martedì 20 dicembre 2011

l'ultima regia di Hoffmann Sandor

Luigi Alcide Fusani
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L’ultima regia di Hoffmann Sandor

Su uno schermo vengono proiettati alcuni ritratti di Kafka.
Una voce fuori scena:

La colonia penale si trova su un’isola.
Un esploratore straniero vi arriva, e viene invitato ad assistere alla esecuzione capitale di un condannato per insubordinazione e oltraggio al superiore.
La pena viene eseguita per mezzo della “macchina”: una invenzione del precedente comandante. L’ordinamento di tutta la colonia è opera sua.

L’ufficiale incaricato dell’esecuzione, illustra all’esploratore il funzionamento della macchina.
La macchina è formata da tre parti: la parte inferiore si chiama il letto, quella superiore il disegnatore e quella di mezzo, oscillante, l’erpice.
Sul letto viene steso il condannato, completamente nudo.
Il disegnatore è l’insieme dei macchinari che rendono possibile il funzionamento della macchina.
L’erpice è fatto di vetro per rendere possibile a tutti il controllo dell’esecuzione della condanna; l’erpice contiene gli aghi, e abbassandosi e vibrando, trafigge il corpo.
Al condannato viene inciso sul corpo il comandamento che ha violato.

Il condannato non sa nemmeno di essere stato condannato, non ha avuto modo di difendersi e non conosce la sua condanna; imparerà a conoscerla sul suo corpo.
La colpevolezza è sempre fuori discussione.
L’esecuzione dura dodici ore. Nelle prime sei ore il condannato vive quasi come prima, non sente che dolore. Soltanto verso la sesta ora l’uomo si quieta; al più ottuso si dischiude l’intelligenza e l’uomo decifra lo scritto con le sue ferite.
Quando la sentenza è stata eseguita l’ufficiale e un soldato lo sotterrano.

Ma ora, il nuovo comandante si serve di ogni pretesto per combattere le vecchie istituzioni (il suo modo di pensare è legato ai pregiudizi della cultura europea); invece l’ufficiale consuma tutte le sue forze per mantenere in vita quel che esiste.
L’ufficiale chiede aiuto all’esploratore, in difesa della macchina, dell’ordinamento e delle procedure, ma non lo ottiene.
L’ufficiale allora libera il condannato, pone se stesso sul lettino e avvia la macchina che inizia a scrivere sul suo corpo: “Sii giusto”.
L’esploratore si allontana dal luogo dell’esecuzione. Tornando al porto passa vicino ai palazzi del comando tutti molto malandati. Il vecchio comandante è sepolto qui.

“Qui riposa il vecchio comandante. I suoi seguaci, che ora devono restare anonimi, gli hanno scavato questa tomba e posto questa lapide. Esiste una profezia secondo cui il comandante dopo un certo numero di anni risorgerà e guiderà i suoi seguaci alla riconquista della colonia. Abbiate fede e attendete”.


Buongiorno,

mi presento: io sono Luigi Von Hessen, figlio del barone Karl Von Hessen, e della contessa Giovanna Visconti Ferrari... credo che non serva che io dica altro sulle mie famiglie di origine...
Mi trovo qui, su questo palco, questa sera, per adempiere alle ultime volontà di mio padre, recentemente scomparso, dopo una lunga vita segnata da un dolore insostenibile.
Dolore e vergogna... che lo hanno portato, più di cinquanta anni fa, a chiudersi in un silenzio impenetrabile... afasia totale...

