martedì 20 dicembre 2011

Pécs 1944


Luigi Alcide Fusani

Pécs 1944

Questo testo per narrazione è stato scritto nella primavera del 2006; è stato scelto nella cinquina dei testi finalisti alla prima edizione del premio Teatro e Shoa e pubblicato in edizione bilingue nella collana I seminari di Pécs nel gennaio 2007.
La prima recita si è tenuta a Pécs il 6 Ottobre 2006

E’ stato tradotto in ungherese, per consentirne la recitazione nella case, nelle scuole, nei centri culturali e religiosi.

Un sentito ringraziamento ad Antonio Satta, Ilona Radnóti e István Vörös per i loro preziosi consigli umani e professionali.

***

Le storie non le cerchi.
Sono loro a trovarti, è sempre così.
Un incontro, un libro illuminante: per noi é stata la voce di quegli esseri umani che hanno vissuto sulla propria pelle la più grande tragedia del ventesimo secolo.

Capitolo primo: come il destino, gli dei o il caso vollero che il professore venisse a insegnare a Pécs

Il destino o gli dei? Già i greci 2500 anni fa si ponevano questa domanda.
Il destino o gli dei? Avevano già capito che la volontà degli uomini è poca cosa.
Anzi a volte quasi nulla.
Il destino. È difficile definire il destino.
Accontentiamoci del caso. Definire il caso è un po' più semplice.
Si getta un dado, può venire due, può venire cinque, può venire uno...
poi vincere, puoi perdere...
puoi salire sul treno e incontrare l'uomo della tua vita...
o arrivare con un minuto di ritardo... e non incontrarlo mai.
Anche questo incontro di oggi, preferisco chiamarlo incontro e non spettacolo, avviene grazie al caso.

Alcuni anni fa un professore di matematica italiano, decide che i suoi figli sono sufficientemente grandi per cavarsela da soli, e quindi, è giunto il momento di fare un concorso per andare ad insegnare all'estero. In Italia con lo stipendio di un professore si vive a fatica. Invece il compenso per la trasferta è piuttosto buono.
Ormai il professore ha più di cinquant'anni. Ha più di 25 anni di anzianità, ha parecchi titoli e quindi se farà bene la prova, al ministero, a Roma, ha buone probabilità di partire per insegnare all'estero. Un po' di fortuna, un po' di preparazione, al concorso il professore realizza un buon punteggio. Adesso basta solo aspettare per sapere in quali paesi del mondo ci sono cattedre libere. Alcuni mesi dopo, quando arriva il telegramma c'è la possibilità di scegliere tra tre destinazioni. Istanbul, Tirana, Pécs.
Perché non Parigi, Lione, Marsiglia, o Ginevra, o Praga...
eccolo il lancio dei dadi: Istanbul, Tirana, Pécs.

Tirana è stata scartata subito. Troppa mafia, troppa delinquenza, troppi affari loschi, così dice la televisione.
Istanbul... grande metropoli, grande passato storico... un amico che c'era stato in vacanza aveva detto che si mangiava benissimo. È una buona possibilità.
Pécs... Pécs? Ungheria? Perché non Budapest?
Meglio che non fosse Budapest. Il professore è molto superstizioso e l'unica volta che era stato a Budapest, da turista, c'era stato solo un giorno, perché nella notte aveva sognato che il giorno dopo sarebbe morto, proprio lì a Budapest e quindi alle sette della mattina aveva svegliato tutta la famiglia, aveva caricato moglie, figli e bagagli in macchina ed era scappato senza fermarsi fino a quando non era arrivato a casa, a Milano.

Pécs... Ungheria.
Meno male che viviamo nell'era di Internet. Motore di ricerca, Google, cerca Pécs.
Non si capisce niente, le foto della città sono belle, ma le spiegazioni... non si capisce niente.
C'è la foto di un teatro. Si clicca sopra, si vedono gli spettacoli della stagione.
Ci sono anche le foto di altri teatri. Il professore ne conta sette.
Ce n'è anche uno per bambini che organizza a giugno un festival che sembra molto interessante.
Il professore ama molto il teatro. In Italia riesce ad andare a teatro anche 150 volte in un anno.
Durante l'estate si sposta quasi solo per andare a vedere festival. È capace di vedere anche 50 spettacoli in una settimana. Più che una passione è una vera e propria malattia.
Pécs. Una città con sette teatri e un festival.
Il giorno dopo parte il telegramma per Roma: “Scelgo la destinazione Pécs”.

Capitolo secondo: un'impressione molto positiva.

Un mese dopo il professore arriva a Pécs, con la moglie e una macchina carica di libri e vestiti.
Arriva diritto da Budapest... (si, arrivando da Milano a Pécs, di solito non si passa per Budapest, ma il professore aveva dovuto presentarsi all'ambasciata italiana per prendere servizio)...
dicevamo, il professore arriva diritto da Budapest e si commuove: il professore è molto emotivo... percorre il lungo vialone che passa davanti alla fabbrica delle ceramiche Zsolnay... passa davanti alle facoltà di legge e di economia... ma non le vede. Quello che vede sono decine di ragazzi alle fermate degli autobus... ragazzi che escono dalle scuole... "forse quelli saranno i miei ragazzi..." pensa "quelli sono i ragazzi, gli uomini, le persone con cui passerò i prossimi cinque anni".
Il professore è un emotivo. Si commuove.

Prosegue, entra in centro città, arriva al parcheggio Kossuth. Parcheggia. Scende dalla macchina. E invece di chiedere informazioni sulla via del ginnasio dove si deve presentare, si ferma a guardare la sinagoga. Ci sono lavori in corso. La stanno ristrutturando. Che bello! Ci deve essere una comunità molto vivace e attiva. Si rivolge alla moglie. "Guarda che splendida sinagoga. Qui certo potrai studiare l'ebraico." La moglie del professore desidera studiare l'ebraico fin dai tempi dell'università. La prima impressione è molto positiva. Su Internet il professore aveva visto la fotografia di una moschea, di una cattedrale, di alcune chiese. Che bella una città dove convivono in pace le tre religioni monoteiste! In questi tempi di tensioni etniche e religiose, è un bell'esempio di tolleranza e di civiltà.

Capitolo terzo: come il professore decise di piantare un ulivo in Ungheria.

Nei mesi successivi il professore passa ripetutamente dalla piazza Kossuth. Lì c'è il parcheggio da cui è facile raggiungere le vie principali del centro. Ogni volta il professore guarda verso la sinagoga. Ogni volta la sinagoga è chiusa.
Il professore cerca di capire. E incomincia a chiedere. Chiede a scuola ai colleghi. Chiede agli studenti. Pare che nessuno sappia niente. Pare che di ebrei a Pécs, non ce ne siano più da molto tempo. Nessuno ne sa più nulla.

