il condannato, completamente nudo.
Il disegnatore è l’insieme dei macchinari che rendono possibile il funzionamento della macchina.
L’erpice è fatto di vetro per rendere possibile a tutti il controllo dell’esecuzione della condanna; l’erpice contiene gli aghi, e abbassandosi e vibrando, trafigge il corpo.
Al condannato viene inciso sul corpo il comandamento che ha violato.

Il condannato non sa nemmeno di essere stato condannato, non ha avuto modo di difendersi e non conosce la sua condanna; imparerà a conoscerla sul suo corpo.
La colpevolezza è sempre fuori discussione.
L’esecuzione dura dodici ore. Nelle prime sei ore il condannato vive quasi come prima, non sente che dolore. Soltanto verso la sesta ora l’uomo si quieta; al più ottuso si dischiude l’intelligenza e l’uomo decifra lo scritto con le sue ferite.
Quando la sentenza è stata eseguita l’ufficiale e un soldato lo sotterrano.

Ma ora, il nuovo comandante si serve di ogni pretesto per combattere le vecchie istituzioni (il suo modo di pensare è legato ai pregiudizi della cultura europea); invece l’ufficiale consuma tutte le sue forze per mantenere in vita quel che esiste.
L’ufficiale chiede aiuto all’esploratore, in difesa della macchina, dell’ordinamento e delle procedure, ma non lo ottiene.
L’ufficiale allora libera il condannato, pone se stesso sul lettino e avvia la macchina che inizia a scrivere sul suo corpo: “Sii giusto”.
L’esploratore si allontana dal luogo dell’esecuzione. Tornando al porto passa vicino ai palazzi del comando tutti molto malandati. Il vecchio comandante è sepolto qui.

“Qui riposa il vecchio comandante. I suoi seguaci, che ora devono restare anonimi, gli hanno scavato questa tomba e posto questa lapide. Esiste una profezia secondo cui il comandante dopo un certo numero di anni risorgerà e guiderà i suoi seguaci alla riconquista della colonia. Abbiate fede e attendete”.


Buongiorno,

mi presento: io sono Luigi Von Hessen, figlio del barone Karl Von Hessen, e della contessa Giovanna Visconti Ferrari... credo che non serva che io dica altro sulle mie famiglie di origine...
Mi trovo qui, su questo palco, questa sera, per adempiere alle ultime volontà di mio padre, recentemente scomparso, dopo una lunga vita segnata da un dolore insostenibile.
Dolore e vergogna... che lo hanno portato, più di cinquanta anni fa, a chiudersi in un silenzio impenetrabile... afasia totale...

Brevemente... mio padre era nato nel 1918, a Berlino, studente brillante, aveva terminato gli studi liceali con un certo anticipo sulla media.
Dopo il liceo si era iscritto al politecnico per seguire studi di ingegneria meccanica... e anche qui i risultati furono eccellenti.
Tuttavia, contemporaneamente... mentre frequentava l’università, si dedicò anche a certi suoi interessi artistici e filosofici... scriveva racconti, frequentava studi di pittori... era molto attratto soprattutto dal cinema. Fu questo interesse che lo portò ad assistere alle riprese di alcuni film, e a fare amicizia con alcuni direttori... oggi si dice “registi”.
Questo interesse, queste amicizie condizionarono tutta la sua vita.
Purtroppo per lui, il caso volle che egli si trovasse a vivere nel luogo e nel periodo storico dominato dal nazionalsocialismo.
La nostra famiglia... mio nonno, in particolare, aveva sempre nutrito un certo aristocratico e distaccato disprezzo per il nazionalsocialismo... 
Mio nonno aveva cercato in tutti i modi di non esserne coinvolto, e di tenerne fuori tutti i suoi famigliari, mio padre compreso.
È per questo che quando scoppiò la guerra, grazie a qualche conoscenza, mio padre, invece di essere inviato sul fronte orientale a presidiare i territori conquistati a est,  venne inserito, negli apparati incaricati di realizzare documentari e filmati per la propaganda del regime e delle sue “brillanti imprese”.

Dopo la guerra, mio padre venne sottoposto a un breve processo, nel quale fu riconosciuta la sua innocenza rispetto ai più gravi crimini di guerra commessi in quegli anni. Nel 47 dopo un breve fidanzamento si sposò con mia madre. Lasciò la Germania e si trasferì a vivere in una villa della nostra famiglia sul lago di Garda, vicino a Riva.
Io e mia sorella siamo nati nel 49 e nel 51... nel 54 mio padre si è ammalato e da allora, praticamente, è stato sempre assistito. Trascorreva le sue giornate, facendo lunghe, lente passeggiate, ascoltando musica, Bach, principalmente...
Sembrava... che non vedesse nessuno davanti a sé... sembrava sempre che guardasse lontano... forse nel passato...

Quando è morto, a quasi novant’anni, ho ricevuto una lettera dai notai Casali-Borromeo, i notai che da sempre si occupano del patrimonio della nostra famiglia. Mi convocavano presso il loro studio per adempiere alle ultime volontà di mio padre. A ricevermi, oltre ad Alberto, l’attuale dominus dello studio, c’era anche il padre, il vecchio Giovanni Maria... che ormai ha quasi novant’anni, e per mio padre era stato qualcosa di più di un amministratore... forse era stato il suo unico vero amico.
Quando sono arrivato, mi è venuto incontro sorridente, come sempre. Lo studio era in penombra, anche se a quell’ora del primo pomeriggio, di solito, lo studio sarebbe molto luminoso.
Non mi ha fatto sedere davanti alla scrivania... mi ha fatto accomodare accanto a lui sul grande divano... “Caro Luigi, ti abbiamo chiamato solo adesso, in quanto tuo padre aveva dato disposizioni precise affinché che tu ricevessi questo materiale solo dopo la sua morte... certo non immaginava di vivere tanto a lungo... forse temeva che tu lo giudicassi... si giudicava già da se stesso, con durezza... non si perdonava... non voleva dimenticare. Non voleva dimenticare...”.
A questo punto è intervenuto Alberto “... lasciamo stare i ricordi. Ascolta, Luigi, qui ci sono alcune cose che dobbiamo consegnarti da parte di tuo padre... sono cose che tuo padre ha depositato qui nel 1954... nel maggio del ’54, poco prima di chiudersi nel suo silenzio definitivo
Qui c’è una busta... contiene un libro... è una vecchia copia di “In der Strafkolonie”... “Nella colonia penale”, di Kafka e una lunga lettera per te... e poi ci sono due scatole... in una c’è una pellicola... nell’altra c’è un vecchio proiettore... devi vedere una cosa... ”, poi cominciò ad armeggiare “... vieni, vieni a vedere come funziona... perché poi questa macchina, te la devi portare via tu...”
Dopo pochi minuti eravamo pronti. Anche gli ultimi spiragli di luce erano stati chiusi... Dopo più di cinquanta anni dall’ultima volta che era stato proiettato stavamo per vedere... “Nella colonia penale”, film inedito di Hoffmann Sandor, liberamente ispirato al racconto di Franz Kafka, montato da Karl Von Hessen.

Hoffmann Sandor, regista ungherese, ebreo, nato a Budapest nel 1906, attivo in Germania fino agli inizi degli anni ‘30, come Lang, Ophüls e Billy Wilder.
Quando gli fu impedito di lavorare, non volle emigrare in America; la famiglia era benestante, e lui preferì vivere tra Berlino e l’Ungheria, aspettando tempi migliori e scrivendo sotto pseudonimo, o per conto di altri, commedie leggere, testi per operette e adattamenti di racconti e romanzi per il teatro.
Catturato a Budapest e deportato nel maggio del ‘44, morì nel campo di Kulmhof nel gennaio del ‘45, pochi giorni prima della liberazione del campo stesso, ucciso da un ufficiale delle SS che, in preda a una furia incontrollabile, sparava ai deportati ancora vivi urlando “... Distruggere tutto! Distruggere tutto!”.

* * *
 “Caro Luigi, non so tra quanti anni leggerai questa lettera; sicuramente sarai già un uomo. Ti scrivo prima che sia troppo tardi, perché sento che qualcosa in me non va: non riesco a dormire, la notte... mangio sempre di meno e perdo peso in continuazione; ogni tanto sono preso da stati di depressione, e dalla tentazione di porre fine ai miei giorni. Fin’ora ho resistito perché sorretto dalla volontà di portare a termine un lavoro, un impegno che forse varrà a riscattare un poco la memoria e il bilancio della mia vita. Che Dio abbia pietà di me, e anche tu, perdonami.
Ho appena finito di montare il film “Nella colonia penale”, film segreto di Hoffmann Sandor, mio maestro e amico. Se il notaio Casali-Borromeo, rispetterà le mie volontà, a questo punto tu dovresti averlo già visto. È un’opera assolutamente inedita. Il suo valore artistico e di documento sono incalcolabili. Ora, solo tu e il notaio siete a conoscenza della sua esistenza. La affido a te, perché tu la faccia conoscere.
Papà”

Negli altri fogli c’era il racconto dei suoi incontri con Hoffmann Sandor.... la storia del film... come era nato... come era stato realizzato...

“Questa storia comincia circa nel 1936; frequentavo il primo anno di ingegneria meccanica al politecnico di Berlino. L’ingegneria non era il mio unico interesse, ma la meccanica mi incuriosiva; mi interessava in particolare la meccanica razionale; studiare e analizzare il movimento in modo matematico, per poter costruire macchine dal funzionamento perfetto. Nel mio corso ci interessammo anche della costruzione di una nuova macchina da presa per le riprese a colori con il processo Agfacolor; mi affascinava il funzionamento della macchina che poteva registrare il movimento, l’azione... per poi restituirla sullo schermo.. Per il suo collaudo ci recammo in uno studio di ripresa...  stavano effettuando le riprese di una commedia mediocre; tra le persone presenti riconobbi Hoffmann Sandor, un conoscente di mio padre; un ungherese. La sua famiglia era in rapporto di affari con la nostra.
Lavorava lì come sceneggiatore. Lo salutai e lui fu felice di vedermi; mi invitò in un locale lì vicino; disse che “tanto, di questi tempi...” meno si faceva vedere in giro, meglio era, per lui... Poteva parlare liberamente perché sapeva che nella nostra famiglia nessuno nutriva simpatie per Hitler. Sia noi che lui attendevamo con impazienza che quel periodo storico trovasse al più presto la sua fine. Lui era convinto che sarebbe successo presto.
Si sfogò un po’. Mi disse che il cinema tedesco non era più quello di una volta... da quando i suoi amici, i migliori... erano scappati in America. Mi parlò di Fritz Lang, di Max Ophüls, di Billy Wilder; mi raccontò di come lavoravano, di come pensavano, di come erano. Mi raccontò i loro film, me li spiegò... Avevo diciotto anni. Come li descriveva lui era più bello che vederli al cinema. Era un racconto affascinante e coinvolgente. Restammo lì tutto il pomeriggio, bevendo birra. Lui era più grande di me, ma non si poteva dire che fosse vecchio; aveva solo trent’anni. Quel pomeriggio diventammo amici. Quel pomeriggio, lui mi contagiò con la passione per il cinema.
Ci incontrammo ancora... spesso. A volte nei teatri di posa, a volte all’aperto, dove si giravano documentari, ma sempre più spesso nei locali, nei caffé, nelle birrerie, perché ormai lo chiamavano sempre meno. Riuscì a spiegarmi molte cose, riuscì a farmi capire quasi tutto. Come si pensa un film, come lo si progetta, come lo si realizza, come si istruiscono gli attori, come si fanno le riprese, come si fa il montaggio. Tutto. Mi raccontò di come aveva cominciato, facendo l’assistente di Lang; di come aveva realizzato i suoi primi film, di come aveva ottenuto i suoi primi successi con dei drammi espressionisti come “La forza dell’odio”, “Contro il destino”, e soprattutto con “Il castello”, tratto dal romanzo di Kafka.
Un anno dopo, decise di lasciare la Germania, ma ormai, diciamo così, ero contagiato. Tornò in Ungheria, dove era convinto di essere più al sicuro. Lì, il primo ministro, era consapevole del fatto che gli ebrei erano la spina dorsale della nazione e li avrebbe protetti a oltranza; pena una tragica decadenza per l’Ungheria intera.
L’ultimo giorno prima della sua partenza, ci trovammo al solito caffè. Lui mi diede un regalo che aveva portato per me: una vecchia edizione dei racconti di Kafka; una edizione preziosa, ormai introvabile perché a quell’epoca Kafka era considerato uno scrittore degenerato; era un autore fuori legge, e i suoi libri erano stati bruciati. Ho portato sempre con me quel libro, e mi piacerebbe che al momento della mia morte,  fosse sepolto insieme a me... ma forse è meglio che lo conservi tu.
Anche dopo la sua partenza, continuai a frequentare gli studi cinematografici e incominciai anche a collaborare alla realizzazione di documentari e filmati di propaganda.
Quando nel ’39 cominciò la guerra io avevo appena terminato i miei studi al politecnico. Mio padre ottenne dal colonnello Walter Staub, collaboratore diretto, potremmo dire braccio destro, di Goebbels, che io fossi inserito al Ministero della Propaganda, nelle strutture di produzione cinematografica. Avrei lavorato nella “fabbrica del consenso”.