Brevemente... mio padre era nato nel 1918, a Berlino, studente brillante, aveva terminato gli studi liceali con un certo anticipo sulla media.
Dopo il liceo si era iscritto al politecnico per seguire studi di ingegneria meccanica... e anche qui i risultati furono eccellenti.
Tuttavia, contemporaneamente... mentre frequentava l’università, si dedicò anche a certi suoi interessi artistici e filosofici... scriveva racconti, frequentava studi di pittori... era molto attratto soprattutto dal cinema. Fu questo interesse che lo portò ad assistere alle riprese di alcuni film, e a fare amicizia con alcuni direttori... oggi si dice “registi”.
Questo interesse, queste amicizie condizionarono tutta la sua vita.
Purtroppo per lui, il caso volle che egli si trovasse a vivere nel luogo e nel periodo storico dominato dal nazionalsocialismo.
La nostra famiglia... mio nonno, in particolare, aveva sempre nutrito un certo aristocratico e distaccato disprezzo per il nazionalsocialismo... 
Mio nonno aveva cercato in tutti i modi di non esserne coinvolto, e di tenerne fuori tutti i suoi famigliari, mio padre compreso.
È per questo che quando scoppiò la guerra, grazie a qualche conoscenza, mio padre, invece di essere inviato sul fronte orientale a presidiare i territori conquistati a est,  venne inserito, negli apparati incaricati di realizzare documentari e filmati per la propaganda del regime e delle sue “brillanti imprese”.

Dopo la guerra, mio padre venne sottoposto a un breve processo, nel quale fu riconosciuta la sua innocenza rispetto ai più gravi crimini di guerra commessi in quegli anni. Nel 47 dopo un breve fidanzamento si sposò con mia madre. Lasciò la Germania e si trasferì a vivere in una villa della nostra famiglia sul lago di Garda, vicino a Riva.
Io e mia sorella siamo nati nel 49 e nel 51... nel 54 mio padre si è ammalato e da allora, praticamente, è stato sempre assistito. Trascorreva le sue giornate, facendo lunghe, lente passeggiate, ascoltando musica, Bach, principalmente...
Sembrava... che non vedesse nessuno davanti a sé... sembrava sempre che guardasse lontano... forse nel passato...

Quando è morto, a quasi novant’anni, ho ricevuto una lettera dai notai Casali-Borromeo, i notai che da sempre si occupano del patrimonio della nostra famiglia. Mi convocavano presso il loro studio per adempiere alle ultime volontà di mio padre. A ricevermi, oltre ad Alberto, l’attuale dominus dello studio, c’era anche il padre, il vecchio Giovanni Maria... che ormai ha quasi novant’anni, e per mio padre era stato qualcosa di più di un amministratore... forse era stato il suo unico vero amico.
Quando sono arrivato, mi è venuto incontro sorridente, come sempre. Lo studio era in penombra, anche se a quell’ora del primo pomeriggio, di solito, lo studio sarebbe molto luminoso.
Non mi ha fatto sedere davanti alla scrivania... mi ha fatto accomodare accanto a lui sul grande divano... “Caro Luigi, ti abbiamo chiamato solo adesso, in quanto tuo padre aveva dato disposizioni precise affinché che tu ricevessi questo materiale solo dopo la sua morte... certo non immaginava di vivere tanto a lungo... forse temeva che tu lo giudicassi... si giudicava già da se stesso, con durezza... non si perdonava... non voleva dimenticare. Non voleva dimenticare...”.
A questo punto è intervenuto Alberto “... lasciamo stare i ricordi. Ascolta, Luigi, qui ci sono alcune cose che dobbiamo consegnarti da parte di tuo padre... sono cose che tuo padre ha depositato qui nel 1954... nel maggio del ’54, poco prima di chiudersi nel suo silenzio definitivo
Qui c’è una busta... contiene un libro... è una vecchia copia di “In der Strafkolonie”... “Nella colonia penale”, di Kafka e una lunga lettera per te... e poi ci sono due scatole... in una c’è una pellicola... nell’altra c’è un vecchio proiettore... devi vedere una cosa... ”, poi cominciò ad armeggiare “... vieni, vieni a vedere come funziona... perché poi questa macchina, te la devi portare via tu...”
Dopo pochi minuti eravamo pronti. Anche gli ultimi spiragli di luce erano stati chiusi... Dopo più di cinquanta anni dall’ultima volta che era stato proiettato stavamo per vedere... “Nella colonia penale”, film inedito di Hoffmann Sandor, liberamente ispirato al racconto di Franz Kafka, montato da Karl Von Hessen.