Arriva la primavera. Il 1o maggio del 2004: l'Ungheria entra in Europa. Grandi festeggiamenti.
Passa ancora un po' di tempo. Arriva il gennaio 2005.
Da qualche anno, la Comunità Europea ha deciso che il 27 gennaio di ogni anno, anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz da parte delle truppe russe, debba essere dedicato alla memoria. La memoria dell'Olocausto, o meglio della Shoah.
Anche all'Onu si sta riflettendo su questo bisogno di memoria e si sta pensando di estendere la celebrazione dall'Europa a tutto il resto del mondo.
Nella scuola del professore la commemorazione si riduce a un comunicato di pochi minuti durante l'intervallo, attraverso gli altoparlanti disposti in ogni classe.
È l'intervallo; i ragazzi fanno la ressa al buffet; molti fumano all'aperto nel cortile interno.
All'inizio delle lezioni il professore chiede gli studenti: "Che cosa ha detto la radio della scuola durante l'intervallo?". Sguardi stupiti. Gli studenti si guardarono a vicenda senza capire. Che cosa sta chiedendo professore? Nessuno ha sentito nulla.
In ogni classe, si sa, c'è sempre uno studente o una studentessa più sfacciata degli altri: "Cosa dovevamo sentire, signor professore?”.
"Devono aver detto qualcosa sulla shoah"... "ah sì, forse...". Distrazione, disinteresse, superficialità.
Nella mente del professore per reazione risuonano subito, ancora una volta, le parole di Primo Levi. Bisogna ricordare, perché quello che è accaduto, proprio perché è accaduto, può accadere ancora.
A pochi chilometri da Pécs c'è la Croazia. Quando il professore torna in Italia in macchina e passa attraverso la Croazia, lungo la strada si vedono decine di case crivellate dai colpi. Alcuni devono essere colpi di fucile, o di mitragliatrice. Altri sono più grossi. Devono essere colpi di mortaio, o di cannone.
È successo a meno di 100 km da Pécs. È successo meno di 10 anni prima.
È successo che lì si è parlato ancora di pulizia etnica.
È successo che lì sono stati costruiti ancora campi di concentramento.
È successo che lì migliaia di persone sono morte in condizioni vergognose.
È successo di nuovo e può succedere ancora.
Kossovo, Albania, Serbia, Montenegro, è successo di nuovo e può succedere ancora.
Ecco perché le truppe dell'Onu non abbandonano la regione.

No. Non deve succedere più. Assolutamente non deve succedere più.
Bisogna fare qualcosa. Anche qualcosa di piccolo. Ma bisogna fare qualcosa. Mettere un seme. Un seme che faccia nascere una pianta. Una pianta di pace... come un ulivo.
Sì, è bella l'immagine dell'ulivo, l'ulivo dà frutti preziosi: le olive.
Le olive danno un alimento sano e nutriente: l'olio.
C'è bisogno di nutrire le menti dei giovani studenti. C'è bisogno di nutrirle con idee di pace.

Capitolo quarto: esercizi di memoria.

A casa il professore guarda la televisione.
Sessant’anni prima veniva liberato il campo di sterminio di Auschwitz.
Tutti i potenti della terra sono riuniti lì per la celebrazione dell’anniversario.
Il professore guarda la televisione. Passano Bush, Putin, Blair… ci sono tutti.
Tutti fanno il loro discorso. Le cose che dicono sono vere, ma il tono, le facce gli sembrano false… danno fastidio.
L’unico discorso con accenti di sincerità lo fa una persona che ad Auschwitz in quell’occasione non ci andò. Era ammalato gravemente e dopo pochissimi mesi sarebbe morto. Giovanni Paolo secondo.
Il primo papa nella storia della Chiesa a visitare una sinagoga, quella di Roma.
Il primo papa nella storia della Chiesa che per ribadire che gli ebrei per i cristiani sono fratelli maggiori, è andato a Gerusalemme a pregare al muro del pianto.
Il primo papa che ha chiesto scusa agli ebrei per tutto il male che i cristiani, che l’umanità intera hanno fatto contro di loro.
Le parole del Papa polacco sono straordinariamente semplici, lucide, ragionevoli, vere.

A nessuno è lecito, davanti alla tragedia della Shoah, passare oltre.
Quel tentativo di distruggere, in modo programmato, tutto un popolo
si stende come un’ombra sull’Europa e sul mondo intero; è un crimine
che macchia per sempre la storia dell’umanità.
Se ricordiamo il dramma delle vittime, lo facciamo non per riaprire dolorose ferite, nè per destare sentimenti di odio e propositi di vendetta, ma per rendere omaggio a quelle persone, per mettere in luce la verità storica e soprattutto perché TUTTI si rendano conto che quelle vicende tenebrose devono essere per gli uomini d’oggi una chiamata alla responsabilità nel costruire la nostra storia. Mai più in nessun angolo della terra si ripeta ciò che hanno provato uomini e donne che da sessant’anni piangiamo!

Ricordare. Ricordare le vittime. Ricordare e raccontare.
Eli Wiesel ha scritto che l’uomo è stato creato per raccontare.
Moni Ovadia, l’attore ebreo di origine bulgara, famoso per la sua ironia e per le sue battute prese dal repertorio ebraico dice che Dio ha creato l’uomo perché da solo si annoiava e gli sarebbe tanto piaciuto sentir raccontare delle belle storie. Ricordare e raccontare.
Ricordare. Il professore cerca di ricordare quando fu la prima volta che sentì parlare di Auschwitz. Aveva sentito parlare tante volte dei tedeschi, di quanto fossero state bestiali certe loro azioni durante l’occupazione dell’Italia seguita all’8 settembre del 43; aveva sentito parlare di Dachau e di Mautausen; c’era stato il nonno, c’erano stati degli zii. Aveva letto il diario di Anna Frank, ma lì si parlava della clandestinità in Olanda, e nelle note si aggiungeva solo che Anna morì in un campo di sterminio. Il professore non aveva mai sentito il nome di Auschwitz fino a quando, un giorno forse del 1966 – il professore aveva circa 16 anni, un amico non gli fece sentire un disco di un giovane cantante italiano. Quel cantante si accompagnava con una semplice chitarra. La sua voce non era nemmeno tanto gradevole. Aveva un forte accento bolognese e pronunciava male la „erre”.
La canzone diceva così:

Son morto con altri 100, son morto che ero bambino

passato per il camino, e adesso sono nel vento.
Ad Auschwitz c’era la neve, il fumo saliva lento,
nel freddo giorno d’inverno, e adesso sono nel vento.
Ad Auschwitz tante persone, ma un solo grande silenzio,
è strano, non riesco ancora, a sorridere qui nel vento.
Io chiedo come può l’uomo uccidere un suo fratello,
eppure siamo milioni in polvere qui nel vento.
Ma ancora tuona il cannone, e ancora non è contenta
di sangue la bestia umana e ancora ci porta il vento.
Io chiedo quando sarà che l’uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare e il vento si poserà.

Ma che canzone è?
… Il fumo saliva lento?… sono passato per il camino?… Ad Auschwitz c’era la luna…

Il professore, non ridete troppo della sua ingenuità, prende la carta geografica della Germania, cerca Auschwitz, naturalmente non la trova. Dovette passare qualche anno, prima che qualcuno gli dicesse che doveva cercare sulla cartina della Polonia.
Il professore ora si domanda: “Per quale progetto troppe persone hanno dimenticato? C’è un organizzatore dell’oblio? Perché questa rimozione? Perché?”
Il professore non ha una risposta. Forse una risposta c’è, ma deve essere troppo complessa; dovrebbero darla storici, filosofi, psicologi, sociologi, antropologi...
Se si conoscesse la risposta, forse sarebbe più facile “organizzare la memoria”. Forse.

Capitolo quinto: la stella di Davide in vetrina, ovvero “che senso ha un libro senza dialoghi né figure?”