Fui convocato al ministero in una mattina di febbraio del 1940. Lì, ebbi il primo dei miei due incontri con il colonnello Staub. Era una mattina fredda, il cielo coperto. Arrivai puntuale, come al solito, anzi, con qualche minuto di anticipo. Venni fatto accomodare quasi subito. Lo studio era arredato con mobili scuri, pesanti. Le bandiere e gli stendardi rossi e bianchi, con le croci uncinate davano un tono di volgarità a tutto l’ambiente. L’incontro fu sgradevole. Il colonnello non poteva darmi direttamente dell’imboscato; il rispetto per mio padre e per chi mi aveva raccomandato, glielo impedivano. Sicuramente era a conoscenza del poco entusiasmo, anzi, del fastidio che caratterizzava i rapporti di mio padre con il regime, e quindi non esitò ad esaltare a lungo l’eroismo e il valoroso sacrificio dei giovani impegnati in Polonia.
Dopo essersi sfogato, disse che anche l’attività di propaganda aveva un ruolo centrale nel sostenere l’entusiasmo della popolazione civile per le imprese del Führer, del popolo e dell’esercito tedesco... tuttavia, la sua personale opinione era che i mezzi più efficaci per la propaganda erano la radio e le adunate oceaniche, dove Hitler in persona come un faro luminoso irradiava direttamente, con la sua inesauribile energia, ciascuna delle migliaia di persone adunate ad ascoltarlo e a venerarlo.
Era perplesso sulla efficacia del cinema... sosteneva che i film documentari di Leni Riefenstahl potevano, si, restituire... ma solo parzialmente, la grandezza della Germania nazionalsocialista. Era contrario anche ai documentari... i documentari dal fronte o dai campi di lavoro, avrebbero potuto mostrare una visione superficiale e quindi distorta della realtà.
Ad esempio, se in un documentario dal fronte si mostrasse un soldato ferito, o un soldato morto, la maggior parte degli spettatori vedrebbe soltanto un morto o un ferito, e probabilmente proverebbe pietà e disappunto. Ma come mostrare l’anima del soldato, il suo spirito di sacrificio, la gioia di sacrificarsi per la vittoria del popolo tedesco, in nome del trionfo finale.
Con tono di ammonimento aggiunse che chi si dedica a documentare con immagini... deve essere abile nel mostrare le cose in modo che possano giovare veramente alla causa; è difficile mostrare la realtà... la vera realtà... renderla credibile con le sole immagini... se non si è in grado di farlo meglio non mostrare nulla.
Non bisogna mai dimenticare che ciò che noi mostriamo potrebbe essere  facilmente strumentalizzato dall’avversario...
Meglio... molto meglio la radio. Per radio, è molto più facile, usando parole fortemente evocative, costruire la vera realtà... una realtà che ad alcuni potrà sembrare falsa, ma che invece può essere più autentica e più vera di quella che appare.
Terminò citando il Führer “Le grandi masse sono più facilmente vittime di una grande bugia, che di una piccola”. Poi aggiunse “Io direi che le grandi masse non sono in grado di riconoscere da sole la verità autentica; è per questo che dobbiamo lavorare, noi, in questo ministero. Non lo dimentichi mai”.
A questo punto mi accompagnò in un ufficio vicino al suo dove un impiegato mi diede le indicazioni necessarie per iniziare il mio servizio.
Per quasi quattro anni fui impegnato a documentare le imprese dell’esercito tedesco su tutti i fronti di guerra. Principalmente si trattava di materiali destinati ai cinegiornali. Naturalmente nel mio lavoro mi attenevo scrupolosamente alle direttive del colonnello Staub. Un accurato lavoro di reticenza... eseguito semplicemente mettendo la macchina da presa, nel posto giusto, al momento giusto!.
Nella primavera del ’44, mentre mi trovavo a Berlino per il montaggio di alcuni materiali ripresi al fronte, venni convocato nuovamente al ministero. Mi ricevette ancora il colonnello Staub, per la seconda e ultima volta.
Le cose si stavano mettendo male sotto tutti i punti di vista, ma quello che più infastidiva il Ministero della Propaganda era che le “chiacchiere, le denunce, la propaganda del nemico” sempre più insistenti su quello che avveniva nei campi, si stavano diffondendo in tutto il mondo e l’ostilità delle opinioni pubbliche, nei confronti del nazionalsocialismo stava crescendo sempre più. Era giunto il momento di costruire una “grande bugia”. Gli altri popoli non potevano capire l’importanza del “lavoro”... chiamiamolo così che si stava facendo nei campi.
Mi venne affidato un grande progetto. Ero stato destinato al campo di Kulmhof, in Polonia, a circa cento chilometri da Poznan; un campo che si distingueva per la particolare efficienza dovuta alle straordinarie capacità organizzative del comandante che l’aveva diretto fino a poco tempo prima, poco prima di morire di infarto, nel pieno della sua attività, a nemmeno sessant’anni. Qui avrei dovuto girare un film; non più un documentario, bensì un vero e proprio film di finzione, per mostrare a tutto il mondo la “vera” realtà dei campi.
Mi consegnarono anche un plico, non molto voluminoso, ma piuttosto preciso, su quello che avevano in mente, e che io dovevo realizzare.
Bisognava mostrare prima di tutto, che nei campi tutti gli internati erano trattati con rispetto e umanità; tutti erano ben nutriti, con cibi poveri, ma sani; gli anziani curati e rispettati; a loro si chiedeva consiglio; i bambini istruiti, educati alle scienze, alla matematica, alla letteratura, alla musica, e soprattutto educati ai sani principi della Germania nazista.
Le ragazze studiavano danza e presentavano piccoli spettacoli nel teatrino del campo.
Bisognava mostrare che gli internati, uomini e donne, erano felici di lavorare nelle industrie che sorgevano intorno al campo; industrie elettriche, meccaniche, chimiche, militari. Tutto per il successo della nostra Germania. Tutti erano volontari; tutti invitati a restare, ma tutti liberi di andarsene praticamente in qualsiasi momento.
Questo dovevamo raccontare: liberi di andarsene, perdendo molti privilegi, è vero. Liberi di andarsene quei poveretti che “non capivano”, quei poveretti che volevano uscire dal solco luminoso che conduceva diritto alla gloria, quei poveretti, quei perdenti, destinati a mancare per sempre l’appuntamento fatale col destino e a chiedere l’elemosina all’angolo di qualche strada..

Quattro giorni dopo, arrivai al campo di Kulmhof. Mi avevano messo a disposizione una macchina con l’operatore che faceva anche da autista. Insieme a noi viaggiava anche un camion, con due operai specializzati in scenografie, su cui erano stati caricati la macchina da presa, i negativi, i riflettori, materiali da carpenteria, qualche elemento di scenografia che a Berlino avevano pensato che ci sarebbe stato utile. Con me viaggiava anche lo scenografo,  un architetto molto silenzioso; probabilmente sospettoso. Continuava a scattare fotografie con la sua Voigtländer. Foto di paesaggi, ma ogni tanto nel suo obbiettivo entravano anche delle rovine lasciate dai bombardamenti nemici. Aveva anche un taccuino da disegno sul quale continuava a tracciare schizzi in bianco e nero con una matita morbida. In ogni foglio metteva anche degli appunti sul luogo, il giorno e l’ora.
Durante il viaggio cominciai a studiare la traccia del documentario di “finzione”. Ad ogni scena chiedevo il suo parere sulla fattibilità, e lui subito tracciava due o tre schizzi, che commentava, per mostrarmi i pro e i contro delle varie opzioni e permettermi di scegliere.

Il campo si trovava in una zona abbastanza isolata, una radura a circa cinque chilometri dal centro abitato, ma separato da un bosco.
Arrivammo a pomeriggio avanzato. Fummo ricevuti dal vice comandante; il comandante aveva dovuto recarsi a Berlino per presentare una relazione sul funzionamento del campo, e sarebbe arrivato il giorno dopo. Fummo accompagnati nei nostri alloggi e il vice comandante ci informò che la cena sarebbe stata servita alle sette in punto. Durante la cena il nostro ospite fu molto gentile con noi; ci disse che era senza dubbio un grande onore che questo campo fosse stato scelto per la realizzazione di un documentario sulla grande opera che si stava realizzando nel Terzo Reich. Evidentemente non aveva ben compreso il senso del nostro lavoro. Cercai di non contraddirlo, dando generiche risposte di cortesia, ribadendo che avremmo avuto bisogno dell’aiuto suo e di tutti coloro che si trovavano all’interno del campo. Lui garantì che per quanto era nei suoi poteri l’appoggio sarebbe stato incondizionato. Alla fine della cena mi invitò nella sua camera per offrirmi un cognac e per mostrarmi i disegni di alcuni “progetti importanti”. Evidentemente gli avevo ispirato fiducia; forse aveva scambiato la mia cortesia per una sorta di complicità, e quindi nello spazio privato della sua camera aprì il suo cuore e la sua mente.

Prima di tutto l’ammirazione sconfinata per il direttore precedente, quello che aveva diretto la costruzione del campo e messo a punto i regolamenti e il funzionamento. Sosteneva che con lui mi sarei trovato benissimo, perché anche lui era ingegnere. Era morto di infarto sei mesi prima; aveva dedicato tutte le sue energie al campo, e nel campo aveva voluto essere sepolto, in una tomba umile, sotto una semplice lastra di marmo, in alto, sulla collina. 
Era un ingegnere geniale a suo dire; si, un genio che aveva messo a punto metodi sempre più efficienti per combinare il lavoro forzato, con lo sterminio sistematico. L’obbiettivo era eliminare il maggior numero di “pezzi” nel modo più rapido ed efficiente, bisognava risparmiare le munizioni, che erano preziose per l'avanzata sul fronte orientale, e c’erano soluzioni migliori delle camere a gas. Mi mostrò dei disegni, dei progetti; c’era una specie di sedia da dentista che conteneva una lama sottile, una specie di punteruolo che con un meccanismo a molla si conficcava nella nuca producendo la morte immediata... una specie di garrota. Semplice, economico, veloce e persino umanitario, perché la vittima moriva senza dolore, quasi senza rendersene conto.
“Bisogna che il vero colpevole paghi la giusta pena del suo delitto, pur con i metodi più umani”, disse.
C’era anche il progetto che mostrava come doveva essere allestito lo “studio”, con scivoli per facilitare l’uscita dei cadaveri, e il loro successivo smaltimento.
Era addolorato perché con la morte del vecchio comandante tutti questi progetti meravigliosi si erano insabbiati. Kulmhof sarebbe dovuto diventare il modello per tutti i campi del Reich. Cominciò a lamentarsi; a Berlino sicuramente non avevano compreso l’importanza di quei progetti, e il nuovo direttore non faceva nulla né per svilupparli né per ottenere le necessarie autorizzazioni per la loro sperimentazione.
Ormai i bicchieri di cognac che il vice comandante aveva buttato giù cominciavano a produrre il loro effetto. Venne fuori tutta la rabbia che bruciava la sua anima. A suo dire, il nuovo comandante,  lo aveva superato solo perché amico e parente di personalità altolocate del regime. Il posto di direttore spettava a lui; lui, che era stato fin dall’inizio col vecchio comandante; lui, che il campo lo aveva visto nascere, crescere e diventare quel magnifico esempio di efficienza che tutta la Germania ammirava; lui che era a conoscenza di tutti i progetti per migliorarlo.
Invece, il nuovo direttore non agevolava le attività del campo, anzi le rallentava, per non dire che proprio le ostacolava in ogni modo.
Espresse tutto il suo disappunto per la diminuzione del numero dei deportati avviati alle camere. Mi mostrò liste dettagliate e meticolose di registrazioni delle esecuzioni, delle morti per malattia, delle morti avvenute nelle camere a gas.
“Mentre in tutto il Reich, i campi aumentano la loro efficienza, secondo le direttive provenienti da Berlino, noi soli registriamo una diminuzione... quasi il 14 %... negli ultimi tre mesi”
“L’efficacia della nostra struttura è il solo metro di giudizio di ciò che è buono e di ciò che è cattivo”.
Aprì un coltello a serramanico con il manico di osso bianco e con la lama tutta decorata; lo piantò nella tavola; “Questo me lo ha lasciato il vecchio comandante, domani le farò vedere come lo usava lui...! La aspetto alle sette per mostrarle il funzionamento del campo, voglio farglielo vedere prima che arrivi il nuovo comandante. Buona notte.”.

Il giorno dopo alle sette del mattino, eravamo al centro del piazzale. Gli internati erano schierati, e il vice comandante passeggiava avanti e indietro nervosamente. Quando un uomo starnutì, il vice comandante dapprima si fermò, poi si avvicinò all’uomo; aveva trovato il pretesto che cercava. Lo fece uscire dallo schieramento.
“Cosa significa quello starnuto?”. L’uomo non rispose. “è forse un modo per far capire ai nostri ospiti che i vestiti che vi sono stati assegnati non vi coprono a sufficienza?”
“No signore, no!”. Il vice comandante gli strappò la casacca e lo lasciò a torace nudo.
“... è forse un modo per far intendere che nel vostro alloggio non c’è caldo a sufficienza?”
“No signore, no!”.
“Sai... c’è più caldo di quanto non ce ne sia nelle case di tanti tedeschi che muoiono di fame e di freddo, per questa guerra...
Noi oggi agiamo nel nome del creatore onnipotente… Combattendo contro l’ebreo, noi ci battiamo per l’opera del Signore!”. Urlò in modo che tutto il piazzale sentisse.
Poi si rivolse a me “Sa, signor ufficiale, questo individuo è un... ebreo... – disse questa parola con una certa riluttanza – grazie alla stella gialla si riconosce subito... – esitò un istante come se stesse finendo di caricarsi di rabbia, poi, con voce controllata, ma feroce disse – ... bisognerebbe tatuargliela sulla pelle... non cucirgliela sulla casacca... lo diceva anche il vecchio comandante... lui faceva così...” e a quel punto estrasse il coltello a serramanico e gli diede sei rasoiate in pieno petto, a disegnare una stella di sangue. L’uomo incominciò a perdere sangue abbondantemente, ma restava in piedi contorcendosi appena. A questo punto il vice comandante gli piantò il coltello nel cuore e l’uomo crollò al suolo.
L’ufficiale venne verso di me mentre gli altri deportati, agli ordini di altri ufficiali si allontanavano per recarsi ai posti di lavoro. Il corpo dell’uomo ucciso restò al suolo, lì dove era caduto.
“I mezzi per governare il campo sono la forza e il terrore – disse.
Dobbiamo chiudere i cuori alla pietà ed assumere un contegno brutale.
Dobbiamo essere crudeli, dobbiamo abituarci ad essere crudeli, resteremo comunque  con la coscienza pulita... annientare una vita senza valore non comporta alcuna colpa. Il debole deve essere distrutto”. Parlava come un automa, come se ripetesse una lezione imparata a memoria

Il campo era piuttosto grande, ci volle tutta la mattina per percorrerlo, per visitare le baracche, i servizi, i forni crematori. Il vice comandante mi spiegava il funzionamento di tutto quello che visitavamo, e soprattutto mi illustrava i cambiamenti che il vecchio comandante avrebbe voluto realizzare per rendere il campo ancora più efficiente.
Tutto sommato però, al momento, il funzionamento non era diverso da quello degli altri campi: all'arrivo, i prigionieri venivano divisi in due gruppi: i deportati troppo deboli per lavorare venivano eliminati immediatamente nelle camere a gas, e i loro corpi venivano bruciati; gli altri venivano impiegati nelle fabbriche situate dentro o attorno al campo. Il tifo, la fame, i ritmi di lavoro massacranti decimavano i deportati quotidianamente.