Hoffmann Sandor, regista ungherese, ebreo, nato a Budapest nel 1906, attivo in Germania fino agli inizi degli anni ‘30, come Lang, Ophüls e Billy Wilder.
Quando gli fu impedito di lavorare, non volle emigrare in America; la famiglia era benestante, e lui preferì vivere tra Berlino e l’Ungheria, aspettando tempi migliori e scrivendo sotto pseudonimo, o per conto di altri, commedie leggere, testi per operette e adattamenti di racconti e romanzi per il teatro.
Catturato a Budapest e deportato nel maggio del ‘44, morì nel campo di Kulmhof nel gennaio del ‘45, pochi giorni prima della liberazione del campo stesso, ucciso da un ufficiale delle SS che, in preda a una furia incontrollabile, sparava ai deportati ancora vivi urlando “... Distruggere tutto! Distruggere tutto!”.

* * *
 “Caro Luigi, non so tra quanti anni leggerai questa lettera; sicuramente sarai già un uomo. Ti scrivo prima che sia troppo tardi, perché sento che qualcosa in me non va: non riesco a dormire, la notte... mangio sempre di meno e perdo peso in continuazione; ogni tanto sono preso da stati di depressione, e dalla tentazione di porre fine ai miei giorni. Fin’ora ho resistito perché sorretto dalla volontà di portare a termine un lavoro, un impegno che forse varrà a riscattare un poco la memoria e il bilancio della mia vita. Che Dio abbia pietà di me, e anche tu, perdonami.
Ho appena finito di montare il film “Nella colonia penale”, film segreto di Hoffmann Sandor, mio maestro e amico. Se il notaio Casali-Borromeo, rispetterà le mie volontà, a questo punto tu dovresti averlo già visto. È un’opera assolutamente inedita. Il suo valore artistico e di documento sono incalcolabili. Ora, solo tu e il notaio siete a conoscenza della sua esistenza. La affido a te, perché tu la faccia conoscere.
Papà”

Negli altri fogli c’era il racconto dei suoi incontri con Hoffmann Sandor.... la storia del film... come era nato... come era stato realizzato...