Il professore non ha una risposta, ma continua a pensare che c’è bisogno di nutrire le menti dei giovani studenti. C’è bisogno di mettere un seme: mettere un seme non è facile. Occorre tutta la sapienza del contadino. Bisogna conoscere il terreno. Bisogna saper trattare il terreno.
Il terreno non deve essere troppo umido, affinché il seme non marcisca.
Il terreno non deve essere troppo arido, affinché il seme non secchi.
Il seme non deve essere piantato troppo in profondità, altrimenti non sente il calore del sole.
Il seme non deve essere piantato troppo in superficie, altrimenti gli uccelli lo mangeranno.
Non è facile mettere un seme. Il professore vorrebbe conoscere il terreno. Vorrebbe sapere cos'è successo agli ebrei di Ungheria. Vorrebbe sapere cos'è successo agli ebrei di Pécs.
Qualche informazione riesce a ricavarla dai libri di storia. Ma non si ricavano emozioni dai libri di storia. Qualche dato si, ma i dati sono freddi. Numeri.
Il professore insegna matematica. Sa benissimo che non c'è nessuna differenza tra il dire "100 morti", "1000 morti", "10 milioni di morti". Non ci sono emozioni nei numeri.
Ma il professore è fortunato. Il caso è stato spesso dalla sua parte.
Un pomeriggio, mentre sta passeggiando nelle vie del centro, si ferma a guardare la vetrina di una  libreria. Il professore non sa una sola parola di ungherese; prova soltanto a riconoscere i libri dai nomi degli autori. Ce n'è uno di Baricco. Uno di Calvino. Uno di Umberto Eco.
Ma a un certo punto l'attenzione del professore viene attirata da un libro strano.
Il colore decisamente triste, sfumature che vanno dal marrone chiaro al marrone più scuro.
Il titolo è "1944 Pécs", sotto il titolo un quadrato in cui è fotografato il petto di una persona di cui non si vede il viso.
Sul cappotto, anche se il colore è marroncino chiaro, si vede molto bene la stella di Davide.
Il professore sente che forse, ha trovato il libro giusto. Entra, e senza nemmeno sfogliarlo, lo compra. Più tardi scoprirà che il libro viene chiamato “Il libro delle lacrime”.
A casa, lo apre. Lo apre in mezzo. Pagine 32 e 33.
Due riquadri neri, come per una comunicazione di lutto, inquadrano quattro colonne di nomi: Hermann Éva, Hermann Zsuzsa,... Hirsch Tamás... Hoffmann László,
Hoffmann, Sándor... di Hoffmann ce ne saranno almeno 20... Horovitz... Horváth... e il professore comincia sfogliare il libro... ogni pagina sono 50, 60 nomi.... pagina 35, pagina 49, pagina 67, pagina 71. A pagina 71 ci sono solo quattro nomi che cominciano con zeta. È l'ultima pagina.
70 pagine ciascuna con circa 50 nomi, in totale risultano circa 3500 nomi.
Pagina dopo pagina, il numero riprende corpo e volume.
Sfogliare il libro, pagina per pagina dà una dimensione più concreta alla freddezza del numero.
Questi sono i nomi delle persone che non possono più andare alla sinagoga.
Che faccia avevano, che lavoro facevano. Nel libro non c'è scritto. C'è solo il nome.
Il professore vede i nomi ma non riesce a immaginare nessun viso. Ci prova, ma non riesce.
Nei cimiteri sulla lapide c'è scritto di più:
"Sposa fedele, madre esemplare", la foto.
"Padre generoso, lavoratore instancabile", la foto.
"I figli per sempre riconoscenti posero", la foto.
Nel libro non c'è scritto niente. Non c'è scritto chi era padre, non c'è scritto chi era figlio, non c'è scritto chi era bambino, non c'è scritto chi era nonno. C'è scritto solo il nome.
Non c'è scritto neanche dove sono morti. Auschwitz, Dachau, Mautausen... chi lo sa?
E comunque che differenza fa? Il professore sfoglia il libro. Ma che senso ha questo libro?
Alice prima di sprofondare nel paese delle meraviglie si domanda:
“che senso ha un libro senza dialoghi né figure?”.
In questo caso è abbastanza facile da capire. Anzi, facilissimo. Banale.
Quelli a cui era stata tolta l'identità di uomini, quelli che i nazisti chiamavano "maiali", o peggio ancora "pezzi", quelli che i nazisti tatuavano con un numero, per cancellare anche il loro nome, ora il loro nome, se lo sono ripreso. Sono morti, è vero, ma il loro nome, ora, non glielo può più levare nessuno.

Capitolo sesto: il professore scopre il ghetto, il cimitero e ringrazia il caso, il destino o gli dei di non averlo fatto diventare “giornalista”.

Qualche tempo dopo il professore sta viaggiando in macchina in città. Ha accompagnato la moglie dal parucchiere. A un certo punto il caso... il caso, sempre lui, lo porta su una strada in cui sono in corso dei lavori. La strada è interrotta. Bisogna fare una deviazione, scendere verso la stazione. Il professore arriva a un incrocio, si ferma per controllare se può passare e mentre aspetta che la via si liberi viene colpito dalla vista di una lapide sull'angolo di una casa.
Si, viene colpito perché la lapide non ha la forma rettangolare di tutte le lapidi. La lapide ha la forma delle tavole di Mosé. E sulla lapide c'è scritto “Ghetto di Pécs”.
Il professore parcheggia subito la macchina, scende, osserva.
Sulla lapide poche parole e qualche data che indica un periodo molto breve: 8 maggio, 4 luglio 1944. Sono solo due mesi, anzi persino qualche giorno meno. Cosa è successo in quel periodo?
Se si va a cercare nei giornali dell’epoca, si può leggere:

Transdanubio, giovedì, 20 aprile 1944

In prigione per non aver portato la stella ebrea

All’udienza del 19 aprile il tribunale ha condannato a due mesi di carcere senz’appello, un minorenne, che stava viaggiando verso Sásd senza portare la stella gialla.
In futuro i trasgressori del decreto 1240 del 1944 saranno tutti sottoposti a processo d’internamento da parte della questura di Pécs.

Transdanubio, sabato, 29 aprile 1944

Titolo: Nuove ordinanze per l’eliminazione degli ebrei dalla vita economica


Transdanubio, sabato, 6 maggio 1944
Definito con precisione il ghetto di Pécs
Lunedì s’incomincia a trasferire gli ebrei costretti a portare la stella gialla
3400 ebrei entrano nel ghetto
Gli ebrei, costretti a portare la stella gialla, cominciano lunedì ad andare ad abitare insieme per liberare subito la maggior parte possibile degli appartamenti per i cristiani che vi si trasferiscono.

Transdanubio, domenica, 21 maggio 1944

Sabato alle 18 il ghetto di Pécs è stato chiuso

A partire da quel momento quelli della stella gialla possono uscire dal ghetto solo avendo lasciapassare e solo per lavorare. Intorno al ghetto poliziotti armati, da diversi giorni adempiono servizio di controllo.
Il decreto sul divieto agli ebrei che portano la stella, di frequentare i pubblici esercizi e i locali di divertimento, entra in vigore il 25 maggio.

Transdanubio, domenica, 11 giugno 1944
Finora sono arrivate 1200 domande per gli appartamenti liberati dagli ebrei e i tanti richiedenti aspettano, chiedono, supplicano ignorando la stanchezza e sopportando la ressa finché non vengono ascoltati e i loro affari non vengono sbrigati.
Alcuni vogliono un appartamento più comodo, più bello e dicono che sarebbe da stupidi non cogliere l’occasione.
Bisogna assicurare l’ordine. Si deve considerare la leggittimità e l’urgenza della domanda. E anche se l’ufficio degli alloggi procede nel modo più umanitario, è necessario moderare le domande.

Transdanubio, giovedì, 6 luglio 1944
Il ghetto ormai è vuoto, le famiglie cristiane non mostrano molto il desiderio di ritornarci.