A mezzo giorno, quando tornammo, il comandante era appena rientrato. Sembrava abbastanza stanco. Mi invitò a mangiare al suo tavolo e mi chiese di parlare del progetto. Gli dissi quali erano le intenzioni del ministero, e gli espressi anche i miei dubbi sulla possibilità di svolgere adeguatamente il lavoro, dopo quello che avevo visto al mattino. Quando ero partito da Berlino immaginavo che la situazione nei campi fosse drammatica, ma non fino a quel punto. Non rispose, mi disse che in pomeriggio avremmo fatto un nuovo giro, io e lui, un sopra luogo, e avremmo analizzato quello che si poteva fare. Evidentemente non aveva intenzione di farsi sentire dagli altri ufficiali, mentre esprimeva il suo pensiero.
Durante la passeggiata pomeridiana, lontano da orecchie indiscrete, mi espresse tutto il suo pessimismo sulla situazione. Ormai era chiaro: la guerra era persa, la fine imminente era questione di pochi mesi. Fu molto severo anche con gli apparati di propaganda del regime. “La propaganda ha schiacciato la ragione, la logica, l’evidenza. La propaganda ha schiacciato il pensiero; invece di ascoltare le parole dei nostri filosofi, dei nostri scrittori, dei nostri poeti,  ci siamo lasciati abbagliare dalle chiacchiere di... dalle chiacchiere della propaganda. Siamo tutti colpevoli, voi... anche più di noi. Comunque ormai non si può più fare nulla. Bisognava fermarsi prima. Ora, bisogna recitare fino in fondo la nostra parte, fare il nostro dovere, e prendercene la responsabilità”.
Finimmo il nostro giro in silenzio.
Io mi ritirai nel mio alloggio, e cominciai a lavorare sui materiali che avevo ricevuto al ministero. Durante il viaggio avevo preso appunti per “Una giornata al campo di Kulmhof”. La scaletta del documentario doveva mostrare il sorgere del sole sul campo, il risveglio, l’igiene del primo mattino, con la ginnastica all’aria aperta... poi gli adulti al lavoro, uomini e donne, e i bambini a scuola. Le cucine dove si preparano i pasti e la pausa per il pranzo, un breve riposo prima di riprendere le attività pomeridiane, i bambini a fare compiti, a esercitarsi nella musica, le ragazze nel canto e nella danza. Tempo libero per i propri interessi prima del pasto serale e infine, alla sera lezioni di “storia ed educazione” per tutti. Il riposo notturno, mentre la luna illumina il bosco.

Nei giorni successivi mostrai il progetto allo scenografo, al comandante e al vice comandante del campo. Discutemmo di come poter realizzare le scene previste. Alcune, con opportuni accorgimenti si potevano realizzare anche subito, abbastanza facilmente. Per altre le cose erano più complicate.
Per la ginnastica all’aria aperta,  bastava non riprendere il fango del piazzale, puntare la macchina verso l’alto e mostrare solo volti sorridenti e primi piani contro il cielo azzurro. Per le cucine si potevano fare delle riprese in quelle della mensa ufficiali.
Per le riprese con i bambini invece le cose erano più complicate. I bambini, appena arrivavano al campo erano indirizzati alle camere a gas. Decidemmo che per i prossimi arrivi avremmo ritardato l’operazione, per consentire le riprese. La cosa suscitò le critiche del vice comandante che vedeva in questa scelta un ulteriore riduzione della efficienza del campo. Propose che per girare queste scene si utilizzassero i bambini del villaggio, ma il comandante lo mise a tacere facendogli osservare che nessuno avrebbe potuto scambiare per bambini ebrei, i nostri bambini ariani.
Si dovette anche cercare il luogo dove poter girare le scene, ma al campo non ce n’erano; si decise andare alla scuola del villaggio e adattare un’aula. Anche qui il vice comandante avanzò l’obbiezione che se si consentiva con tanta facilità ai bambini di uscire dal campo, questi avrebbero potuto fuggire, o essere rapiti con una certa facilità, vanificando così tutto il lavoro di raccolta svolto precedentemente. Il comandante accettò le osservazioni e predispose un “sevizio di vigilanza di ferro” in modo che non uno solo dei bambini potesse sottrarsi al suo destino.
Quando iniziammo le riprese, scoprimmo che tra i bambini che dovevano, diciamo così, frequentare la scuola di musica, solo cinque o sei erano in grado di eseguire un solfeggio, e di tenere in mano correttamente uno strumento. Uno dei soldati, che da civile era maestro di musica, fu incaricato di insegnare ai ragazzi le giuste posizioni, in modo che durante le riprese sembrasse che davvero si stessero facendo le prove dell’orchestra dei piccoli. Durante il montaggio sarebbe stata aggiunta la musica registrata altrove.   
Lavorammo in questo modo per circa due mesi, fronteggiando continuamente l’irritazione crescente del vice comandante che era sempre più impaziente e aspettava solo il momento in cui le riprese e il nostro lavoro sarebbero finiti.
Anch’io avrei voluto finire il più rapidamente possibile.
Quello che stavo vedendo da quando ero arrivato al campo era incomprensibile. Dire che era mostruoso, che era orribile, è talmente riduttivo che, come tutti i luoghi comuni non dice niente.
 Io per la macchina della propaganda nazista dovevo contribuire a costruire una enorme menzogna... una menzogna a cui, per la verità, molti volevano credere, sia in Germania che fuori; “Appartiene al meccanismo dell’oppressione vietare la conoscenza del dolore che produce” avrebbe scritto Adorno qualche anno dopo.
Alla metà di maggio, arrivò un treno carico di deportati. Erano tutti ungheresi. Il comandante diede ordine di sospendere la procedura normale; i nuovi arrivati potevano essere utili per le riprese del film. Naturalmente il vice comandante sosteneva che non c’era posto per tutti nelle baracche, e che almeno una certa selezione, che avrebbe potuto operare lui stesso, andava messa in atto. Il comandante invece fu irremovibile: i vecchi e le donne servivano per creare un’aria di famiglia, i malati dovevano servire per gli ambulatori e per l’ospedale del campo; gli uomini tutti dovevano essere avviati ai lavori e tutti gli internati, tutti dovevano essere trattati con una certa umanità.
I nuovi arrivati furono inquadrati sul piazzale del campo e si procedette alla identificazione e alla registrazione.
Io e il comandante assistevamo alle operazioni, quando a un cero punto, mi sentii osservato. Nella fila degli uomini adulti un uomo mi guardava, con uno sguardo  vagamente interrogativo. Lo riconobbi, e lui se ne accorse: era Hoffmann Sandor. Da quando ero arrivato al campo, temevo che questo momento sarebbe arrivato; temevo di vedermelo comparire davanti... speravo che fosse riuscito a fuggire in America o in Svizzera... quella mattina invece...
Ci scambiammo un cenno di intesa minimo. Temevo che rendere pubblica la nostra conoscenza potesse in qualche modo danneggiarlo. Attesi con pazienza che arrivasse il suo turno e quando fu davanti al banchetto, rimasi ad ascoltare.
Cognome e nome !?
Hoffmann Sandor
Data di nascita !
22 Marzo 1906
Luogo di nascita ?
Budapest
Provenienza ?
Budapest
Lavoro praticato da civile ?
Scrittore,... direttore di teatro e di cinema.
“Dunque un ‘artista’!” esclamò il vice direttore che si era avvicinato come insospettito dal nostro sostare.
“Potrebbe essere utile per la realizzazione del documentario” gli rispose con prontezza il direttore, poi si rivolse a me “Glielo affido, sono sicuro che il suo aiuto sarà utile nel seguito della lavorazione del film... abbiamo talmente poco personale competente... ”.
Chinai la testa in segno di assenso; lasciai che le operazioni di registrazione proseguissero mentre mi allontanavo lentamente in compagnia del capitano.

Quella sera stessa mandai a cercare Hoffmann Sandor e lo feci venire nel mio alloggio. Quando entrò lo invitai a sedersi su una poltrona vicina alla mia. Si sedette e incominciò a fissarmi senza parlare; gli versai da bere, prese il bicchiere, ma continuava a fissarmi. Aveva ragione, ero io che gli dovevo delle spiegazioni.
Gli raccontai tutto quello che era successo da quando ci eravamo separati.
Gli parlai del mio incarico; parlai anche di tutte le mie perplessità sulla propaganda, sul nazionalsocialismo, sulla Germania, sulla guerra, sul futuro.
Non avevo voluto essere coinvolto, ma ero... completamente coinvolto.
Che potevo fare? Cosa si poteva fare?
Hoffmann Sandor mi ascoltò.
Gli raccontai quello che succedeva nel campo e gli descrissi alcune scene a cui avevo assistito, compresa quella del primo giorno; quella del coltello... della stella di Davide di sangue; “I mezzi per governare il campo sono la forza e il terrore” ripetei le parole del vice comandante, che a sua volta citava Hitler.
Hoffmann Sandor mi ascoltò pensieroso; ogni tanto scuoteva leggermente la testa e ripeteva sottovoce “Che vergogna… che vergogna…”, poi, dopo un po’, gli tornò il sorriso... il sorriso ironico di una volta, come se gli fosse venuta in mente una idea geniale, epica.
Mi guardò con uno sguardo sornione e mi disse sottovoce: “Sono sicuro che ce l’hai qui”. Lo guardai solo qualche secondo, poi aprii la valigia, lo presi e glielo diedi.
Cominciò a sfogliare e lesse qualche riga qua e là.

“Una piccola valle senza ombra... profonda, sabbiosa, isolata da ogni parte...”, sembra qui, non è vero?
“... il condannato... un uomo mezzo inebetito... i capelli e il viso in disordine... aveva l’aspetto di un cane sottomesso...”... mi guardò di sottecchi... annuendo
“... la macchina è una invenzione del precedente comandante... il merito spetta soltanto a lui... l’ordinamento di tutta la colonia è opera sua...” sembravano le parole del vice comandante.
“… i vecchi disegni del comandante... soldato, giudice, ingegnere, chimico...”
Ascolta “... l’ordinamento della colonia è talmente concluso in sé, che il suo successore anche se avesse avuto mille progetti nuovi in testa non avrebbe potuto, per molti anni cambiare nulla di quel che era stato fatto...”... è proprio così... non è vero?
Lesse la descrizione della macchina.
“Vedi Kafka sa che ogni macchina ha un funzionamento sequenziale... come il motore delle automobili… quattro tempi… e così ha immaginato una macchina formata da tre parti… tre tempi…
il primo è il letto… prima il condannato viene disteso sul letto, e qui viene bloccato, costretto… gli viene tolta la sua dignità… è quello che è successo a noi… ci hanno prelevati dalle nostre case, costretti nei carri bestiame… inquadrati, numerati…
poi c’è il secondo tempo… il disegnatore… l’insieme degli ingranaggi che determinano il movimento dell’erpice… della macchina che uccide… ogni soldato qui è una parte della macchina, ogni procedura è una parte della macchina…
e infine l’erpice, le camere a gas, i forni crematori… dove la condanna raggiunge il compimento… Kafka aveva immaginato che l’erpice che uccide avesse una parte di vetro per permettere agli spettatori di vedere… qui invece, non vogliono far vedere quello che succede davvero… non vogliono far vedere il modo in cui vengono trattati i deportati… qui la macchina della propaganda deve nascondere la verità…”. 
Rimase a pensare qualche secondo, poi precisò meglio “… cioè, non è proprio così…  hai detto che il vecchio comandante aveva l’abitudine di uccidere incidendo col coltello una stella di Davide sul corpo della vittima… quindi... dentro al campo tutti devono vedere – “i mezzi per governare il campo sono la forza e il terrore” - … ma fuori… fuori dal campo nessuno deve sapere”.
Restò in silenzio, poi con aria di complicità mi lanciò la sfida: “Tu potresti essere il vetro… tu potresti far vedere… tu potresti filmare… con il pretesto di provare le luci, le inquadrature… tu potresti filmare le cose come sono veramente… senza costruire menzogne... senza far vedere niente di più di quello che accade realmente… - tacque un istante - ... glielo devi... a quei morti”.
Mi sembrava di vivere la scena in cui Antigone invita la sorella Ismene a seppellire il corpo del fratello morto, abbandonato sul campo di battaglia.
Si. L’unico modo per riscattare la mia dignità sarebbe stato quello di raccontare la verità. Dovevo raccontare la verità.
La sua idea era quella di girare in parallelo due film; uno sarebbe stato il film voluto dalla propaganda, l’altro avrebbe rappresentato la realtà... la verità. 
Allo sviluppo avrei mandato solo le bobine del film di propaganda, le altre le avrei classificate come riprese sbagliate, imperfette, da non sviluppare, ma le avrei tenute io, nascoste, fino al momento in cui avrei potuto farle sviluppare, in un posto sicuro, magari all’estero. Era un’idea intrigante... ed era realizzabile... d’altronde, per quello che riguardava la produzione, disponevo di una certa autonomia.
Hoffmann Sandor sapeva che avrei detto di si, e senza aspettare la mia risposta continuò a leggere, quasi divertito e annuendo continuamente, come se trovasse continue verifiche del suo teorema:
“Nulla turbava il funzionamento della macchina, nel gran silenzio s'udivano solo i sospiri del condannato…
Al condannato viene scritto sul corpo il comandamento che ha violato...  
Conosce la sua condanna? No, sarebbe inutile comunicargliela... imparerà a conoscerla sul suo corpo…
Sa almeno di essere stato condannato? No, neppure questo…
E la difesa?... non ha avuto modo di difendersi...
La scodella... c’è una pappa di riso caldo, e l’uomo, se ne ha voglia, può mangiare quanto gli riesce di prenderne con la lingua. Nessuno si lascia sfuggire questa occasione...
Nelle prime sei ore il condannato vive quasi come prima, non sente che dolore...
Soltanto verso la sesta ora perde il gusto di mangiare... come si quieta l’uomo dopo la sesta ora... Al più ottuso si dischiude l’intelligenza... l’uomo decifra lo scritto con le sue ferite…
… qui riposa il vecchio comandante. I suoi seguaci, che ora devono restare anonimi, gli hanno scavato questa tomba e posto questa lapide. Esiste una profezia secondo cui il comandante dopo un certo numero di anni risorgerà e guiderà da questa casa i suoi seguaci alla riconquista della colonia. Abbiate fede e attendete.”
Fa paura eh?!… Ma non vedi... non vedi? Kafka era un profeta... uno di quelli che vedono prima... che capiscono prima... prima che le cose succedano...