“Questa storia comincia circa nel 1936; frequentavo il primo anno di ingegneria meccanica al politecnico di Berlino. L’ingegneria non era il mio unico interesse, ma la meccanica mi incuriosiva; mi interessava in particolare la meccanica razionale; studiare e analizzare il movimento in modo matematico, per poter costruire macchine dal funzionamento perfetto. Nel mio corso ci interessammo anche della costruzione di una nuova macchina da presa per le riprese a colori con il processo Agfacolor; mi affascinava il funzionamento della macchina che poteva registrare il movimento, l’azione... per poi restituirla sullo schermo.. Per il suo collaudo ci recammo in uno studio di ripresa...  stavano effettuando le riprese di una commedia mediocre; tra le persone presenti riconobbi Hoffmann Sandor, un conoscente di mio padre; un ungherese. La sua famiglia era in rapporto di affari con la nostra.
Lavorava lì come sceneggiatore. Lo salutai e lui fu felice di vedermi; mi invitò in un locale lì vicino; disse che “tanto, di questi tempi...” meno si faceva vedere in giro, meglio era, per lui... Poteva parlare liberamente perché sapeva che nella nostra famiglia nessuno nutriva simpatie per Hitler. Sia noi che lui attendevamo con impazienza che quel periodo storico trovasse al più presto la sua fine. Lui era convinto che sarebbe successo presto.
Si sfogò un po’. Mi disse che il cinema tedesco non era più quello di una volta... da quando i suoi amici, i migliori... erano scappati in America. Mi parlò di Fritz Lang, di Max Ophüls, di Billy Wilder; mi raccontò di come lavoravano, di come pensavano, di come erano. Mi raccontò i loro film, me li spiegò... Avevo diciotto anni. Come li descriveva lui era più bello che vederli al cinema. Era un racconto affascinante e coinvolgente. Restammo lì tutto il pomeriggio, bevendo birra. Lui era più grande di me, ma non si poteva dire che fosse vecchio; aveva solo trent’anni. Quel pomeriggio diventammo amici. Quel pomeriggio, lui mi contagiò con la passione per il cinema.
Ci incontrammo ancora... spesso. A volte nei teatri di posa, a volte all’aperto, dove si giravano documentari, ma sempre più spesso nei locali, nei caffé, nelle birrerie, perché ormai lo chiamavano sempre meno. Riuscì a spiegarmi molte cose, riuscì a farmi capire quasi tutto. Come si pensa un film, come lo si progetta, come lo si realizza, come si istruiscono gli attori, come si fanno le riprese, come si fa il montaggio. Tutto. Mi raccontò di come aveva cominciato, facendo l’assistente di Lang; di come aveva realizzato i suoi primi film, di come aveva ottenuto i suoi primi successi con dei drammi espressionisti come “La forza dell’odio”, “Contro il destino”, e soprattutto con “Il castello”, tratto dal romanzo di Kafka.
Un anno dopo, decise di lasciare la Germania, ma ormai, diciamo così, ero contagiato. Tornò in Ungheria, dove era convinto di essere più al sicuro. Lì, il primo ministro, era consapevole del fatto che gli ebrei erano la spina dorsale della nazione e li avrebbe protetti a oltranza; pena una tragica decadenza per l’Ungheria intera.
L’ultimo giorno prima della sua partenza, ci trovammo al solito caffè. Lui mi diede un regalo che aveva portato per me: una vecchia edizione dei racconti di Kafka; una edizione preziosa, ormai introvabile perché a quell’epoca Kafka era considerato uno scrittore degenerato; era un autore fuori legge, e i suoi libri erano stati bruciati. Ho portato sempre con me quel libro, e mi piacerebbe che al momento della mia morte,  fosse sepolto insieme a me... ma forse è meglio che lo conservi tu.
Anche dopo la sua partenza, continuai a frequentare gli studi cinematografici e incominciai anche a collaborare alla realizzazione di documentari e filmati di propaganda.
Quando nel ’39 cominciò la guerra io avevo appena terminato i miei studi al politecnico. Mio padre ottenne dal colonnello Walter Staub, collaboratore diretto, potremmo dire braccio destro, di Goebbels, che io fossi inserito al Ministero della Propaganda, nelle strutture di produzione cinematografica. Avrei lavorato nella “fabbrica del consenso”.