Transdanubio, mercoledì, il 12 luglio 1944

La questione ebraica è stata l’operazione più grande sul corpo dell’Ungheria

Il giornale cita le parole di Béla Imrédy: La soluzione della questione ebraica è stata l’intervento chirurgico più grande effettuato da decine di anni sul corpo dell’Ungheria. Una tale operazione non può accadere all’asciutto, a volte scorre anche del sangue. È del tutto naturale che la parola sangue non si deve prendere alla lettera. Possiamo dire anche qui, con certezza, che nessun ungherese ha le mani insudiciate dal sangue di nessun’ebreo ucciso.
E’ inconcepibile... come è possibile scrivere queste frasi… questo misto di tragico, di grottesco, di burocratico… come è possibile narcotizzare la propria coscienza fino a questo punto…

Avevamo lasciato il professore davanti all’ingresso del ghetto. Ora entra nel grande portone che si trova a sinistra della lapide e si trova in un grande spazio chiuso. Sembra quasi un ospedale, o forse una scuola, una caserma. Ci sono solo due uscite praticamente agli estremi opposti dell'edificio. Adesso è abitato. Ci sono bambini che giocano nel grande cortile interno. Il professore fa rapidi calcoli: adesso ci abiteranno 100 o 200 persone. Ma come doveva essere quando qui erano costrette 3000, forse 4000 persone? Doveva essere una condizione intollerabile. (Più tradi il professore scoprirà che in realtà quello che ha visto era solo un edificio del ghetto; il ghetto era più grande. In un saggio si legge che 3000 ebrei erano stati insediati al posto di 600 cristiani. Comunque questo cambia di poco le cose.)
Il professore attraversa tutto il cortile dell'edificio. Poi gira tutto intorno all'edificio.
Il primo ragionamento, inevitabile, è che se qui c'era una comunità così grande, come testimoniato anche dalla sinagoga così grande, allora qui ci doveva essere anche il cimitero ebraico.
Sicuramente il cimitero ebraico era distinto dal cimitero cattolico. Il professore ha visitato il cimitero cattolico in occasione di una festa nazionale, con i suoi studenti, e non ha visto un'area riservata agli ebrei. Quindi a Pécs ci deve essere il cimitero ebraico.
Appena arrivato a casa il professore apre la piantina di Pécs. Non ci vuole molto a trovare il cimitero ebraico. Sulla piantina c'è una zona verde riempita di stelle di Davide.
È una zona un po' periferica, e una persona non ci passa se non vuole andare proprio lì.
Il professore con la cartina va subito a verificare se il cimitero è ancora in funzione.
Naturalmente quando arriva il cimitero è chiuso. Si può guardare solo attraverso un cancelletto.
Il professore fa un giro tutto intorno. Vede un uomo che sta lavorando all'interno. Prova a tornare all'ingresso, ma il cimitero è e rimane chiuso.
Si allontana e quando ha fatto una decina di metri si sente chiamare ad alta voce. Il caso, ancora una volta, lo aiuta. Ci sono due signore con un vaso di fiori che parlano in ungherese e chiamano verso l'interno. Arriva l'uomo che stava lavorando, apre; le signore chiamano di nuovo il professore e lo invitano ad entrare.
All'interno c'è un certo abbandono, ma non disordine. E in questo il cimitero di Pécs, non è diverso da altri cimiteri ebraici. Il professore ha la sensazione che gli ebrei non abbiano una particolare attenzione per i cimiteri. Rispettanno i morti, ma non ne hanno il culto. Anche in questo si mantengono fedeli al comandamento “Non avrai altro Dio all'infuori di Me”.
Le tombe, le lapidi,… parlano. Alcune riportano elenchi di cinque, sei, anche 10 o 12 nomi di persone, tutte scritte con lo stesso carattere, tutte con il fondo la stessa data e lo stesso luogo: Auschwitz 1944. Ecco: il professore è di nuovo davanti all'elenco dei nomi che ha trovato nel libro “1944 Pécs”… il libro delle lacrime.
I nomi. I morti. I nomi di questi morti che sono morti e non ritorneranno più.
I nomi di questi morti, che sono morti e che non se ne andranno mai.
Non se ne andranno mai perché non troveranno mai pace.
C'è una leggenda ebraica: parla dei morti che hanno subito un torto, una ingiustizia e non si rassegnano. Li chiamano Dybbuk, e li temono. Li temono perché tornano continuamente a disturbare la tranquillità dei vivi. Tornano continuamente a chiedere il loro risarcimento. Tornano continuamente a chiedere giustizia.
Il professore cammina lentamente, sosta davanti a ogni tomba, legge i nomi, cerca di immaginare i visi. A volte davanti ai nomi c'è anche la data di nascita. Tantissimi sono i bambini. Il professore immagina i loro visi spaventati. Spaventati come quello del bambino del ghetto di Varsavia che esce con le mani e le braccia alzate sotto la minaccia del fucile del miserabile soldato nazista.
Ci sono nomi di giovani. Giovani come Anna Frank o come Etty Hillesum.
Ci sono nomi di vecchi inermi, impotenti, innocenti. Innocenti. Deportati solo perché nati in una famiglia di religione ebraica, o di cultura ebraica, o di origine ebraica. Deportati solo per essere destinati alle camere a gas.
Il professore sta uscendo dal cimitero. Percorre il vialetto di ghiaia e proprio poco prima dell'uscita trova uno strano monumento. Una piccolissima lapide per terra, grande poco più di un foglio di carta. La lapide è piena di piccole pietre che coprono la scritta. Quelle piccole pietre che sono il segno di una preghiera, di un desiderio, di una richiesta. Il professore sposta un poco le pietre per poter leggere.
Il professore non conosce l’ungherese ma riesce ugualmente a capire, ed è preso dalla pietà. Si, pietà, perché lì sotto sono conservati alcuni pezzi di sapone ricavati dalle ceneri dei deportati: tutto quello che si è riusciti a riportare a casa delle migliaia di persone assassinate nei campi di sterminio.

Capitolo settimo: appunti di storia, molto interessanti.

A questo punto il professore vuole conoscere la storia. La storia.
Comincia a parlare con i colleghi ungheresi che la insegnano, la storia, con l'altro collega italiano che insegna nel liceo, insieme cominciano a raccogliere informazioni.
Eccone alcune

luglio  1920                  La prima guerra mondiale è finita da meno di due anni, Il governo Teleki presenta la legge 1920:XXV conosciuta meglio come “numerus clausus”, la prima legge antisemita in Europa dopo la prima guerra mondiale.
                                    Essa stabilisce la percentuale di accesso alle scuole di istruzione superiore su base etnica e razziale, limitando quindi l’accesso degli ebrei.

novembre 1924            Gyula Gömbös forma il Partito della Difesa Razziale.
Il tollerante primo ministro István Bethlen, considerava gli antisemiti come “persone che odiano gli ebrei più del necessario”. Come se odiare gli ebrei fosse una cosa buona e giusta, ma rimandendo nei limiti del buongusto.

1932 – 1936                I filo tedeschi vanno al potere e sollecitano come prioritaria una legge antisemita.

29 maggio1938            La prima legge cosiddetta antiebraica (1938:XV) è presentata al parlamento sotto il governo di Kálmán Darányi e viene accettata dal governo di Imrédy Béla.

marzo 1939                 I tedeschi incorporano la Boemia e la Moravia. L’Ungheria occupa con il consenso di Hitler la Rutenia.

maggio 1939                I tedeschi ottengono la liberazione di Ferenc Szálasi, il quale organizza il Partito delle Croci Frecciate.

5  maggio 1939            La seconda legge antiebraica (1939:IV) viene presentata e accettata al parlamento. Secondo questa legge è da considerare ebreo chiunque abbia un genitore o due nonni ebrei. Essa stabilisce la percentuale massima di ebrei al 6% nelle professioni liberali e al 12% nell’industria e nel commercio.

novembre 1940            L’Ungheria si allea con Germania, Italia e Giappone.

27 giugno 1941            L’Ungheria entra in guerra contro l’Unione Sovietica.