Da quel giorno cominciammo a documentare tutto. Il comandante si era accorto del cambiamento che era avvenuto nel nostro modo di lavorare, ma non volle intervenire.
Riprendemmo l’arrivo dei nuovi treni; i deportati stravolti che scendevano dai carri dopo giorni di viaggio in condizioni disumane; lo smistamento, l’immatricolazione, l’avviamento al lavoro, inutile spesso, ma sempre massacrante; piccoli e grandi soprusi; le umiliazioni imposte alle donne, denudate pubblicamente... rasate in tutto il corpo; le umiliazioni imposte ai vecchi, a cui venivano misurati il naso, le orecchie e altre parti del corpi per grottesche statistiche antropologiche. Riprendemmo l’avviamento alle camere a gas; riprendemmo i morti e il fumo che usciva dai forni crematori. Riprendemmo tutto.
Io cercavo di prolungare al massimo i lavori; sapevo che una volta che io fossi partito, per Hoffmann Sandor sarebbe stata la fine quasi immediata; il vicecomandante certo gli avrebbe fatto pagare duramente il trattamento di favore ricevuto fino a quel momento.
Arrivò il mese di dicembre; le cose per la Germania si mettevano male.
Il comandante aveva capito quale sarebbe stata l’evoluzione inevitabile e ormai prossima, e così, per salvare se stesso - non lo giudico, non spetta a me - nei primi giorni di dicembre decise di rientrare a Berlino, da dove poi riuscì a fuggire in sud America. La direzione del campo restò nelle mani del vice comandante. Le voci sullo stato della guerra parlavano di una situazione sempre più critica. Il vice comandante era preso da una frenesia isterica, continuava a ripetere che bisognava assolutamente portare a termine l’opera. I massacri ripresero furiosamente.
Noi riprendevamo tutto; dovevamo documentare tutto quello che stava accadendo.
Il vicecomandante ormai delirava: “Io consumo tutte le mie forze per mantenere in vita quel che esiste, per completare quello che è stato cominciato e deve assolutamente essere portato a termine… non c'è tempo da perdere… oggi si sentono sempre più... discorsi ambigui…”, vedeva ovunque complotti e tradimenti: “… è mai possibile che un'opera simile non debba... non debba essere terminata per colpa di ...”. Odiava il comandante per aver ostacolato con ogni pretesto il lavoro al campo “ … è inaccettabile il suo modo di pensare, legato ai pregiudizi della cultura liberale e cristiana…”; la critica era, nemmeno troppo velatamente, rivolta contro di noi, che con le nostre esigenze avevamo offerto al comandante più di una occasione per ritardare il lavoro.
Riprendemmo anche lui mentre sfogava la sua rabbia a parole, ma anche con una brutalità ormai senza freni. Verso la metà del mese di gennaio si cominciarono a sentire gli echi dei bombardamenti delle forze russe che stavano avanzando. Il vicecomandante ordinò furiose esecuzioni di massa. I corpi delle vittime venivano accatastati in grossi cumuli, cosparsi di benzina e dati alle fiamme.
Quando, il 25 gennaio, in fondo alla strada che portava al campo, comparvero tre carri armati sovietici, e dietro di loro un gruppo di soldati russi, noi stavamo ancora facendo delle riprese. Il vice comandante incominciò a sparare all’impazzata urlando “Distruggere tutto… distruggere tutto!”, arrivò davanti a noi e per sfogare tutta la sua rabbia scaricò tutto quello che rimaneva nel caricatore della sua pistola contro Hoffmann Sandor. Poi scagliò la sua pistola contro il cadavere che ormai giaceva a terra; io continuavo a riprendere. Mi guardò con odio feroce, si levò i vestiti, restò col petto scoperto, afferrò il coltello che il comandante gli aveva lasciato in eredità, e velocemente, in pieno petto tracciò una croce uncinata di sangue. Poi appoggiò la punta del coltello contro il petto, dalla parte del cuore e si buttò a terra in modo da far penetrare, col peso, tutta la lama. Morì così, in un lago di sangue. Feci rivoltare il cadavere, la svastica incisa sul petto del vicecomandante fu l’ultima inquadratura. Anche questa ultima scena, il suicidio del vicecomandante, era stata esattamente prevista da Kafka. Anche l’ufficiale di Kafka, alla fine, si suicida nella macchina della Colonia Penale proclamando la sua ostinata e delirante fedeltà al programma del progetto, perfino nel momento finale e decisivo della rivelazione innegabile di tutta la sua evidente follia.
Continuai a riprendere fino all’arrivo dei soldati russi.
Mentre i soldati russi si stavano guardando in giro attoniti, alcune SS che non si erano arrese e si erano ritirate in una baracca lanciarono due bombe a mano. I russi corsero a mettersi al riparo; ci furono attimi di panico; io ne approfittai per togliere dalla macchina da presa l’ultimo rullo di pellicola e corsi in paese; lo consegnai al parroco cattolico della chiesa, e lo pregai con tutta la mia anima di nasconderlo e conservarlo fino a quando non sarei tornato a riprenderlo... cosa che feci dopo il processo.
Si perché dopo la guerra, come sai, ci fu il processo. Un piccolo processo, non famoso come quello di Norimberga; un piccolo processo, davanti a una piccola commissione.
Raccontai semplicemente la verità, ammettendo la mia partecipazione ai programmi di propaganda; raccontai tutto quello di cui ero stato testimone nel campo; raccontai anche del mio incontro e della collaborazione con Hoffmann Sandor, evitando però ogni riferimento al film parallelo. Non volevo che i materiali che avevamo girato segretamente, cadessero nelle mani di russi, americani o altri.
No, le nostre riprese erano documenti reali, ma erano soprattutto i materiali per costruire una opera d’arte, così come io e Hoffmann Sandor l’avevamo concepita. Io, io solo, potevo e dovevo fare il montaggio.
Al processo ammisi le mie colpe: la vigliaccheria di non voler essere coinvolto, la vigliaccheria di una neutralità inaccettabile, la vigliaccheria di voler essere al di sopra delle parti, la vigliaccheria della mancanza di chiarezza, la vigliaccheria dell’attesa, nella speranza che il tempo risolvesse tutto. Si, ammisi le mie colpe.
Io ero stato complice della propaganda... la propaganda... questo carnevale, questa mascherata capace di trasformare la danza macabra dei regimi in una festa trionfale capace di incantare... di ipnotizzare, di esaltare popoli interi; quella propaganda che fa leva sulla stupidità di chi la ascolta; quella propaganda che lavora distribuendo i suoi frutti avvelenati: primi fra tutti la paura e l’odio; quella paura e quell’odio che generano l’intolleranza, la violenza, la brutalità, l’assassinio. Quella paura e quell’odio che portano all’annientamento della dignità umana propria e altrui.
La propaganda è la peggiore delle armi dei regimi totalitari; la propaganda è peggio della peggiore polizia segreta che sequestra, tortura e uccide; la propaganda è l’arma con cui i regimi deformano nel profondo l’identità dei popoli, e così facendo li distruggono.
Non ero l’unico colpevole, lo sapevo. La propaganda si era servita anche di radio e di giornali. Avevano colpe anche la scuola e gli insegnanti, le chiese con i loro pastori o i loro preti. Tutti, quasi tutti, silenziosi e reticenti. Tutti avevano rinunciato a proclamare la verità. Tutti avevano rinunciato alla loro funzione educatrice.
Aveva colpe anche la comunità internazionale... anche la comunità internazionale aveva fatto i suoi piccoli passi... si anche quelli che ora ci giudicavano, non erano stati sempre lucidi e determinati nella loro azione contro il nazionalsocialismo...
... e quando i piccoli passi portano al punto di non ritorno... quando arriva il momento dell’impotenza, allora non si può più fare nulla; bisogna solo che ognuno accetti di prendersi le proprie responsabilità e sia disposto a pagare per i propri errori... e l’errore più grave è stato esitare. Hitler e i suoi dovevano essere fermati fin da subito, anche se avevano vinto le elezioni. Bisognava fermarli subito e con ogni mezzo. Bisognava fermarli a qualunque costo. Ci sarebbero stati milioni e milioni di morti in meno.
Non ero l’unico colpevole, ma questo non diminuiva le mie responsabilità... non era una consolazione. Rimasi in silenzio per i resto del processo, disposto ad accettare qualunque condanna mi sarebbe stata inflitta. Spesso ripensavo a quella ultima frase del racconto di Kafka, che Hoffmann Sandor lesse quella prima sera in cui ci incontrammo nel mio alloggio: “… qui riposa il vecchio comandante. I suoi seguaci, che ora devono restare anonimi, gli hanno scavato questa tomba e posto questa lapide. Esiste una profezia secondo cui il comandante dopo un certo numero di anni risorgerà e guiderà da questa casa i suoi seguaci alla riconquista della colonia. Abbiate fede e attendete”.
Abbiate fede e attendete: la profezia dice che l’orrore ritornerà... quell’orrore che è sempre pronto a ritornare, sostenuto... spinto dal vento di nuove e diverse forme di propaganda.
Fui assolto, non avevo compiuto crimini efferati, non avevo ordinato stragi. Fui assolto da una giustizia banale: una giustizia che condanna solo i carnefici.
Fui assolto, ma mia vita ormai era... era un cumulo di rovine e lo sarebbe restata per sempre. Provai a ricostruire una normalità, via dalla Germania... il matrimonio, i figli... Provai perché mi restava ancora un dovere nei confronti della vita... nei confronti di un amico... dovevo montare il film... dovevo. Adesso, il film segreto di Hoffman Sandor... l’ultima regia di Hoffman Sandor... “Nella colonia penale”, liberamente ispirato al racconto di Franz Kafka, è nelle tue mani. È un film prezioso. Fallo vedere agli storici del cinema, fai in modo che venga proiettato e conservato nelle cineteche. Ti lascio questo incarico perché io mi sento male.
Sono ossessionato da una domanda cui non so trovare risposta.
Come difendersi? Come possono i popoli difendersi dal demone ambiguo della propaganda?
Forse solo la ragione e la cultura potrebbero salvare i popoli; una cultura autentica, profonda.
Ma troppo spesso la cultura si trasforma in erudizione sterile o in pregiudizio a sostegno dei propri preconcetti e delle proprie scelte ideologiche... troppo raramente la cultura riesce a essere la forza che permette di capire i valori reali, i valori profondi.
Troppo spesso la ragione si addormenta e la cultura diventa un esercizio inutile...
E così, figlio mio, senza una risposta, e con poche speranze... ti abbraccio... scusami la mancanza di ironia... scusa se non riesco a costruirmi delle illusioni... e ad andare avanti come se niente fosse. Non riesco a vivere nel terrore che quello che è accaduto possa accadere di nuovo... se è terribile avere questa paura, sapendo di essere stati, e di poter essere di nuovo, delle vittime... è insopportabile avere questa paura sapendo di essere stati, e di poter essere di nuovo, carnefici.
Scusami... tuo padre”

... prima di proiettare le immagini ... vorrei aggiungere una piccola riflessione... un collegamento... un ricordo. Mio padre... un fantasma... non ricordo di avere mai sentito la sua voce... mia madre rispettava il suo silenzio, la sua chiusura... quando io e mia sorella giocavamo... aveva cura di fare in modo che non lo disturbassimo... così siamo stati educati ad accettarlo e a rispettarlo. Quando più grande, chiesi a mia madre perché mio padre fosse... così... mi disse solo che aveva sofferto tanto...
L’unica cosa che posso aggiungere a tutto quello che è già stato detto, è una cosa che mi disse mio zio Luca Alberto, il fratello di mia madre... mi riferì di un breve colloquio che aveva avuto con mio padre... era l’inizio del 1954; mio zio arrivò a casa con un regalo... un televisore... da poco erano iniziate le trasmissioni della RAI... mio padre e mio zio parlarono un poco... mio padre comprese immediatamente... se con la radio, i giornali, il cinema... si era arrivati dove si era arrivati... cosa sarebbe successo adesso, con questo nuovo mezzo che, come la radio, avrebbe potuto arrivare in tutte le case e portare in tutte le case non solo i discorsi ma anche le immagini... le menzogne della propaganda avrebbero potuto essere molto più convincenti, molto più efficaci...
Mio padre comprese immediatamente che la propaganda attraverso la televisione sarebbe stata invincibile... e perse ogni speranza. Pochi mesi dopo, smise di parlare definitivamente...
Prego... possiamo proiettare le immagini

A questo punto si abbassano le luci in sala e segue una breve proiezione di immagini dei campi (ma anche di parate naziste e di Hitler che parla alle folle in delirio).La sequenza si conclude con l’immagine del volto di. Franz Kafka.


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Pécs 1944


Luigi Alcide Fusani

Pécs 1944

Questo testo per narrazione è stato scritto nella primavera del 2006; è stato scelto nella cinquina dei testi finalisti alla prima edizione del premio Teatro e Shoa e pubblicato in edizione bilingue nella collana I seminari di Pécs nel gennaio 2007.
La prima recita si è tenuta a Pécs il 6 Ottobre 2006

E’ stato tradotto in ungherese, per consentirne la recitazione nella case, nelle scuole, nei centri culturali e religiosi.

Un sentito ringraziamento ad Antonio Satta, Ilona Radnóti e István Vörös per i loro preziosi consigli umani e professionali.

***

Le storie non le cerchi.
Sono loro a trovarti, è sempre così.
Un incontro, un libro illuminante: per noi é stata la voce di quegli esseri umani che hanno vissuto sulla propria pelle la più grande tragedia del ventesimo secolo.

Capitolo primo: come il destino, gli dei o il caso vollero che il professore venisse a insegnare a Pécs

Il destino o gli dei? Già i greci 2500 anni fa si ponevano questa domanda.
Il destino o gli dei? Avevano già capito che la volontà degli uomini è poca cosa.
Anzi a volte quasi nulla.
Il destino. È difficile definire il destino.
Accontentiamoci del caso. Definire il caso è un po' più semplice.
Si getta un dado, può venire due, può venire cinque, può venire uno...
poi vincere, puoi perdere...
puoi salire sul treno e incontrare l'uomo della tua vita...
o arrivare con un minuto di ritardo... e non incontrarlo mai.
Anche questo incontro di oggi, preferisco chiamarlo incontro e non spettacolo, avviene grazie al caso.