Fui convocato al ministero in una mattina di febbraio del 1940. Lì, ebbi il primo dei miei due incontri con il colonnello Staub. Era una mattina fredda, il cielo coperto. Arrivai puntuale, come al solito, anzi, con qualche minuto di anticipo. Venni fatto accomodare quasi subito. Lo studio era arredato con mobili scuri, pesanti. Le bandiere e gli stendardi rossi e bianchi, con le croci uncinate davano un tono di volgarità a tutto l’ambiente. L’incontro fu sgradevole. Il colonnello non poteva darmi direttamente dell’imboscato; il rispetto per mio padre e per chi mi aveva raccomandato, glielo impedivano. Sicuramente era a conoscenza del poco entusiasmo, anzi, del fastidio che caratterizzava i rapporti di mio padre con il regime, e quindi non esitò ad esaltare a lungo l’eroismo e il valoroso sacrificio dei giovani impegnati in Polonia.
Dopo essersi sfogato, disse che anche l’attività di propaganda aveva un ruolo centrale nel sostenere l’entusiasmo della popolazione civile per le imprese del Führer, del popolo e dell’esercito tedesco... tuttavia, la sua personale opinione era che i mezzi più efficaci per la propaganda erano la radio e le adunate oceaniche, dove Hitler in persona come un faro luminoso irradiava direttamente, con la sua inesauribile energia, ciascuna delle migliaia di persone adunate ad ascoltarlo e a venerarlo.
Era perplesso sulla efficacia del cinema... sosteneva che i film documentari di Leni Riefenstahl potevano, si, restituire... ma solo parzialmente, la grandezza della Germania nazionalsocialista. Era contrario anche ai documentari... i documentari dal fronte o dai campi di lavoro, avrebbero potuto mostrare una visione superficiale e quindi distorta della realtà.
Ad esempio, se in un documentario dal fronte si mostrasse un soldato ferito, o un soldato morto, la maggior parte degli spettatori vedrebbe soltanto un morto o un ferito, e probabilmente proverebbe pietà e disappunto. Ma come mostrare l’anima del soldato, il suo spirito di sacrificio, la gioia di sacrificarsi per la vittoria del popolo tedesco, in nome del trionfo finale.
Con tono di ammonimento aggiunse che chi si dedica a documentare con immagini... deve essere abile nel mostrare le cose in modo che possano giovare veramente alla causa; è difficile mostrare la realtà... la vera realtà... renderla credibile con le sole immagini... se non si è in grado di farlo meglio non mostrare nulla.
Non bisogna mai dimenticare che ciò che noi mostriamo potrebbe essere  facilmente strumentalizzato dall’avversario...
Meglio... molto meglio la radio. Per radio, è molto più facile, usando parole fortemente evocative, costruire la vera realtà... una realtà che ad alcuni potrà sembrare falsa, ma che invece può essere più autentica e più vera di quella che appare.
Terminò citando il Führer “Le grandi masse sono più facilmente vittime di una grande bugia, che di una piccola”. Poi aggiunse “Io direi che le grandi masse non sono in grado di riconoscere da sole la verità autentica; è per questo che dobbiamo lavorare, noi, in questo ministero. Non lo dimentichi mai”.
A questo punto mi accompagnò in un ufficio vicino al suo dove un impiegato mi diede le indicazioni necessarie per iniziare il mio servizio.
Per quasi quattro anni fui impegnato a documentare le imprese dell’esercito tedesco su tutti i fronti di guerra. Principalmente si trattava di materiali destinati ai cinegiornali. Naturalmente nel mio lavoro mi attenevo scrupolosamente alle direttive del colonnello Staub. Un accurato lavoro di reticenza... eseguito semplicemente mettendo la macchina da presa, nel posto giusto, al momento giusto!.
Nella primavera del ’44, mentre mi trovavo a Berlino per il montaggio di alcuni materiali ripresi al fronte, venni convocato nuovamente al ministero. Mi ricevette ancora il colonnello Staub, per la seconda e ultima volta.
Le cose si stavano mettendo male sotto tutti i punti di vista, ma quello che più infastidiva il Ministero della Propaganda era che le “chiacchiere, le denunce, la propaganda del nemico” sempre più insistenti su quello che avveniva nei campi, si stavano diffondendo in tutto il mondo e l’ostilità delle opinioni pubbliche, nei confronti del nazionalsocialismo stava crescendo sempre più. Era giunto il momento di costruire una “grande bugia”. Gli altri popoli non potevano capire l’importanza del “lavoro”... chiamiamolo così che si stava facendo nei campi.
Mi venne affidato un grande progetto. Ero stato destinato al campo di Kulmhof, in Polonia, a circa cento chilometri da Poznan; un campo che si distingueva per la particolare efficienza dovuta alle straordinarie capacità organizzative del comandante che l’aveva diretto fino a poco tempo prima, poco prima di morire di infarto, nel pieno della sua attività, a nemmeno sessant’anni. Qui avrei dovuto girare un film; non più un documentario, bensì un vero e proprio film di finzione, per mostrare a tutto il mondo la “vera” realtà dei campi.
Mi consegnarono anche un plico, non molto voluminoso, ma piuttosto preciso, su quello che avevano in mente, e che io dovevo realizzare.
Bisognava mostrare prima di tutto, che nei campi tutti gli internati erano trattati con rispetto e umanità; tutti erano ben nutriti, con cibi poveri, ma sani; gli anziani curati e rispettati; a loro si chiedeva consiglio; i bambini istruiti, educati alle scienze, alla matematica, alla letteratura, alla musica, e soprattutto educati ai sani principi della Germania nazista.
Le ragazze studiavano danza e presentavano piccoli spettacoli nel teatrino del campo.
Bisognava mostrare che gli internati, uomini e donne, erano felici di lavorare nelle industrie che sorgevano intorno al campo; industrie elettriche, meccaniche, chimiche, militari. Tutto per il successo della nostra Germania. Tutti erano volontari; tutti invitati a restare, ma tutti liberi di andarsene praticamente in qualsiasi momento.
Questo dovevamo raccontare: liberi di andarsene, perdendo molti privilegi, è vero. Liberi di andarsene quei poveretti che “non capivano”, quei poveretti che volevano uscire dal solco luminoso che conduceva diritto alla gloria, quei poveretti, quei perdenti, destinati a mancare per sempre l’appuntamento fatale col destino e a chiedere l’elemosina all’angolo di qualche strada..