12 luglio 1941              Il governo di László Bárdossy espelle gli ebrei di nazionalità non ungherese.

27-29 agosto 1941      A Kamenets-Podolsk si massacrano 23.600 ebrei di cui circa 16.000-18.000 erano stati consegnati dal governo ungherese.

agosto 1941                 La terza legge antiebraica (1941:XV) vieta il matrimonio e ogni rapporto sessuale tra cristiani ed ebrei considerandoli – seguendo il modello tedesco – oltraggio alla razza.
Il numero degli ebrei da eliminare dal territorio dell’Ungheria ingrandita è circa  725.000.

aprile 1942                  Il primo ministro è Miklós Kállay. La Seconda Armata ungherese in Ucraina contava circa 30.000 ebrei inquadrati nei "Battaglioni di lavoro”. Questi ebrei dovevano portare una fascia gialla al braccio e dovevano fare servizio militare senz’armi; essi erano utilizzati nei compiti più pericolosi e estenuanti: tra l’altro erano costretti a sminare a mani nude i campi minati.

aprile 1943                  Miklós Horthy incontra Adolf Hitler a Klessheim; Hitler richiede le dimissioni del primo ministro Kállay e la soluzione radicale della questione ebraica.

19 marzo 1944            I tedeschi occupano l’Ungheria.

marzo 1944                 Viene formato il governo di Döme Sztójay. I filotedeschi occupano i posti chiave. László Baky ministro della Gendarmeria e Polizia dichiara: “Considero il mio lavoro strettamente legato alla finale e totale liquidazione della Sinistra e dei traditori ebrei in questo paese.”

dal marzo 1944            Vengono emanati decine di decreti antiebraici; uno di questi, obbliga gli ebrei a portare la stella gialla. Il gruppo di Eichmann arriva in Ungheria.

7  aprile 1944              László Baky riunisce un consiglio sulla formazione dei  ghetti.

28 aprile 1944             Parte il primo trasporto per Auschwitz (dal campo d’internamento di Kistarcsa).

4 e 6 luglio 1944          Partono per Auschwitz i treni che portano ebrei raccolti nei ghetti di Pécs, di Bonyhád e di Mohács.

6 luglio 1944                Il primo ministro Miklós Horthy sospende la deportazione.

15 ottobre 1944           Il tentativo di Horthy di ritirarsi dalla guerra fallisce, le Croci Frecciate vanno al potere, Ferenc Szálasi diventa primo ministro.

ottobre 1944                Szálasi accorda piena impunità alle Croci Frecciate. Il ministro degli interni Gábor Vajna comunica “la soluzione finale del problema degli ebrei” è compito dello stato, gli ebrei devono essere considerati “razzialmente”; e dichiara non valido qualsiasi salvacondotto anche di governi amici.

15 novembre 1944       A Budapest si forma il ghetto “internazionale”.

2 dicembre 1944          Finisce il concentramento degli ebrei di Budapest nel grande ghetto di Pest. Non c’è tempo nemmeno per la loro deportazione ad Auschwitz.
Gli ebrei vengono convocati sulle rive del Danubio e qui vengono eseguite, da parte delle Croci Frecciate, migliaia di fucilazioni.
Non sono risparmiati né donne, né bambini né vecchi. Nessuna sepoltura per i corpi delle vittime, tutte cadute direttamente nel fiume.

Il totale delle persone uccise durante la Shoah in Ungheria è maggiore di 550.000
Gli ebrei deportati ad Auschwitz furono circa 437.000.
I martiri accertati di Pécs furono  3.022.

Capitolo ottavo: la testimonianza


Nel suo percorso il professore arriva ora al "Museo di storia della città".
Qui vede e fotografa volantini antisemiti, la stella di Davide che gli ebrei dovevano cucire sui loro vestiti, un braccialetto con il numero di identificazione che sostituiva il tatuaggio quando i deportati erano talmente tanti che non c'era più nemmeno il tempo per marchiarli tutti.
Ma qui il professore incontra anche un'impiegata del museo, e da lei scopre che a Pécs vive ancora qualche superstite, e tra questi c'è una signora anziana disposta a dare testimonianza. Non è difficile organizzare l'incontro: ci si trova una mattina presso il centro ebraico, vicino alla sinagoga. L'impiegata del museo, il professore, una collega del professore, quattro studenti.
Come piccolo segno di ringraziamento, il professore porta alla signora una pianta in vaso. Non dei fiori recisi, ma una pianta viva; viva come è viva la testimonianza che la signora sta per rendere.
L’anziana signora, ha uno sguardo sereno; parla con calma e rigira tra le mani un piccolo sacchetto di plastica.
Appena inizia a parlare apre il sacchetto e ne toglie una stella di Davide. La sua stella di Davide.
La passa tra le mani con delicatezza, la tocca con mani esperte come di una sarta; sembra quasi che stia valutando la consistenza della stoffa. E intanto parla con pacatezza, senza tradire emozioni, senza enfasi e senza retorica.
Poco dopo estrae un piccolo involto. Srotola delicatamente il contenuto.
Appare un oggetto grigio verde, opaco, sembra unto. Sapone.
La signora lo rigira tra le mani con delicatezza.
La signora ricorda: "Questo è il sapone che ci davano per lavarci. Un sapone che non faceva schiuma. Con chi mi lavavo? Sarà mia nonna? Sarà mia madre? Sarà mio fratello?".
La signora ricorda il periodo della reclusione nel ghetto. Quando tutta una famiglia era costretta a vivere in una stanza. Nella sua famiglia erano solo sei, e si consideravano fortunati. Avevano un monolocale tutto per loro. C'era la possibilità di cucinare, ma c'era molto poco da cucinare. Non potevano neanche uscire e nessuno veniva ad aiutarli. Alcuni anziani morivano di stenti, e qualcuno per la disperazione aveva preferito uccidersi.
La signora ricorda il momento dell'arrivo al campo di concentramento dopo tre giorni di viaggio in condizioni disumane, con la speranza di arrivare a lavorare in un posto che fosse meglio del ghetto. 80 persone stipate in un vagone, senza niente da mangiare, senza niente da bere, senza un posto riservato dove poter fare i propri bisogni, costretti, uomini e donne, a servirsi tutti di un unico secchio.
La signora ricorda più di tutto la vergogna, l'umiliazione. Per sempre.
L'unico ricordo di gioia, in quel momento, è legato a un barattolo di marmellata, fatta dalla nonna, che la nonna stessa era riuscita a salvare quasi per miracolo. Quella marmellata fu l’unico nutrimento per lei e per la sua famiglia durante tutto il viaggio.
La signora ricorda ancora la puzza tremenda che si sentiva appena si scendeva dal treno, la separazione che subito divideva gli uomini dalle donne, e poi ancora un'altra separazione... Lei che doveva seguire una fila, sua nonna, il suo fratellino e sua madre che lo teneva per mano, che si allontanavano lungo un'altra fila. Non li avrebbe visti mai più.
La signora ricorda la prima violenza: essere spogliata di tutti i vestiti, essere rasata sul capo e su tutto il resto del corpo. La violenza di vedere annientata la propria identità. La violenza di essere trattata “come una pecora muta portata al macello”, proprio così dice la signora “una pecora muta portata al macello”. La violenza di essere ridotta solo a un numero, un numero scritto sulla casacca. La signora ricorda: Un numero; 36.136.
E poi la paura. La paura nel riconoscere sotto i crani rasati i volti sconvolti delle altre deportate, vestite come lei di casacche a righe senza forma.  
La signora ricorda altre violenze: la violenza di non ricevere acqua da bere; la violenza di essere costretta a bere l'acqua piovana raccolta spremendo una camicia; la violenza di essere costretta a mangiare cibi disgustosi e ripugnanti dallo stesso piatto insieme ad altre quattro o cinque persone. La violenza di dover sopportare una puzza tremenda. La puzza degli altri deportati. La puzza degli escrementi. La puzza proveniente dai camini. La violenza di dover convivere fianco a fianco, a stretto contatto con persone infette. La violenza di non avere un posto dove potersi stendere per dormire. La violenza di dover assistere a uno spettacolo intollerabile: decine di cadaveri di uomini ridotti quasi a scheletri, buttati, come cose, come spazzatura, a decine, sui carri.
Eppure, fortissima, sempre la voglia di sopravvivere.
La signora ricorda. Ricorda le marce estenuanti senza una meta precisa, per giorni e giorni, per settimane, camminando sulla terra fredda, nel fango, senza scarpe.
Deve essere stato in momenti simili, vissuti anche da lui che Miklós Radnóti, il poeta, ha scritto: Marcia forzata.
…E’ pazzo chi, stramazzato si rialza e ancora s’incammina…
E dopo le marce estenuanti la signora ricorda la sorpresa. L'incubo finisce. Un giorno i tedeschi non ci sono più. Ora bisogna pensare, pensare a come ricominciare a vivere.
L’anziana signora, ha uno sguardo sereno; parla con calma e continua a rigirare lentamente tra le mani il piccolo sacchetto di plastica. "Questo è il sapone che ci davano per lavarci. Un sapone che non faceva schiuma. Con chi mi lavavo? Sarà mia nonna? Sarà mia madre? Sarà mio fratello?".
La signora ha offerto i suoi ricordi.
Anche se l'esperienza dei campi di sterminio è un'esperienza inconcepibile.
Un'esperienza che costretti, si può vivere. Un’esperienza cui si può sopravvivere.
Un’esperienza che a fatica si può raccontare, ma che se non la si è vissuta, non la si può capire a fondo. Il professore, la collega, l'impiegata del museo, gli studenti hanno ricevuto il “dono”.
Il dono straordinario della memoria.