Alcuni anni fa un professore di matematica italiano, decide che i suoi figli sono sufficientemente grandi per cavarsela da soli, e quindi, è giunto il momento di fare un concorso per andare ad insegnare all'estero. In Italia con lo stipendio di un professore si vive a fatica. Invece il compenso per la trasferta è piuttosto buono.
Ormai il professore ha più di cinquant'anni. Ha più di 25 anni di anzianità, ha parecchi titoli e quindi se farà bene la prova, al ministero, a Roma, ha buone probabilità di partire per insegnare all'estero. Un po' di fortuna, un po' di preparazione, al concorso il professore realizza un buon punteggio. Adesso basta solo aspettare per sapere in quali paesi del mondo ci sono cattedre libere. Alcuni mesi dopo, quando arriva il telegramma c'è la possibilità di scegliere tra tre destinazioni. Istanbul, Tirana, Pécs.
Perché non Parigi, Lione, Marsiglia, o Ginevra, o Praga...
eccolo il lancio dei dadi: Istanbul, Tirana, Pécs.

Tirana è stata scartata subito. Troppa mafia, troppa delinquenza, troppi affari loschi, così dice la televisione.
Istanbul... grande metropoli, grande passato storico... un amico che c'era stato in vacanza aveva detto che si mangiava benissimo. È una buona possibilità.
Pécs... Pécs? Ungheria? Perché non Budapest?
Meglio che non fosse Budapest. Il professore è molto superstizioso e l'unica volta che era stato a Budapest, da turista, c'era stato solo un giorno, perché nella notte aveva sognato che il giorno dopo sarebbe morto, proprio lì a Budapest e quindi alle sette della mattina aveva svegliato tutta la famiglia, aveva caricato moglie, figli e bagagli in macchina ed era scappato senza fermarsi fino a quando non era arrivato a casa, a Milano.

Pécs... Ungheria.
Meno male che viviamo nell'era di Internet. Motore di ricerca, Google, cerca Pécs.
Non si capisce niente, le foto della città sono belle, ma le spiegazioni... non si capisce niente.
C'è la foto di un teatro. Si clicca sopra, si vedono gli spettacoli della stagione.
Ci sono anche le foto di altri teatri. Il professore ne conta sette.
Ce n'è anche uno per bambini che organizza a giugno un festival che sembra molto interessante.
Il professore ama molto il teatro. In Italia riesce ad andare a teatro anche 150 volte in un anno.
Durante l'estate si sposta quasi solo per andare a vedere festival. È capace di vedere anche 50 spettacoli in una settimana. Più che una passione è una vera e propria malattia.
Pécs. Una città con sette teatri e un festival.
Il giorno dopo parte il telegramma per Roma: “Scelgo la destinazione Pécs”.

Capitolo secondo: un'impressione molto positiva.

Un mese dopo il professore arriva a Pécs, con la moglie e una macchina carica di libri e vestiti.
Arriva diritto da Budapest... (si, arrivando da Milano a Pécs, di solito non si passa per Budapest, ma il professore aveva dovuto presentarsi all'ambasciata italiana per prendere servizio)...
dicevamo, il professore arriva diritto da Budapest e si commuove: il professore è molto emotivo... percorre il lungo vialone che passa davanti alla fabbrica delle ceramiche Zsolnay... passa davanti alle facoltà di legge e di economia... ma non le vede. Quello che vede sono decine di ragazzi alle fermate degli autobus... ragazzi che escono dalle scuole... "forse quelli saranno i miei ragazzi..." pensa "quelli sono i ragazzi, gli uomini, le persone con cui passerò i prossimi cinque anni".
Il professore è un emotivo. Si commuove.

Prosegue, entra in centro città, arriva al parcheggio Kossuth. Parcheggia. Scende dalla macchina. E invece di chiedere informazioni sulla via del ginnasio dove si deve presentare, si ferma a guardare la sinagoga. Ci sono lavori in corso. La stanno ristrutturando. Che bello! Ci deve essere una comunità molto vivace e attiva. Si rivolge alla moglie. "Guarda che splendida sinagoga. Qui certo potrai studiare l'ebraico." La moglie del professore desidera studiare l'ebraico fin dai tempi dell'università. La prima impressione è molto positiva. Su Internet il professore aveva visto la fotografia di una moschea, di una cattedrale, di alcune chiese. Che bella una città dove convivono in pace le tre religioni monoteiste! In questi tempi di tensioni etniche e religiose, è un bell'esempio di tolleranza e di civiltà.

Capitolo terzo: come il professore decise di piantare un ulivo in Ungheria.

Nei mesi successivi il professore passa ripetutamente dalla piazza Kossuth. Lì c'è il parcheggio da cui è facile raggiungere le vie principali del centro. Ogni volta il professore guarda verso la sinagoga. Ogni volta la sinagoga è chiusa.
Il professore cerca di capire. E incomincia a chiedere. Chiede a scuola ai colleghi. Chiede agli studenti. Pare che nessuno sappia niente. Pare che di ebrei a Pécs, non ce ne siano più da molto tempo. Nessuno ne sa più nulla.

Arriva la primavera. Il 1o maggio del 2004: l'Ungheria entra in Europa. Grandi festeggiamenti.
Passa ancora un po' di tempo. Arriva il gennaio 2005.
Da qualche anno, la Comunità Europea ha deciso che il 27 gennaio di ogni anno, anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz da parte delle truppe russe, debba essere dedicato alla memoria. La memoria dell'Olocausto, o meglio della Shoah.
Anche all'Onu si sta riflettendo su questo bisogno di memoria e si sta pensando di estendere la celebrazione dall'Europa a tutto il resto del mondo.
Nella scuola del professore la commemorazione si riduce a un comunicato di pochi minuti durante l'intervallo, attraverso gli altoparlanti disposti in ogni classe.
È l'intervallo; i ragazzi fanno la ressa al buffet; molti fumano all'aperto nel cortile interno.
All'inizio delle lezioni il professore chiede gli studenti: "Che cosa ha detto la radio della scuola durante l'intervallo?". Sguardi stupiti. Gli studenti si guardarono a vicenda senza capire. Che cosa sta chiedendo professore? Nessuno ha sentito nulla.
In ogni classe, si sa, c'è sempre uno studente o una studentessa più sfacciata degli altri: "Cosa dovevamo sentire, signor professore?”.
"Devono aver detto qualcosa sulla shoah"... "ah sì, forse...". Distrazione, disinteresse, superficialità.
Nella mente del professore per reazione risuonano subito, ancora una volta, le parole di Primo Levi. Bisogna ricordare, perché quello che è accaduto, proprio perché è accaduto, può accadere ancora.
A pochi chilometri da Pécs c'è la Croazia. Quando il professore torna in Italia in macchina e passa attraverso la Croazia, lungo la strada si vedono decine di case crivellate dai colpi. Alcuni devono essere colpi di fucile, o di mitragliatrice. Altri sono più grossi. Devono essere colpi di mortaio, o di cannone.
È successo a meno di 100 km da Pécs. È successo meno di 10 anni prima.
È successo che lì si è parlato ancora di pulizia etnica.
È successo che lì sono stati costruiti ancora campi di concentramento.
È successo che lì migliaia di persone sono morte in condizioni vergognose.
È successo di nuovo e può succedere ancora.
Kossovo, Albania, Serbia, Montenegro, è successo di nuovo e può succedere ancora.
Ecco perché le truppe dell'Onu non abbandonano la regione.

No. Non deve succedere più. Assolutamente non deve succedere più.
Bisogna fare qualcosa. Anche qualcosa di piccolo. Ma bisogna fare qualcosa. Mettere un seme. Un seme che faccia nascere una pianta. Una pianta di pace... come un ulivo.
Sì, è bella l'immagine dell'ulivo, l'ulivo dà frutti preziosi: le olive.
Le olive danno un alimento sano e nutriente: l'olio.
C'è bisogno di nutrire le menti dei giovani studenti. C'è bisogno di nutrirle con idee di pace.

Capitolo quarto: esercizi di memoria.

A casa il professore guarda la televisione.
Sessant’anni prima veniva liberato il campo di sterminio di Auschwitz.
Tutti i potenti della terra sono riuniti lì per la celebrazione dell’anniversario.
Il professore guarda la televisione. Passano Bush, Putin, Blair… ci sono tutti.
Tutti fanno il loro discorso. Le cose che dicono sono vere, ma il tono, le facce gli sembrano false… danno fastidio.
L’unico discorso con accenti di sincerità lo fa una persona che ad Auschwitz in quell’occasione non ci andò. Era ammalato gravemente e dopo pochissimi mesi sarebbe morto. Giovanni Paolo secondo.
Il primo papa nella storia della Chiesa a visitare una sinagoga, quella di Roma.
Il primo papa nella storia della Chiesa che per ribadire che gli ebrei per i cristiani sono fratelli maggiori, è andato a Gerusalemme a pregare al muro del pianto.
Il primo papa che ha chiesto scusa agli ebrei per tutto il male che i cristiani, che l’umanità intera hanno fatto contro di loro.
Le parole del Papa polacco sono straordinariamente semplici, lucide, ragionevoli, vere.

A nessuno è lecito, davanti alla tragedia della Shoah, passare oltre.
Quel tentativo di distruggere, in modo programmato, tutto un popolo
si stende come un’ombra sull’Europa e sul mondo intero; è un crimine
che macchia per sempre la storia dell’umanità.
Se ricordiamo il dramma delle vittime, lo facciamo non per riaprire dolorose ferite, nè per destare sentimenti di odio e propositi di vendetta, ma per rendere omaggio a quelle persone, per mettere in luce la verità storica e soprattutto perché TUTTI si rendano conto che quelle vicende tenebrose devono essere per gli uomini d’oggi una chiamata alla responsabilità nel costruire la nostra storia. Mai più in nessun angolo della terra si ripeta ciò che hanno provato uomini e donne che da sessant’anni piangiamo!

Ricordare. Ricordare le vittime. Ricordare e raccontare.
Eli Wiesel ha scritto che l’uomo è stato creato per raccontare.
Moni Ovadia, l’attore ebreo di origine bulgara, famoso per la sua ironia e per le sue battute prese dal repertorio ebraico dice che Dio ha creato l’uomo perché da solo si annoiava e gli sarebbe tanto piaciuto sentir raccontare delle belle storie. Ricordare e raccontare.
Ricordare. Il professore cerca di ricordare quando fu la prima volta che sentì parlare di Auschwitz. Aveva sentito parlare tante volte dei tedeschi, di quanto fossero state bestiali certe loro azioni durante l’occupazione dell’Italia seguita all’8 settembre del 43; aveva sentito parlare di Dachau e di Mautausen; c’era stato il nonno, c’erano stati degli zii. Aveva letto il diario di Anna Frank, ma lì si parlava della clandestinità in Olanda, e nelle note si aggiungeva solo che Anna morì in un campo di sterminio. Il professore non aveva mai sentito il nome di Auschwitz fino a quando, un giorno forse del 1966 – il professore aveva circa 16 anni, un amico non gli fece sentire un disco di un giovane cantante italiano. Quel cantante si accompagnava con una semplice chitarra. La sua voce non era nemmeno tanto gradevole. Aveva un forte accento bolognese e pronunciava male la „erre”.
La canzone diceva così:

Son morto con altri 100, son morto che ero bambino

passato per il camino, e adesso sono nel vento.
Ad Auschwitz c’era la neve, il fumo saliva lento,
nel freddo giorno d’inverno, e adesso sono nel vento.
Ad Auschwitz tante persone, ma un solo grande silenzio,
è strano, non riesco ancora, a sorridere qui nel vento.
Io chiedo come può l’uomo uccidere un suo fratello,
eppure siamo milioni in polvere qui nel vento.
Ma ancora tuona il cannone, e ancora non è contenta
di sangue la bestia umana e ancora ci porta il vento.
Io chiedo quando sarà che l’uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare e il vento si poserà.

Ma che canzone è?
… Il fumo saliva lento?… sono passato per il camino?… Ad Auschwitz c’era la luna…

Il professore, non ridete troppo della sua ingenuità, prende la carta geografica della Germania, cerca Auschwitz, naturalmente non la trova. Dovette passare qualche anno, prima che qualcuno gli dicesse che doveva cercare sulla cartina della Polonia.
Il professore ora si domanda: “Per quale progetto troppe persone hanno dimenticato? C’è un organizzatore dell’oblio? Perché questa rimozione? Perché?”
Il professore non ha una risposta. Forse una risposta c’è, ma deve essere troppo complessa; dovrebbero darla storici, filosofi, psicologi, sociologi, antropologi...
Se si conoscesse la risposta, forse sarebbe più facile “organizzare la memoria”. Forse.

Capitolo quinto: la stella di Davide in vetrina, ovvero “che senso ha un libro senza dialoghi né figure?”