Quattro giorni dopo, arrivai al campo di Kulmhof. Mi avevano messo a disposizione una macchina con l’operatore che faceva anche da autista. Insieme a noi viaggiava anche un camion, con due operai specializzati in scenografie, su cui erano stati caricati la macchina da presa, i negativi, i riflettori, materiali da carpenteria, qualche elemento di scenografia che a Berlino avevano pensato che ci sarebbe stato utile. Con me viaggiava anche lo scenografo,  un architetto molto silenzioso; probabilmente sospettoso. Continuava a scattare fotografie con la sua Voigtländer. Foto di paesaggi, ma ogni tanto nel suo obbiettivo entravano anche delle rovine lasciate dai bombardamenti nemici. Aveva anche un taccuino da disegno sul quale continuava a tracciare schizzi in bianco e nero con una matita morbida. In ogni foglio metteva anche degli appunti sul luogo, il giorno e l’ora.
Durante il viaggio cominciai a studiare la traccia del documentario di “finzione”. Ad ogni scena chiedevo il suo parere sulla fattibilità, e lui subito tracciava due o tre schizzi, che commentava, per mostrarmi i pro e i contro delle varie opzioni e permettermi di scegliere.

Il campo si trovava in una zona abbastanza isolata, una radura a circa cinque chilometri dal centro abitato, ma separato da un bosco.
Arrivammo a pomeriggio avanzato. Fummo ricevuti dal vice comandante; il comandante aveva dovuto recarsi a Berlino per presentare una relazione sul funzionamento del campo, e sarebbe arrivato il giorno dopo. Fummo accompagnati nei nostri alloggi e il vice comandante ci informò che la cena sarebbe stata servita alle sette in punto. Durante la cena il nostro ospite fu molto gentile con noi; ci disse che era senza dubbio un grande onore che questo campo fosse stato scelto per la realizzazione di un documentario sulla grande opera che si stava realizzando nel Terzo Reich. Evidentemente non aveva ben compreso il senso del nostro lavoro. Cercai di non contraddirlo, dando generiche risposte di cortesia, ribadendo che avremmo avuto bisogno dell’aiuto suo e di tutti coloro che si trovavano all’interno del campo. Lui garantì che per quanto era nei suoi poteri l’appoggio sarebbe stato incondizionato. Alla fine della cena mi invitò nella sua camera per offrirmi un cognac e per mostrarmi i disegni di alcuni “progetti importanti”. Evidentemente gli avevo ispirato fiducia; forse aveva scambiato la mia cortesia per una sorta di complicità, e quindi nello spazio privato della sua camera aprì il suo cuore e la sua mente.