Capitolo nono: forse la soluzione può essere un viaggio


Il professore parla della Shoah con tutte le persone con cui riesce ad avere un contatto.
Alcune frasi lo feriscono. "Non so niente degli ebrei, e non voglio saperne niente. Sono una cultura con cui non ho niente in comune e non voglio avere niente in comune".
"Gli ebrei mi sono del tutto estranei, e voglio che lo restino".
"Questa sera ho imparato una parola nuova che non conoscevo: shoah".
"Più di 3000 ebrei della nostra città deportati e uccisi? … ma non esageriamo!".
Escludere, negare, minimizzare. Ancora. Escludere, negare, minimizzare. Sempre. Perché?
Perché ancora questo antisemitismo sotterraneo... antisemitismo in realtà senza oggetto, visto che di ebrei, in Ungheria, a Pécs quasi non ne esistono più.
Forse. Forse l'idea di vedere di persona... forse passare su quei luoghi...
forse il contatto con quello che è successo, con la realtà...
questa realtà che è così lontana da sembrare impossibile,
ma che è anche così vicina da avere bisogno di negarla...
forse... forse nel silenzio... forse qualcosa si potrebbe capire.
Ecco come nasce l'idea del viaggio: un pullman di professori e studenti da Pécs ad Auschwitz con fermata a Cracovia.
Il preside della scuola non ha difficoltà a concedere il permesso, né a far sostenere alla scuola una parte delle spese per consentire a tutti coloro che lo desiderano di partecipare.
Qualche difficoltà si trova invece nel riempire il pullman. Qualche studente non è interessato. Qualche altro deve risparmiare per fare la patente. Qualche altro ha i genitori che “non capiscono il senso del viaggio”. Comunque raccogliendo gli studenti da cinque classi diverse si riesce a riempire il pullman e a partire: poco più di 30 studenti e una quindicina di professori.
Il viaggio è molto lungo. Ad ogni frontiera si perde un quarto d'ora più del dovuto per la presenza di uno studente di etnia Rom con passaporto rumeno. "Un extracomunitario". Le guardie di frontiera prendono i suoi documenti. Li esaminano. Trascrivono i suoi dati.
Nell'attesa lo studente trova l'ironia per una frase amaramente spiritosa. "Professore, pensi che sessant'anni fa i tedeschi mi avrebbero portato gratis e senza neanche i documenti".
E qui bisogna aprire una piccola parentesi. Stiamo ricordando lo sterminio di più di sei milioni di ebrei, ma, ma non dobbiamo dimenticare che gli stermini hanno coinvolto omosessuali, handicappati, oppositori politici e rom.
Ci sono le prove di almeno 500.000 rom trucidati nei campi.
Il loro marchio era un triangolo nero con il vertice capovolto, a volte affiancato dalla lettera z, (lettera che stava per zigeuner: "zingari"). Per i nazisti anche i Rom rappresentavano una "razza" pericolosa, una minaccia alla suprema "razza" ariana. Il rom era nomade, ladro, truffatore, assassino per cause genetiche, cioè generatrici di un comportamento immodificabile.
Ad  Auschwitz, per un certo periodo, ci fu una sezione appositamente riservata alle famiglie zingare, sebbene la presenza dei rom sia documentata anche prima della costruzione di un apposito campo per loro. Lo Zigeunerlager entrò in funzione alla fine del febbraio 1943 e cessò di esistere ai primi di agosto del 1944, quando tutti coloro che, fino a quel momento, vi erano sopravvissuti, vennero condotti nelle camere a gas. Solo negli anni '80 la Germania riconobbe ai rom la dignità di vittime: riconobbe, cioè che essi avevano subito una persecuzione razziale. Chiudiamo qui la breve parentesi sulla persecuzione del popolo Rom, e proseguiamo col racconto del viaggio.
La sera il gruppo arriva a Cracovia e al mattino si viaggia verso Auschwitz. È una bella giornata di sole ma fa freddo; c'è ancora neve e il termometro indica alcuni gradi sotto lo zero.
La strada incrocia varie volte i binari della ferrovia. Quando si attraversano i paesi si vedono piccole stazioni. Il professore prova una stretta angosciosa al petto; in quei punti, in quelle stazioni, saranno passati, avranno sostato i vagoni carichi di esseri umani…
il pullman si perde... l'autista non è mai stato ad Auschwitz, non sa la strada, mancano le indicazioni... non c'è un segnale, non c'è un cartello che diriga verso il luogo. Anche qui rimozione, oblio, negazione. Il silenzio sembra esprimere il senso di colpa… o, forse… ancora ostilità?
Finalmente con quasi un'ora di ritardo il pullman arriva al parcheggio. Sono circa le 11 del mattino, c'è un freddo gelido e tagliente, ci saranno -15 gradi, la terra è coperta di neve bianchissima, la luce abbagliante. E questo già contrasta con l'immagine che abbiamo di Auschwitz, immagine costruita da quasi tutti i film sulla Shoah. Lì la terra è sempre un grumo di fango e il cielo è sempre di piombo. Inizia la visita. Alcuni professori e studenti entrano subito nella sala dove si proietta un documentario. Va bene così.  Il professore di documentari ne ha già visti tanti, quello che cerca è una sensazione, un suono, una voce… qualcosa di reale, di autentico… che faccia sentire cosa è stato Auschwitz e quindi prosegue con altri studenti. I freddo è tagliente. Il professore quasi si vergogna di provare freddo. I piedi sono ben calzati negli scarponi, il giaccone imbottito protegge dal vento, la testa è coperta dal cappello. Chi è stato deportato qui per prima cosa veniva spogliato dei suoi vestiti e gli veniva data una casacca miserabile, a strisce, del tutto inutile per proteggere dal freddo. Nel silenzio, una campana suona ripetutamente. Qui, dove gli ordini venivano urlati con violenza, dove gli ordini si mescolavano all’abbaiare rabbioso dei cani… ora una campana suona ripetutamente.