Il professore non ha una risposta, ma continua a pensare che c’è bisogno di nutrire le menti dei giovani studenti. C’è bisogno di mettere un seme: mettere un seme non è facile. Occorre tutta la sapienza del contadino. Bisogna conoscere il terreno. Bisogna saper trattare il terreno.
Il terreno non deve essere troppo umido, affinché il seme non marcisca.
Il terreno non deve essere troppo arido, affinché il seme non secchi.
Il seme non deve essere piantato troppo in profondità, altrimenti non sente il calore del sole.
Il seme non deve essere piantato troppo in superficie, altrimenti gli uccelli lo mangeranno.
Non è facile mettere un seme. Il professore vorrebbe conoscere il terreno. Vorrebbe sapere cos'è successo agli ebrei di Ungheria. Vorrebbe sapere cos'è successo agli ebrei di Pécs.
Qualche informazione riesce a ricavarla dai libri di storia. Ma non si ricavano emozioni dai libri di storia. Qualche dato si, ma i dati sono freddi. Numeri.
Il professore insegna matematica. Sa benissimo che non c'è nessuna differenza tra il dire "100 morti", "1000 morti", "10 milioni di morti". Non ci sono emozioni nei numeri.
Ma il professore è fortunato. Il caso è stato spesso dalla sua parte.
Un pomeriggio, mentre sta passeggiando nelle vie del centro, si ferma a guardare la vetrina di una  libreria. Il professore non sa una sola parola di ungherese; prova soltanto a riconoscere i libri dai nomi degli autori. Ce n'è uno di Baricco. Uno di Calvino. Uno di Umberto Eco.
Ma a un certo punto l'attenzione del professore viene attirata da un libro strano.
Il colore decisamente triste, sfumature che vanno dal marrone chiaro al marrone più scuro.
Il titolo è "1944 Pécs", sotto il titolo un quadrato in cui è fotografato il petto di una persona di cui non si vede il viso.
Sul cappotto, anche se il colore è marroncino chiaro, si vede molto bene la stella di Davide.
Il professore sente che forse, ha trovato il libro giusto. Entra, e senza nemmeno sfogliarlo, lo compra. Più tardi scoprirà che il libro viene chiamato “Il libro delle lacrime”.
A casa, lo apre. Lo apre in mezzo. Pagine 32 e 33.
Due riquadri neri, come per una comunicazione di lutto, inquadrano quattro colonne di nomi: Hermann Éva, Hermann Zsuzsa,... Hirsch Tamás... Hoffmann László,
Hoffmann, Sándor... di Hoffmann ce ne saranno almeno 20... Horovitz... Horváth... e il professore comincia sfogliare il libro... ogni pagina sono 50, 60 nomi.... pagina 35, pagina 49, pagina 67, pagina 71. A pagina 71 ci sono solo quattro nomi che cominciano con zeta. È l'ultima pagina.
70 pagine ciascuna con circa 50 nomi, in totale risultano circa 3500 nomi.
Pagina dopo pagina, il numero riprende corpo e volume.
Sfogliare il libro, pagina per pagina dà una dimensione più concreta alla freddezza del numero.
Questi sono i nomi delle persone che non possono più andare alla sinagoga.
Che faccia avevano, che lavoro facevano. Nel libro non c'è scritto. C'è solo il nome.
Il professore vede i nomi ma non riesce a immaginare nessun viso. Ci prova, ma non riesce.
Nei cimiteri sulla lapide c'è scritto di più:
"Sposa fedele, madre esemplare", la foto.
"Padre generoso, lavoratore instancabile", la foto.
"I figli per sempre riconoscenti posero", la foto.
Nel libro non c'è scritto niente. Non c'è scritto chi era padre, non c'è scritto chi era figlio, non c'è scritto chi era bambino, non c'è scritto chi era nonno. C'è scritto solo il nome.
Non c'è scritto neanche dove sono morti. Auschwitz, Dachau, Mautausen... chi lo sa?
E comunque che differenza fa? Il professore sfoglia il libro. Ma che senso ha questo libro?
Alice prima di sprofondare nel paese delle meraviglie si domanda:
“che senso ha un libro senza dialoghi né figure?”.
In questo caso è abbastanza facile da capire. Anzi, facilissimo. Banale.
Quelli a cui era stata tolta l'identità di uomini, quelli che i nazisti chiamavano "maiali", o peggio ancora "pezzi", quelli che i nazisti tatuavano con un numero, per cancellare anche il loro nome, ora il loro nome, se lo sono ripreso. Sono morti, è vero, ma il loro nome, ora, non glielo può più levare nessuno.

Capitolo sesto: il professore scopre il ghetto, il cimitero e ringrazia il caso, il destino o gli dei di non averlo fatto diventare “giornalista”.

Qualche tempo dopo il professore sta viaggiando in macchina in città. Ha accompagnato la moglie dal parucchiere. A un certo punto il caso... il caso, sempre lui, lo porta su una strada in cui sono in corso dei lavori. La strada è interrotta. Bisogna fare una deviazione, scendere verso la stazione. Il professore arriva a un incrocio, si ferma per controllare se può passare e mentre aspetta che la via si liberi viene colpito dalla vista di una lapide sull'angolo di una casa.
Si, viene colpito perché la lapide non ha la forma rettangolare di tutte le lapidi. La lapide ha la forma delle tavole di Mosé. E sulla lapide c'è scritto “Ghetto di Pécs”.
Il professore parcheggia subito la macchina, scende, osserva.
Sulla lapide poche parole e qualche data che indica un periodo molto breve: 8 maggio, 4 luglio 1944. Sono solo due mesi, anzi persino qualche giorno meno. Cosa è successo in quel periodo?
Se si va a cercare nei giornali dell’epoca, si può leggere:

Transdanubio, giovedì, 20 aprile 1944

In prigione per non aver portato la stella ebrea

All’udienza del 19 aprile il tribunale ha condannato a due mesi di carcere senz’appello, un minorenne, che stava viaggiando verso Sásd senza portare la stella gialla.
In futuro i trasgressori del decreto 1240 del 1944 saranno tutti sottoposti a processo d’internamento da parte della questura di Pécs.

Transdanubio, sabato, 29 aprile 1944

Titolo: Nuove ordinanze per l’eliminazione degli ebrei dalla vita economica


Transdanubio, sabato, 6 maggio 1944
Definito con precisione il ghetto di Pécs
Lunedì s’incomincia a trasferire gli ebrei costretti a portare la stella gialla
3400 ebrei entrano nel ghetto
Gli ebrei, costretti a portare la stella gialla, cominciano lunedì ad andare ad abitare insieme per liberare subito la maggior parte possibile degli appartamenti per i cristiani che vi si trasferiscono.

Transdanubio, domenica, 21 maggio 1944

Sabato alle 18 il ghetto di Pécs è stato chiuso

A partire da quel momento quelli della stella gialla possono uscire dal ghetto solo avendo lasciapassare e solo per lavorare. Intorno al ghetto poliziotti armati, da diversi giorni adempiono servizio di controllo.
Il decreto sul divieto agli ebrei che portano la stella, di frequentare i pubblici esercizi e i locali di divertimento, entra in vigore il 25 maggio.

Transdanubio, domenica, 11 giugno 1944
Finora sono arrivate 1200 domande per gli appartamenti liberati dagli ebrei e i tanti richiedenti aspettano, chiedono, supplicano ignorando la stanchezza e sopportando la ressa finché non vengono ascoltati e i loro affari non vengono sbrigati.
Alcuni vogliono un appartamento più comodo, più bello e dicono che sarebbe da stupidi non cogliere l’occasione.
Bisogna assicurare l’ordine. Si deve considerare la leggittimità e l’urgenza della domanda. E anche se l’ufficio degli alloggi procede nel modo più umanitario, è necessario moderare le domande.

Transdanubio, giovedì, 6 luglio 1944
Il ghetto ormai è vuoto, le famiglie cristiane non mostrano molto il desiderio di ritornarci.

Transdanubio, mercoledì, il 12 luglio 1944

La questione ebraica è stata l’operazione più grande sul corpo dell’Ungheria

Il giornale cita le parole di Béla Imrédy: La soluzione della questione ebraica è stata l’intervento chirurgico più grande effettuato da decine di anni sul corpo dell’Ungheria. Una tale operazione non può accadere all’asciutto, a volte scorre anche del sangue. È del tutto naturale che la parola sangue non si deve prendere alla lettera. Possiamo dire anche qui, con certezza, che nessun ungherese ha le mani insudiciate dal sangue di nessun’ebreo ucciso.
E’ inconcepibile... come è possibile scrivere queste frasi… questo misto di tragico, di grottesco, di burocratico… come è possibile narcotizzare la propria coscienza fino a questo punto…

Avevamo lasciato il professore davanti all’ingresso del ghetto. Ora entra nel grande portone che si trova a sinistra della lapide e si trova in un grande spazio chiuso. Sembra quasi un ospedale, o forse una scuola, una caserma. Ci sono solo due uscite praticamente agli estremi opposti dell'edificio. Adesso è abitato. Ci sono bambini che giocano nel grande cortile interno. Il professore fa rapidi calcoli: adesso ci abiteranno 100 o 200 persone. Ma come doveva essere quando qui erano costrette 3000, forse 4000 persone? Doveva essere una condizione intollerabile. (Più tradi il professore scoprirà che in realtà quello che ha visto era solo un edificio del ghetto; il ghetto era più grande. In un saggio si legge che 3000 ebrei erano stati insediati al posto di 600 cristiani. Comunque questo cambia di poco le cose.)
Il professore attraversa tutto il cortile dell'edificio. Poi gira tutto intorno all'edificio.
Il primo ragionamento, inevitabile, è che se qui c'era una comunità così grande, come testimoniato anche dalla sinagoga così grande, allora qui ci doveva essere anche il cimitero ebraico.
Sicuramente il cimitero ebraico era distinto dal cimitero cattolico. Il professore ha visitato il cimitero cattolico in occasione di una festa nazionale, con i suoi studenti, e non ha visto un'area riservata agli ebrei. Quindi a Pécs ci deve essere il cimitero ebraico.
Appena arrivato a casa il professore apre la piantina di Pécs. Non ci vuole molto a trovare il cimitero ebraico. Sulla piantina c'è una zona verde riempita di stelle di Davide.
È una zona un po' periferica, e una persona non ci passa se non vuole andare proprio lì.
Il professore con la cartina va subito a verificare se il cimitero è ancora in funzione.
Naturalmente quando arriva il cimitero è chiuso. Si può guardare solo attraverso un cancelletto.
Il professore fa un giro tutto intorno. Vede un uomo che sta lavorando all'interno. Prova a tornare all'ingresso, ma il cimitero è e rimane chiuso.
Si allontana e quando ha fatto una decina di metri si sente chiamare ad alta voce. Il caso, ancora una volta, lo aiuta. Ci sono due signore con un vaso di fiori che parlano in ungherese e chiamano verso l'interno. Arriva l'uomo che stava lavorando, apre; le signore chiamano di nuovo il professore e lo invitano ad entrare.
All'interno c'è un certo abbandono, ma non disordine. E in questo il cimitero di Pécs, non è diverso da altri cimiteri ebraici. Il professore ha la sensazione che gli ebrei non abbiano una particolare attenzione per i cimiteri. Rispettanno i morti, ma non ne hanno il culto. Anche in questo si mantengono fedeli al comandamento “Non avrai altro Dio all'infuori di Me”.
Le tombe, le lapidi,… parlano. Alcune riportano elenchi di cinque, sei, anche 10 o 12 nomi di persone, tutte scritte con lo stesso carattere, tutte con il fondo la stessa data e lo stesso luogo: Auschwitz 1944. Ecco: il professore è di nuovo davanti all'elenco dei nomi che ha trovato nel libro “1944 Pécs”… il libro delle lacrime.
I nomi. I morti. I nomi di questi morti che sono morti e non ritorneranno più.
I nomi di questi morti, che sono morti e che non se ne andranno mai.
Non se ne andranno mai perché non troveranno mai pace.
C'è una leggenda ebraica: parla dei morti che hanno subito un torto, una ingiustizia e non si rassegnano. Li chiamano Dybbuk, e li temono. Li temono perché tornano continuamente a disturbare la tranquillità dei vivi. Tornano continuamente a chiedere il loro risarcimento. Tornano continuamente a chiedere giustizia.
Il professore cammina lentamente, sosta davanti a ogni tomba, legge i nomi, cerca di immaginare i visi. A volte davanti ai nomi c'è anche la data di nascita. Tantissimi sono i bambini. Il professore immagina i loro visi spaventati. Spaventati come quello del bambino del ghetto di Varsavia che esce con le mani e le braccia alzate sotto la minaccia del fucile del miserabile soldato nazista.
Ci sono nomi di giovani. Giovani come Anna Frank o come Etty Hillesum.
Ci sono nomi di vecchi inermi, impotenti, innocenti. Innocenti. Deportati solo perché nati in una famiglia di religione ebraica, o di cultura ebraica, o di origine ebraica. Deportati solo per essere destinati alle camere a gas.
Il professore sta uscendo dal cimitero. Percorre il vialetto di ghiaia e proprio poco prima dell'uscita trova uno strano monumento. Una piccolissima lapide per terra, grande poco più di un foglio di carta. La lapide è piena di piccole pietre che coprono la scritta. Quelle piccole pietre che sono il segno di una preghiera, di un desiderio, di una richiesta. Il professore sposta un poco le pietre per poter leggere.
Il professore non conosce l’ungherese ma riesce ugualmente a capire, ed è preso dalla pietà. Si, pietà, perché lì sotto sono conservati alcuni pezzi di sapone ricavati dalle ceneri dei deportati: tutto quello che si è riusciti a riportare a casa delle migliaia di persone assassinate nei campi di sterminio.

Capitolo settimo: appunti di storia, molto interessanti.

A questo punto il professore vuole conoscere la storia. La storia.
Comincia a parlare con i colleghi ungheresi che la insegnano, la storia, con l'altro collega italiano che insegna nel liceo, insieme cominciano a raccogliere informazioni.
Eccone alcune

luglio  1920                  La prima guerra mondiale è finita da meno di due anni, Il governo Teleki presenta la legge 1920:XXV conosciuta meglio come “numerus clausus”, la prima legge antisemita in Europa dopo la prima guerra mondiale.
                                    Essa stabilisce la percentuale di accesso alle scuole di istruzione superiore su base etnica e razziale, limitando quindi l’accesso degli ebrei.

novembre 1924            Gyula Gömbös forma il Partito della Difesa Razziale.
Il tollerante primo ministro István Bethlen, considerava gli antisemiti come “persone che odiano gli ebrei più del necessario”. Come se odiare gli ebrei fosse una cosa buona e giusta, ma rimandendo nei limiti del buongusto.

1932 – 1936                I filo tedeschi vanno al potere e sollecitano come prioritaria una legge antisemita.

29 maggio1938            La prima legge cosiddetta antiebraica (1938:XV) è presentata al parlamento sotto il governo di Kálmán Darányi e viene accettata dal governo di Imrédy Béla.

marzo 1939                 I tedeschi incorporano la Boemia e la Moravia. L’Ungheria occupa con il consenso di Hitler la Rutenia.

maggio 1939                I tedeschi ottengono la liberazione di Ferenc Szálasi, il quale organizza il Partito delle Croci Frecciate.

5  maggio 1939            La seconda legge antiebraica (1939:IV) viene presentata e accettata al parlamento. Secondo questa legge è da considerare ebreo chiunque abbia un genitore o due nonni ebrei. Essa stabilisce la percentuale massima di ebrei al 6% nelle professioni liberali e al 12% nell’industria e nel commercio.

novembre 1940            L’Ungheria si allea con Germania, Italia e Giappone.

27 giugno 1941            L’Ungheria entra in guerra contro l’Unione Sovietica.

12 luglio 1941              Il governo di László Bárdossy espelle gli ebrei di nazionalità non ungherese.

27-29 agosto 1941      A Kamenets-Podolsk si massacrano 23.600 ebrei di cui circa 16.000-18.000 erano stati consegnati dal governo ungherese.

agosto 1941                 La terza legge antiebraica (1941:XV) vieta il matrimonio e ogni rapporto sessuale tra cristiani ed ebrei considerandoli – seguendo il modello tedesco – oltraggio alla razza.
Il numero degli ebrei da eliminare dal territorio dell’Ungheria ingrandita è circa  725.000.

aprile 1942                  Il primo ministro è Miklós Kállay. La Seconda Armata ungherese in Ucraina contava circa 30.000 ebrei inquadrati nei "Battaglioni di lavoro”. Questi ebrei dovevano portare una fascia gialla al braccio e dovevano fare servizio militare senz’armi; essi erano utilizzati nei compiti più pericolosi e estenuanti: tra l’altro erano costretti a sminare a mani nude i campi minati.

aprile 1943                  Miklós Horthy incontra Adolf Hitler a Klessheim; Hitler richiede le dimissioni del primo ministro Kállay e la soluzione radicale della questione ebraica.

19 marzo 1944            I tedeschi occupano l’Ungheria.

marzo 1944                 Viene formato il governo di Döme Sztójay. I filotedeschi occupano i posti chiave. László Baky ministro della Gendarmeria e Polizia dichiara: “Considero il mio lavoro strettamente legato alla finale e totale liquidazione della Sinistra e dei traditori ebrei in questo paese.”

dal marzo 1944            Vengono emanati decine di decreti antiebraici; uno di questi, obbliga gli ebrei a portare la stella gialla. Il gruppo di Eichmann arriva in Ungheria.

7  aprile 1944              László Baky riunisce un consiglio sulla formazione dei  ghetti.

28 aprile 1944             Parte il primo trasporto per Auschwitz (dal campo d’internamento di Kistarcsa).

4 e 6 luglio 1944          Partono per Auschwitz i treni che portano ebrei raccolti nei ghetti di Pécs, di Bonyhád e di Mohács.

6 luglio 1944                Il primo ministro Miklós Horthy sospende la deportazione.

15 ottobre 1944           Il tentativo di Horthy di ritirarsi dalla guerra fallisce, le Croci Frecciate vanno al potere, Ferenc Szálasi diventa primo ministro.

ottobre 1944                Szálasi accorda piena impunità alle Croci Frecciate. Il ministro degli interni Gábor Vajna comunica “la soluzione finale del problema degli ebrei” è compito dello stato, gli ebrei devono essere considerati “razzialmente”; e dichiara non valido qualsiasi salvacondotto anche di governi amici.

15 novembre 1944       A Budapest si forma il ghetto “internazionale”.

2 dicembre 1944          Finisce il concentramento degli ebrei di Budapest nel grande ghetto di Pest. Non c’è tempo nemmeno per la loro deportazione ad Auschwitz.
Gli ebrei vengono convocati sulle rive del Danubio e qui vengono eseguite, da parte delle Croci Frecciate, migliaia di fucilazioni.
Non sono risparmiati né donne, né bambini né vecchi. Nessuna sepoltura per i corpi delle vittime, tutte cadute direttamente nel fiume.

Il totale delle persone uccise durante la Shoah in Ungheria è maggiore di 550.000
Gli ebrei deportati ad Auschwitz furono circa 437.000.
I martiri accertati di Pécs furono  3.022.

Capitolo ottavo: la testimonianza


Nel suo percorso il professore arriva ora al "Museo di storia della città".
Qui vede e fotografa volantini antisemiti, la stella di Davide che gli ebrei dovevano cucire sui loro vestiti, un braccialetto con il numero di identificazione che sostituiva il tatuaggio quando i deportati erano talmente tanti che non c'era più nemmeno il tempo per marchiarli tutti.
Ma qui il professore incontra anche un'impiegata del museo, e da lei scopre che a Pécs vive ancora qualche superstite, e tra questi c'è una signora anziana disposta a dare testimonianza. Non è difficile organizzare l'incontro: ci si trova una mattina presso il centro ebraico, vicino alla sinagoga. L'impiegata del museo, il professore, una collega del professore, quattro studenti.
Come piccolo segno di ringraziamento, il professore porta alla signora una pianta in vaso. Non dei fiori recisi, ma una pianta viva; viva come è viva la testimonianza che la signora sta per rendere.
L’anziana signora, ha uno sguardo sereno; parla con calma e rigira tra le mani un piccolo sacchetto di plastica.
Appena inizia a parlare apre il sacchetto e ne toglie una stella di Davide. La sua stella di Davide.
La passa tra le mani con delicatezza, la tocca con mani esperte come di una sarta; sembra quasi che stia valutando la consistenza della stoffa. E intanto parla con pacatezza, senza tradire emozioni, senza enfasi e senza retorica.
Poco dopo estrae un piccolo involto. Srotola delicatamente il contenuto.
Appare un oggetto grigio verde, opaco, sembra unto. Sapone.
La signora lo rigira tra le mani con delicatezza.
La signora ricorda: "Questo è il sapone che ci davano per lavarci. Un sapone che non faceva schiuma. Con chi mi lavavo? Sarà mia nonna? Sarà mia madre? Sarà mio fratello?".
La signora ricorda il periodo della reclusione nel ghetto. Quando tutta una famiglia era costretta a vivere in una stanza. Nella sua famiglia erano solo sei, e si consideravano fortunati. Avevano un monolocale tutto per loro. C'era la possibilità di cucinare, ma c'era molto poco da cucinare. Non potevano neanche uscire e nessuno veniva ad aiutarli. Alcuni anziani morivano di stenti, e qualcuno per la disperazione aveva preferito uccidersi.
La signora ricorda il momento dell'arrivo al campo di concentramento dopo tre giorni di viaggio in condizioni disumane, con la speranza di arrivare a lavorare in un posto che fosse meglio del ghetto. 80 persone stipate in un vagone, senza niente da mangiare, senza niente da bere, senza un posto riservato dove poter fare i propri bisogni, costretti, uomini e donne, a servirsi tutti di un unico secchio.
La signora ricorda più di tutto la vergogna, l'umiliazione. Per sempre.
L'unico ricordo di gioia, in quel momento, è legato a un barattolo di marmellata, fatta dalla nonna, che la nonna stessa era riuscita a salvare quasi per miracolo. Quella marmellata fu l’unico nutrimento per lei e per la sua famiglia durante tutto il viaggio.
La signora ricorda ancora la puzza tremenda che si sentiva appena si scendeva dal treno, la separazione che subito divideva gli uomini dalle donne, e poi ancora un'altra separazione... Lei che doveva seguire una fila, sua nonna, il suo fratellino e sua madre che lo teneva per mano, che si allontanavano lungo un'altra fila. Non li avrebbe visti mai più.
La signora ricorda la prima violenza: essere spogliata di tutti i vestiti, essere rasata sul capo e su tutto il resto del corpo. La violenza di vedere annientata la propria identità. La violenza di essere trattata “come una pecora muta portata al macello”, proprio così dice la signora “una pecora muta portata al macello”. La violenza di essere ridotta solo a un numero, un numero scritto sulla casacca. La signora ricorda: Un numero; 36.136.
E poi la paura. La paura nel riconoscere sotto i crani rasati i volti sconvolti delle altre deportate, vestite come lei di casacche a righe senza forma.  
La signora ricorda altre violenze: la violenza di non ricevere acqua da bere; la violenza di essere costretta a bere l'acqua piovana raccolta spremendo una camicia; la violenza di essere costretta a mangiare cibi disgustosi e ripugnanti dallo stesso piatto insieme ad altre quattro o cinque persone. La violenza di dover sopportare una puzza tremenda. La puzza degli altri deportati. La puzza degli escrementi. La puzza proveniente dai camini. La violenza di dover convivere fianco a fianco, a stretto contatto con persone infette. La violenza di non avere un posto dove potersi stendere per dormire. La violenza di dover assistere a uno spettacolo intollerabile: decine di cadaveri di uomini ridotti quasi a scheletri, buttati, come cose, come spazzatura, a decine, sui carri.
Eppure, fortissima, sempre la voglia di sopravvivere.
La signora ricorda. Ricorda le marce estenuanti senza una meta precisa, per giorni e giorni, per settimane, camminando sulla terra fredda, nel fango, senza scarpe.
Deve essere stato in momenti simili, vissuti anche da lui che Miklós Radnóti, il poeta, ha scritto: Marcia forzata.
…E’ pazzo chi, stramazzato si rialza e ancora s’incammina…
E dopo le marce estenuanti la signora ricorda la sorpresa. L'incubo finisce. Un giorno i tedeschi non ci sono più. Ora bisogna pensare, pensare a come ricominciare a vivere.
L’anziana signora, ha uno sguardo sereno; parla con calma e continua a rigirare lentamente tra le mani il piccolo sacchetto di plastica. "Questo è il sapone che ci davano per lavarci. Un sapone che non faceva schiuma. Con chi mi lavavo? Sarà mia nonna? Sarà mia madre? Sarà mio fratello?".
La signora ha offerto i suoi ricordi.
Anche se l'esperienza dei campi di sterminio è un'esperienza inconcepibile.
Un'esperienza che costretti, si può vivere. Un’esperienza cui si può sopravvivere.
Un’esperienza che a fatica si può raccontare, ma che se non la si è vissuta, non la si può capire a fondo. Il professore, la collega, l'impiegata del museo, gli studenti hanno ricevuto il “dono”.
Il dono straordinario della memoria.

Capitolo nono: forse la soluzione può essere un viaggio


Il professore parla della Shoah con tutte le persone con cui riesce ad avere un contatto.
Alcune frasi lo feriscono. "Non so niente degli ebrei, e non voglio saperne niente. Sono una cultura con cui non ho niente in comune e non voglio avere niente in comune".
"Gli ebrei mi sono del tutto estranei, e voglio che lo restino".
"Questa sera ho imparato una parola nuova che non conoscevo: shoah".
"Più di 3000 ebrei della nostra città deportati e uccisi? … ma non esageriamo!".
Escludere, negare, minimizzare. Ancora. Escludere, negare, minimizzare. Sempre. Perché?
Perché ancora questo antisemitismo sotterraneo... antisemitismo in realtà senza oggetto, visto che di ebrei, in Ungheria, a Pécs quasi non ne esistono più.
Forse. Forse l'idea di vedere di persona... forse passare su quei luoghi...
forse il contatto con quello che è successo, con la realtà...
questa realtà che è così lontana da sembrare impossibile,
ma che è anche così vicina da avere bisogno di negarla...
forse... forse nel silenzio... forse qualcosa si potrebbe capire.
Ecco come nasce l'idea del viaggio: un pullman di professori e studenti da Pécs ad Auschwitz con fermata a Cracovia.
Il preside della scuola non ha difficoltà a concedere il permesso, né a far sostenere alla scuola una parte delle spese per consentire a tutti coloro che lo desiderano di partecipare.
Qualche difficoltà si trova invece nel riempire il pullman. Qualche studente non è interessato. Qualche altro deve risparmiare per fare la patente. Qualche altro ha i genitori che “non capiscono il senso del viaggio”. Comunque raccogliendo gli studenti da cinque classi diverse si riesce a riempire il pullman e a partire: poco più di 30 studenti e una quindicina di professori.
Il viaggio è molto lungo. Ad ogni frontiera si perde un quarto d'ora più del dovuto per la presenza di uno studente di etnia Rom con passaporto rumeno. "Un extracomunitario". Le guardie di frontiera prendono i suoi documenti. Li esaminano. Trascrivono i suoi dati.
Nell'attesa lo studente trova l'ironia per una frase amaramente spiritosa. "Professore, pensi che sessant'anni fa i tedeschi mi avrebbero portato gratis e senza neanche i documenti".
E qui bisogna aprire una piccola parentesi. Stiamo ricordando lo sterminio di più di sei milioni di ebrei, ma, ma non dobbiamo dimenticare che gli stermini hanno coinvolto omosessuali, handicappati, oppositori politici e rom.
Ci sono le prove di almeno 500.000 rom trucidati nei campi.
Il loro marchio era un triangolo nero con il vertice capovolto, a volte affiancato dalla lettera z, (lettera che stava per zigeuner: "zingari"). Per i nazisti anche i Rom rappresentavano una "razza" pericolosa, una minaccia alla suprema "razza" ariana. Il rom era nomade, ladro, truffatore, assassino per cause genetiche, cioè generatrici di un comportamento immodificabile.
Ad  Auschwitz, per un certo periodo, ci fu una sezione appositamente riservata alle famiglie zingare, sebbene la presenza dei rom sia documentata anche prima della costruzione di un apposito campo per loro. Lo Zigeunerlager entrò in funzione alla fine del febbraio 1943 e cessò di esistere ai primi di agosto del 1944, quando tutti coloro che, fino a quel momento, vi erano sopravvissuti, vennero condotti nelle camere a gas. Solo negli anni '80 la Germania riconobbe ai rom la dignità di vittime: riconobbe, cioè che essi avevano subito una persecuzione razziale. Chiudiamo qui la breve parentesi sulla persecuzione del popolo Rom, e proseguiamo col racconto del viaggio.
La sera il gruppo arriva a Cracovia e al mattino si viaggia verso Auschwitz. È una bella giornata di sole ma fa freddo; c'è ancora neve e il termometro indica alcuni gradi sotto lo zero.
La strada incrocia varie volte i binari della ferrovia. Quando si attraversano i paesi si vedono piccole stazioni. Il professore prova una stretta angosciosa al petto; in quei punti, in quelle stazioni, saranno passati, avranno sostato i vagoni carichi di esseri umani…
il pullman si perde... l'autista non è mai stato ad Auschwitz, non sa la strada, mancano le indicazioni... non c'è un segnale, non c'è un cartello che diriga verso il luogo. Anche qui rimozione, oblio, negazione. Il silenzio sembra esprimere il senso di colpa… o, forse… ancora ostilità?
Finalmente con quasi un'ora di ritardo il pullman arriva al parcheggio. Sono circa le 11 del mattino, c'è un freddo gelido e tagliente, ci saranno -15 gradi, la terra è coperta di neve bianchissima, la luce abbagliante. E questo già contrasta con l'immagine che abbiamo di Auschwitz, immagine costruita da quasi tutti i film sulla Shoah. Lì la terra è sempre un grumo di fango e il cielo è sempre di piombo. Inizia la visita. Alcuni professori e studenti entrano subito nella sala dove si proietta un documentario. Va bene così.  Il professore di documentari ne ha già visti tanti, quello che cerca è una sensazione, un suono, una voce… qualcosa di reale, di autentico… che faccia sentire cosa è stato Auschwitz e quindi prosegue con altri studenti. I freddo è tagliente. Il professore quasi si vergogna di provare freddo. I piedi sono ben calzati negli scarponi, il giaccone imbottito protegge dal vento, la testa è coperta dal cappello. Chi è stato deportato qui per prima cosa veniva spogliato dei suoi vestiti e gli veniva data una casacca miserabile, a strisce, del tutto inutile per proteggere dal freddo. Nel silenzio, una campana suona ripetutamente. Qui, dove gli ordini venivano urlati con violenza, dove gli ordini si mescolavano all’abbaiare rabbioso dei cani… ora una campana suona ripetutamente.
Inizia la visita delle baracche. Nella prima, una enorme foto mostra l'arrivo di un carico di ebrei ungheresi. I volti dei deportati sono attoniti. Si fissano negli occhi e nei cuori dei visitatori così come si sono fissati sulla lastra della fotografia. Alcuni studenti non riescono a sopportare la vista delle fotografie dei bambini sottoposti alle turpi sevizie di Mengele e scappano guardando in terra.
Gli studenti guardano attoniti, mentre osservano i barattoli che contenevano il gas che ha ucciso milioni di persone, mentre osservano i capelli delle donne, la montagna di scarpe, la quantità enorme di occhiali che appartenevano alle persone sono state uccise qui.
Quando arrivano davanti alla vetrina che raccoglie migliaia di valigie, gli sguardi si fissano.
Gli studenti cercano tra i nomi, come se ci fosse da trovare qualche parente o qualche amico:
Maria Kafka, “Professore sarà stata una parente dello scrittore?”,
Julius Levi, “Professore guardi, ‘Levi’, come lo scrittore italiano di cui ci ha parlato a scuola”.
Il percorso procede.  Si visitano uffici, celle, i luoghi indecenti dedicati alle esigenze corporali, il luogo delle torture, il luogo delle esecuzioni.
Qui vicino in una sala ci sono alcuni disegni che rappresentano scene nel campo. Uno è agghiacciante. Un condannato a morte è trascinato al luogo dell'esecuzione. Esce da una cella di una prigione. La porta della cella è ancora aperta. Attraverso le sbarre si intravedono tre donne nude, piangenti. Il disegno non lascia spazio a equivoci. Cosa gli avranno detto i nazisti: “Su svelto, prima di crepare goditi l'ultima scopata con queste puttane”. Tre donne. Chi avrà scelto? Come sarà stata la selezione? “Tu andrai al lavoro, tu ai forni, e tu sarai la puttana”.
Sono già passate circa due ore. Il pullman attende per andare a Birkenau. Il professore pensava che i due luoghi fossero attaccati, che ci fosse solo un trattino a separarli, come quello che si usa quando si scrive Auschwitz-Birkenau. E invece la strada è piuttosto lunga; gli spazi enormi fanno intuire (ma non si riesce veramente a capire) quanto potesse essere enorme il massacro che è stato compiuto qui. Non si riesce a capire. Birkenau mette l'ansia addosso. C'è solo uno spazio enorme, sembra quasi infinito. Fili elettrici che si vede dove cominciano ma non si vede dove finiscono.
Il vento è forte, freddo e ghiacciato. Si cammina per un bel po' lungo i binari del treno. Alla fine dei binari ci sono dei ruderi. Un cartello permette di capire: da quella scala si scendeva allo spogliatoio; subito dopo c'era il locale per le docce; da lì si entrava nella camera a gas e infine sopra c'erano i forni. Se i tedeschi avessero usato la loro capacità organizzativa e le loro doti di ingegneri per un qualche fine positivo, veramente, sarebbero diventati i signori del mondo.
Lì vicino c'è il monumento... ci sono le lapidi che ricordano quello che qui è successo. Una persona in ginocchio piange proprio davanti alla lapide in italiano. Il professore si guarda intorno. Il cielo è bellissimo, pulito, luminoso. La luce brilla sulla neve. Il vento freddo scuote lentamente le betulle.
Come ha potuto succedere che in un posto così, con una natura così bella si sia potuto realizzare un progetto così folle? Non ci sono scuse di nessun genere. Come è stato possibile che il popolo che ha dato all'umanità Kant, Hegel, Beethoven, Heisenberg, Gödel si sia lasciato trascinare nella più grande e tragica pagliacciata della storia dell'umanità.
Sì, queste due parole, tragica e pagliacciata, sono giuste.
“Tragica” perché della più grande tragedia della storia dell'umanità si è trattato.
Ma anche “pagliacciata” è giusta. Come definire diversamente i progetti millenari di Adolf Hitler?
Come definire diversamente le adunate oceaniche di presunti superuomini che si esibiscono nel grottesco passo dell'oca? Come non provare pena davanti alle scene filmate nei tribunali del dopoguerra in cui tutti questi superuomini piagnucolavano che loro, non avevano colpa, che loro avevano solo ubbidito agli ordini superiori.
No. In questo momento il professore si guarda intorno. Non si riesce a immaginare le urla, l'abbaiare dei cani, l'ululato delle sirene, la puzza, la fame, il freddo che stronca i deportati, la malattia, i parassiti, la paura. La paura continua. L'umiliazione continua. Il rischio continuo che ogni minuto potesse essere l'ultimo della propria vita. Che la propria vita potesse finire per un pretesto qualsiasi. Anzi, anche senza un pretesto. Per caso. Solo per caso. Sempre per caso.
Non si può provare nulla di quello che è stato provato qui, non si può neanche capire. Il professore sente che né la sua intelligenza, né quella di ogni altro essere umano, può capire a fondo quello che qui è successo. E’ troppo. Chi non ha vissuto l’esperienza di Auschwitz sulla propria pelle, non può sentire Auschwitz. Sì, quello che è successo, non si può capire, ma… bisogna sapere.
Bisogna sapere e bisogna far sapere.
Chiunque è obbligato a mantenere viva questa memoria. Questo è il dovere di ognuno.
Questo è soprattutto il dovere di ogni educatore.
E quindi bisogna dire. Bisogna dire al maggior numero di persone, di giovani soprattutto. Ma come?
Ecco, è durante il viaggio di ritorno che il professore concepisce l’idea di una mostra.