Inizia la visita delle baracche. Nella prima, una enorme foto mostra l'arrivo di un carico di ebrei ungheresi. I volti dei deportati sono attoniti. Si fissano negli occhi e nei cuori dei visitatori così come si sono fissati sulla lastra della fotografia. Alcuni studenti non riescono a sopportare la vista delle fotografie dei bambini sottoposti alle turpi sevizie di Mengele e scappano guardando in terra.
Gli studenti guardano attoniti, mentre osservano i barattoli che contenevano il gas che ha ucciso milioni di persone, mentre osservano i capelli delle donne, la montagna di scarpe, la quantità enorme di occhiali che appartenevano alle persone sono state uccise qui.
Quando arrivano davanti alla vetrina che raccoglie migliaia di valigie, gli sguardi si fissano.
Gli studenti cercano tra i nomi, come se ci fosse da trovare qualche parente o qualche amico:
Maria Kafka, “Professore sarà stata una parente dello scrittore?”,
Julius Levi, “Professore guardi, ‘Levi’, come lo scrittore italiano di cui ci ha parlato a scuola”.
Il percorso procede.  Si visitano uffici, celle, i luoghi indecenti dedicati alle esigenze corporali, il luogo delle torture, il luogo delle esecuzioni.
Qui vicino in una sala ci sono alcuni disegni che rappresentano scene nel campo. Uno è agghiacciante. Un condannato a morte è trascinato al luogo dell'esecuzione. Esce da una cella di una prigione. La porta della cella è ancora aperta. Attraverso le sbarre si intravedono tre donne nude, piangenti. Il disegno non lascia spazio a equivoci. Cosa gli avranno detto i nazisti: “Su svelto, prima di crepare goditi l'ultima scopata con queste puttane”. Tre donne. Chi avrà scelto? Come sarà stata la selezione? “Tu andrai al lavoro, tu ai forni, e tu sarai la puttana”.
Sono già passate circa due ore. Il pullman attende per andare a Birkenau. Il professore pensava che i due luoghi fossero attaccati, che ci fosse solo un trattino a separarli, come quello che si usa quando si scrive Auschwitz-Birkenau. E invece la strada è piuttosto lunga; gli spazi enormi fanno intuire (ma non si riesce veramente a capire) quanto potesse essere enorme il massacro che è stato compiuto qui. Non si riesce a capire. Birkenau mette l'ansia addosso. C'è solo uno spazio enorme, sembra quasi infinito. Fili elettrici che si vede dove cominciano ma non si vede dove finiscono.
Il vento è forte, freddo e ghiacciato. Si cammina per un bel po' lungo i binari del treno. Alla fine dei binari ci sono dei ruderi. Un cartello permette di capire: da quella scala si scendeva allo spogliatoio; subito dopo c'era il locale per le docce; da lì si entrava nella camera a gas e infine sopra c'erano i forni. Se i tedeschi avessero usato la loro capacità organizzativa e le loro doti di ingegneri per un qualche fine positivo, veramente, sarebbero diventati i signori del mondo.
Lì vicino c'è il monumento... ci sono le lapidi che ricordano quello che qui è successo. Una persona in ginocchio piange proprio davanti alla lapide in italiano. Il professore si guarda intorno. Il cielo è bellissimo, pulito, luminoso. La luce brilla sulla neve. Il vento freddo scuote lentamente le betulle.
Come ha potuto succedere che in un posto così, con una natura così bella si sia potuto realizzare un progetto così folle? Non ci sono scuse di nessun genere. Come è stato possibile che il popolo che ha dato all'umanità Kant, Hegel, Beethoven, Heisenberg, Gödel si sia lasciato trascinare nella più grande e tragica pagliacciata della storia dell'umanità.
Sì, queste due parole, tragica e pagliacciata, sono giuste.
“Tragica” perché della più grande tragedia della storia dell'umanità si è trattato.
Ma anche “pagliacciata” è giusta. Come definire diversamente i progetti millenari di Adolf Hitler?
Come definire diversamente le adunate oceaniche di presunti superuomini che si esibiscono nel grottesco passo dell'oca? Come non provare pena davanti alle scene filmate nei tribunali del dopoguerra in cui tutti questi superuomini piagnucolavano che loro, non avevano colpa, che loro avevano solo ubbidito agli ordini superiori.
No. In questo momento il professore si guarda intorno. Non si riesce a immaginare le urla, l'abbaiare dei cani, l'ululato delle sirene, la puzza, la fame, il freddo che stronca i deportati, la malattia, i parassiti, la paura. La paura continua. L'umiliazione continua. Il rischio continuo che ogni minuto potesse essere l'ultimo della propria vita. Che la propria vita potesse finire per un pretesto qualsiasi. Anzi, anche senza un pretesto. Per caso. Solo per caso. Sempre per caso.
Non si può provare nulla di quello che è stato provato qui, non si può neanche capire. Il professore sente che né la sua intelligenza, né quella di ogni altro essere umano, può capire a fondo quello che qui è successo. E’ troppo. Chi non ha vissuto l’esperienza di Auschwitz sulla propria pelle, non può sentire Auschwitz. Sì, quello che è successo, non si può capire, ma… bisogna sapere.
Bisogna sapere e bisogna far sapere.
Chiunque è obbligato a mantenere viva questa memoria. Questo è il dovere di ognuno.
Questo è soprattutto il dovere di ogni educatore.
E quindi bisogna dire. Bisogna dire al maggior numero di persone, di giovani soprattutto. Ma come?
Ecco, è durante il viaggio di ritorno che il professore concepisce l’idea di una mostra.