Capitolo decimo: la piccola-grande mostra

Ebbene si. E’ stato proprio durante il viaggio di ritorno da Auschwitz che il professore ha cominciato a pensare di raccogliere tutte le idee, le informazioni, le immagini, i testi incontrati e letti in un'unica grande mostra. Una mostra da fare nella scuola, una mostra che avrebbe anche potuto essere allestita presso altre scuole, presso centri culturali...
E così il professore e l'altro suo collega italiano cominciano a ordinare i materiali esaminati fino a quel momento. E naturalmente continuano a raccogliere anche altri materiali, altre informazioni, altre immagini. Fanno tradurre in ungherese dalle colleghe del liceo tutti i testi selezionati.
A poco a poco la mostra prende forma. Una mostra povera. Una trentina di pannelli di cartone; qualche oggetto prestato dal museo; fotografie, immagini in bianco e nero, qualche testo di spiegazione, qualche poesia. Una mostra povera nei materiali, ma nessuno ci ha fatto caso.
Il titolo: molto semplicemente, “Pécs 1944”.
Il testo di introduzione alla mostra: la frase di Primo Levi:
"Ogni uomo civile è tenuto a sapere che Auschwitz è esistito,
e che cosa vi è stato perpetrato: se comprendere è impossibile conoscere è necessario”.
La mostra è stata inaugurata nel maggio 2005, alla presenza dei rappresentanti della comunità ebraica, e del rabbino capo della piccola comunità di Pécs che ha richiamato i giovani della scuola alla responsabilità della memoria.
Il professore non dimenticherà mai gli sguardi dei giovani, in quella mattina.
Sguardi attenti e seri, come non sono mai durante le lezioni di matematica o di fisica.
Sguardi seri di giovani, anzi di persone ora adulte, che leggono.
Leggono una frase tratta da quel libro disperatamente poetico e rivelatore, che è
“Yossl Rakover si rivolge a Dio”.
“Sono fiero del mio essere ebreo. Perché essere ebreo è un'arte. Perché essere ebreo è difficile. Non è un'arte essere inglese, americano o francese. È forse più facile e più comodo essere uno di loro, ma certo non è più onorevole. Sì, è un onore essere ebreo! Mi vergognerei di appartenere ai popoli che hanno generato e cresciuto gli scellerati responsabili dei crimini compiuti contro di noi."
Sguardi seri che guardano la foto di una bambina.
Una bambina bellissima, coi capelli scuri raccolti in due treccine, lo sguardo profondo, e sul petto, sul cuore, la stella di Davide con all'interno la scritta “Jude”.
Una piccola creatura innocente. Una piccola creatura destinata al massacro.
Una piccola creatura destinata al massacro perché spaventava a morte i grandi uomini,
i grandi super-uomini della croce uncinata.
Sguardi seri che guardano altre immagini. Uomini costretti al lavoro, uomini denutriti, uomini morti. Uomini e donne sopravvissuti che mangiano accanto ai cadaveri.
Sguardi seri che leggono, per la prima volta, la famosa poesia:
Voi che vivete sicuri
nelle vostre case
Voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e i visi amici:
considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce la pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa e andando per via
coricandovi e alzandovi:
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa
la malattia vi impedisca
i vostri figli torcano il loro viso da voi.
Sguardi seri, pieni di stupore, mentre guardano i pannelli con immagini che ritraggono zingari: zingari giovani, zingari vecchi, zingari bambini... ritratti come fossero delinquenti; sguardi increduli, quando leggono le poche parole che raccontano il calvario di questo popolo orgoglioso.
Sguardi pensosi, sguardi pesanti, mentre leggono ancora una poesia: una poesia di Edith Bruck, la poetessa ungherese, sopravvissuta, che ora vive in Italia.
Per noi sopravvissuti
è un miracolo ogni giorno
se amiamo, noi amiamo duro
come se la persona amata
potesse scomparire da un momento all'altro
e noi pure.
Per noi sopravvissuti
il cielo ora è molto bello ora è molto brutto
le mezze misure
le sfumature
sono proibite.
Con noi sopravvissuti
bisogna andare cauti
perché un semplice sguardo storto
quello quotidiano
va ad aggiungersi ad altri tremendi
e ogni sofferenza
fa parte di una unica
che pulsa col nostro sangue.
Noi non siamo gente normale
noi siamo sopravvissuti
per gli altri.
Sguardi seri, acuti, intelligenti, mentre leggono una riflessione brevissima ma acutissima sui due poli entro cui si gioca la vita di ogni essere umano: il destino, la libertà.
Una frase di Imre Kertész , il premio Nobel, il sopravvissuto… una frase tratta da “Essere senza destino”.
“Se esiste un destino, allora la libertà non è possibile,se però la libertà esiste, allora non esiste un destino,il che significa che noi stessi siamo il destino."
Il destino o gli dei, si chiedevano i greci. Kertész dà la sua risposta.
Sguardi distesi e pieni di speranza davanti al pannello dedicato ai “giusti”  tra i quali Giorgio Perlasca… quel  commerciante italiano che nell’inverno del 1944-45, a Budapest, riuscì a ingannare i nazisti tedeschi e fasciti ungheresi facendosi credere un diplomatico spagnolo, e così  salvò circa 4000 ebrei. Sorridono e annuiscono quando leggono la famosa dichiarazione: “L’ho fatto … Lei cosa avrebbe fatto al mio posto?  In fondo sono stato solo un magnifico impostore”.
Ma Perlasca non fu il solo. Migliaia di ebrei furono salvati dal re di Svezia, tramite il suo ambasciatore a Budapest, dal Nunzio apostolico Angelo Rotta, da Raul Wallenberg che subito dopo la guerra scomparve, forse trucidato da chi aveva scoperto e non gradito la sua attività a favore degli ebrei.
Sguardi per nulla divertiti, anzi imbarazzati, davanti alla serie di caricature, di vignette satiriche, di volantini antisemiti conservati al Museo di storia della città di Pécs. Caricature e disegni con il solito repertorio di luoghi comuni e di volgarità sugli ebrei: nasi adunchi, l'ebreo avido che toglie tutte le risorse al popolo che lo ospita, l'ebreo sporco...
Sguardi quasi increduli, davanti alla piantina della loro città in cui erano evidenziate le posizioni della sinagoga, della scuola ebraica, del ghetto, del cimitero ebraico, e anche di un edificio che sorge ancora nei pressi dell'Università, e che ebbe la funzione di punto di raccolta degli ebrei della regione che stavano per essere imbarcati sui treni per Auschwitz.

Sguardi seri e silenziosi davanti alle foto di alcune lapidi del cimitero ebraico, quelle che riportano i nomi che sono scritti nel libro delle lacrime.
Sguardi seri e silenziosi davanti agli ultimi pannelli, quelli dedicati al libro delle lacrime.
3000 nomi. Si fa presto a dire 3000 nomi.
Ma vederli tutti insieme, tutte le pagine aperte lì, davanti agli occhi…
per leggerli tutti ad alta voce occorrerebbe quasi tutta la mattina… ogni nome, pochi secondi che racchiudono un viso, un sorriso, sentimenti, amore, gioie, sofferenze, intelligenza, una storia, un passato, un sapere. “E tutto questo è andato perduto…”.

Ma il professore non dimenticherà mai neanche lo sguardo smarrito, perduto lontano nel tempo, di un rappresentante della comunità ebraica, un sopravvissuto, che, dopo essersi riconosciuto, indica se stesso in una fotografia di classe. Indica, tremando schiacciato da un terribile senso di colpa, se stesso, unico sopravvissuto, in mezzo a tutti i suoi compagni di classe, vicino ai suoi professori, tutti deportati, tutti morti, come tutti gli altri studenti e tutti gli altri professori della scuola.
E si ripresenta ancora una volta la stessa domanda: perché il caso ha scelto lui? perché il caso ha scelto di salvare proprio lui!?
La storia della mostra è finita. Anche questo racconto è quasi finito.
Il bisogno di non disperdere la memoria non finirà mai. Ecco il perché di questo racconto.

Per chiudere questo incontro abbiamo preparato un regalo per voi. Il seme. Il seme della memoria. Un piccolo segno per aiutare la memoria. In questo cesto abbiamo messo delle stelle di Davide di carta, e su ogni stella abbiamo scritto un nome. Un nome che abbiamo preso dal libro delle lacrime. Il nome di uno di questi morti che non ci lasciano riposare tranquilli.
Noi vogliamo regalarveli. Vogliamo regalarvi il vostro Dybbuk.
Quello che vi chiediamo adesso è di non seppellirlo questo nome.
Quello che vi chiediamo adesso è di dargli vita, di farlo vivere. Dargli quella vita che gli è stata tolta ingiustamente. E per dargli vita bisogna dargli “memoria”.
E “UN” modo, certo non l’unico, per dargli “memoria” è quello di consentire a questo incontro di ripetersi ancora. Nelle scuole, nei centri culturali, nelle chiese, nelle sinagoghe, anche nelle case, perché no, anche davanti a poche persone, anche davanti a pochi amici, perché ogni seme, ogni seme, anche uno solo, è importante e vale. Vale come atto di riparazione.

Grazie della vostra attenzione.

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