Capitolo decimo: la piccola-grande mostra

Ebbene si. E’ stato proprio durante il viaggio di ritorno da Auschwitz che il professore ha cominciato a pensare di raccogliere tutte le idee, le informazioni, le immagini, i testi incontrati e letti in un'unica grande mostra. Una mostra da fare nella scuola, una mostra che avrebbe anche potuto essere allestita presso altre scuole, presso centri culturali...
E così il professore e l'altro suo collega italiano cominciano a ordinare i materiali esaminati fino a quel momento. E naturalmente continuano a raccogliere anche altri materiali, altre informazioni, altre immagini. Fanno tradurre in ungherese dalle colleghe del liceo tutti i testi selezionati.
A poco a poco la mostra prende forma. Una mostra povera. Una trentina di pannelli di cartone; qualche oggetto prestato dal museo; fotografie, immagini in bianco e nero, qualche testo di spiegazione, qualche poesia. Una mostra povera nei materiali, ma nessuno ci ha fatto caso.
Il titolo: molto semplicemente, “Pécs 1944”.
Il testo di introduzione alla mostra: la frase di Primo Levi:
"Ogni uomo civile è tenuto a sapere che Auschwitz è esistito,
e che cosa vi è stato perpetrato: se comprendere è impossibile conoscere è necessario”.
La mostra è stata inaugurata nel maggio 2005, alla presenza dei rappresentanti della comunità ebraica, e del rabbino capo della piccola comunità di Pécs che ha richiamato i giovani della scuola alla responsabilità della memoria.
Il professore non dimenticherà mai gli sguardi dei giovani, in quella mattina.
Sguardi attenti e seri, come non sono mai durante le lezioni di matematica o di fisica.
Sguardi seri di giovani, anzi di persone ora adulte, che leggono.
Leggono una frase tratta da quel libro disperatamente poetico e rivelatore, che è
“Yossl Rakover si rivolge a Dio”.
“Sono fiero del mio essere ebreo. Perché essere ebreo è un'arte. Perché essere ebreo è difficile. Non è un'arte essere inglese, americano o francese. È forse più facile e più comodo essere uno di loro, ma certo non è più onorevole. Sì, è un onore essere ebreo! Mi vergognerei di appartenere ai popoli che hanno generato e cresciuto gli scellerati responsabili dei crimini compiuti contro di noi."
Sguardi seri che guardano la foto di una bambina.
Una bambina bellissima, coi capelli scuri raccolti in due treccine, lo sguardo profondo, e sul petto, sul cuore, la stella di Davide con all'interno la scritta “Jude”.
Una piccola creatura innocente. Una piccola creatura destinata al massacro.
Una piccola creatura destinata al massacro perché spaventava a morte i grandi uomini,
i grandi super-uomini della croce uncinata.
Sguardi seri che guardano altre immagini. Uomini costretti al lavoro, uomini denutriti, uomini morti. Uomini e donne sopravvissuti che mangiano accanto ai cadaveri.
Sguardi seri che leggono, per la prima volta, la famosa poesia:
Voi che vivete sicuri
nelle vostre case
Voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e i visi amici:
considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce la pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa e andando per via
coricandovi e alzandovi:
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa
la malattia vi impedisca
i vostri figli torcano il loro viso da voi.
Sguardi seri, pieni di stupore, mentre guardano i pannelli con immagini che ritraggono zingari: zingari giovani, zingari vecchi, zingari bambini... ritratti come fossero delinquenti; sguardi increduli, quando leggono le poche parole che raccontano il calvario di questo popolo orgoglioso.
Sguardi pensosi, sguardi pesanti, mentre leggono ancora una poesia: una poesia di Edith Bruck, la poetessa ungherese, sopravvissuta, che ora vive in Italia.
Per noi sopravvissuti
è un miracolo ogni giorno
se amiamo, noi amiamo duro
come se la persona amata
potesse scomparire da un momento all'altro
e noi pure.
Per noi sopravvissuti
il cielo ora è molto bello ora è molto brutto
le mezze misure
le sfumature
sono proibite.
Con noi sopravvissuti
bisogna andare cauti
perché un semplice sguardo storto
quello quotidiano
va ad aggiungersi ad altri tremendi
e ogni sofferenza
fa parte di una unica
che pulsa col nostro sangue.
Noi non siamo gente normale
noi siamo sopravvissuti
per gli altri.
Sguardi seri, acuti, intelligenti, mentre leggono una riflessione brevissima ma acutissima sui due poli entro cui si gioca la vita di ogni essere umano: il destino, la libertà.
Una frase di Imre Kertész , il premio Nobel, il sopravvissuto… una frase tratta da “Essere senza destino”.
“Se esiste un destino, allora la libertà non è possibile,se però la libertà esiste, allora non esiste un destino,il che significa che noi stessi siamo il destino."
Il destino o gli dei, si chiedevano i greci. Kertész dà la sua risposta.
Sguardi distesi e pieni di speranza davanti al pannello dedicato ai “giusti”  tra i quali Giorgio Perlasca… quel  commerciante italiano che nell’inverno del 1944-45, a Budapest, riuscì a ingannare i nazisti tedeschi e fasciti ungheresi facendosi credere un diplomatico spagnolo, e così  salvò circa 4000 ebrei. Sorridono e annuiscono quando leggono la famosa dichiarazione: “L’ho fatto … Lei cosa avrebbe fatto al mio posto?  In fondo sono stato solo un magnifico impostore”.
Ma Perlasca non fu il solo. Migliaia di ebrei furono salvati dal re di Svezia, tramite il suo ambasciatore a Budapest, dal Nunzio apostolico Angelo Rotta, da Raul Wallenberg che subito dopo la guerra scomparve, forse trucidato da chi aveva scoperto e non gradito la sua attività a favore degli ebrei.
Sguardi per nulla divertiti, anzi imbarazzati, davanti alla serie di caricature, di vignette satiriche, di volantini antisemiti conservati al Museo di storia della città di Pécs. Caricature e disegni con il solito repertorio di luoghi comuni e di volgarità sugli ebrei: nasi adunchi, l'ebreo avido che toglie tutte le risorse al popolo che lo ospita, l'ebreo sporco...
Sguardi quasi increduli, davanti alla piantina della loro città in cui erano evidenziate le posizioni della sinagoga, della scuola ebraica, del ghetto, del cimitero ebraico, e anche di un edificio che sorge ancora nei pressi dell'Università, e che ebbe la funzione di punto di raccolta degli ebrei della regione che stavano per essere imbarcati sui treni per Auschwitz.

Sguardi seri e silenziosi davanti alle foto di alcune lapidi del cimitero ebraico, quelle che riportano i nomi che sono scritti nel libro delle lacrime.
Sguardi seri e silenziosi davanti agli ultimi pannelli, quelli dedicati al libro delle lacrime.
3000 nomi. Si fa presto a dire 3000 nomi.
Ma vederli tutti insieme, tutte le pagine aperte lì, davanti agli occhi…
per leggerli tutti ad alta voce occorrerebbe quasi tutta la mattina… ogni nome, pochi secondi che racchiudono un viso, un sorriso, sentimenti, amore, gioie, sofferenze, intelligenza, una storia, un passato, un sapere. “E tutto questo è andato perduto…”.

Ma il professore non dimenticherà mai neanche lo sguardo smarrito, perduto lontano nel tempo, di un rappresentante della comunità ebraica, un sopravvissuto, che, dopo essersi riconosciuto, indica se stesso in una fotografia di classe. Indica, tremando schiacciato da un terribile senso di colpa, se stesso, unico sopravvissuto, in mezzo a tutti i suoi compagni di classe, vicino ai suoi professori, tutti deportati, tutti morti, come tutti gli altri studenti e tutti gli altri professori della scuola.
E si ripresenta ancora una volta la stessa domanda: perché il caso ha scelto lui? perché il caso ha scelto di salvare proprio lui!?
La storia della mostra è finita. Anche questo racconto è quasi finito.
Il bisogno di non disperdere la memoria non finirà mai. Ecco il perché di questo racconto.

Per chiudere questo incontro abbiamo preparato un regalo per voi. Il seme. Il seme della memoria. Un piccolo segno per aiutare la memoria. In questo cesto abbiamo messo delle stelle di Davide di carta, e su ogni stella abbiamo scritto un nome. Un nome che abbiamo preso dal libro delle lacrime. Il nome di uno di questi morti che non ci lasciano riposare tranquilli.
Noi vogliamo regalarveli. Vogliamo regalarvi il vostro Dybbuk.
Quello che vi chiediamo adesso è di non seppellirlo questo nome.
Quello che vi chiediamo adesso è di dargli vita, di farlo vivere. Dargli quella vita che gli è stata tolta ingiustamente. E per dargli vita bisogna dargli “memoria”.
E “UN” modo, certo non l’unico, per dargli “memoria” è quello di consentire a questo incontro di ripetersi ancora. Nelle scuole, nei centri culturali, nelle chiese, nelle sinagoghe, anche nelle case, perché no, anche davanti a poche persone, anche davanti a pochi amici, perché ogni seme, ogni seme, anche uno solo, è importante e vale. Vale come atto di riparazione.

Grazie della vostra attenzione.

Quest'opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 3.0 Unported. Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/ o spedisci una lettera a Creative Commons, 171 Second Street, Suite 300, San Francisco, California, 94105, USA.

1 commento:

  1. Pécs 1944 by fusani luigi alcide is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported License.

    RispondiElimina