Prima di tutto l’ammirazione sconfinata per il direttore precedente, quello che aveva diretto la costruzione del campo e messo a punto i regolamenti e il funzionamento. Sosteneva che con lui mi sarei trovato benissimo, perché anche lui era ingegnere. Era morto di infarto sei mesi prima; aveva dedicato tutte le sue energie al campo, e nel campo aveva voluto essere sepolto, in una tomba umile, sotto una semplice lastra di marmo, in alto, sulla collina. 
Era un ingegnere geniale a suo dire; si, un genio che aveva messo a punto metodi sempre più efficienti per combinare il lavoro forzato, con lo sterminio sistematico. L’obbiettivo era eliminare il maggior numero di “pezzi” nel modo più rapido ed efficiente, bisognava risparmiare le munizioni, che erano preziose per l'avanzata sul fronte orientale, e c’erano soluzioni migliori delle camere a gas. Mi mostrò dei disegni, dei progetti; c’era una specie di sedia da dentista che conteneva una lama sottile, una specie di punteruolo che con un meccanismo a molla si conficcava nella nuca producendo la morte immediata... una specie di garrota. Semplice, economico, veloce e persino umanitario, perché la vittima moriva senza dolore, quasi senza rendersene conto.
“Bisogna che il vero colpevole paghi la giusta pena del suo delitto, pur con i metodi più umani”, disse.
C’era anche il progetto che mostrava come doveva essere allestito lo “studio”, con scivoli per facilitare l’uscita dei cadaveri, e il loro successivo smaltimento.
Era addolorato perché con la morte del vecchio comandante tutti questi progetti meravigliosi si erano insabbiati. Kulmhof sarebbe dovuto diventare il modello per tutti i campi del Reich. Cominciò a lamentarsi; a Berlino sicuramente non avevano compreso l’importanza di quei progetti, e il nuovo direttore non faceva nulla né per svilupparli né per ottenere le necessarie autorizzazioni per la loro sperimentazione.
Ormai i bicchieri di cognac che il vice comandante aveva buttato giù cominciavano a produrre il loro effetto. Venne fuori tutta la rabbia che bruciava la sua anima. A suo dire, il nuovo comandante,  lo aveva superato solo perché amico e parente di personalità altolocate del regime. Il posto di direttore spettava a lui; lui, che era stato fin dall’inizio col vecchio comandante; lui, che il campo lo aveva visto nascere, crescere e diventare quel magnifico esempio di efficienza che tutta la Germania ammirava; lui che era a conoscenza di tutti i progetti per migliorarlo.
Invece, il nuovo direttore non agevolava le attività del campo, anzi le rallentava, per non dire che proprio le ostacolava in ogni modo.
Espresse tutto il suo disappunto per la diminuzione del numero dei deportati avviati alle camere. Mi mostrò liste dettagliate e meticolose di registrazioni delle esecuzioni, delle morti per malattia, delle morti avvenute nelle camere a gas.
“Mentre in tutto il Reich, i campi aumentano la loro efficienza, secondo le direttive provenienti da Berlino, noi soli registriamo una diminuzione... quasi il 14 %... negli ultimi tre mesi”
“L’efficacia della nostra struttura è il solo metro di giudizio di ciò che è buono e di ciò che è cattivo”.
Aprì un coltello a serramanico con il manico di osso bianco e con la lama tutta decorata; lo piantò nella tavola; “Questo me lo ha lasciato il vecchio comandante, domani le farò vedere come lo usava lui...! La aspetto alle sette per mostrarle il funzionamento del campo, voglio farglielo vedere prima che arrivi il nuovo comandante. Buona notte.”.

Il giorno dopo alle sette del mattino, eravamo al centro del piazzale. Gli internati erano schierati, e il vice comandante passeggiava avanti e indietro nervosamente. Quando un uomo starnutì, il vice comandante dapprima si fermò, poi si avvicinò all’uomo; aveva trovato il pretesto che cercava. Lo fece uscire dallo schieramento.
“Cosa significa quello starnuto?”. L’uomo non rispose. “è forse un modo per far capire ai nostri ospiti che i vestiti che vi sono stati assegnati non vi coprono a sufficienza?”
“No signore, no!”. Il vice comandante gli strappò la casacca e lo lasciò a torace nudo.
“... è forse un modo per far intendere che nel vostro alloggio non c’è caldo a sufficienza?”
“No signore, no!”.
“Sai... c’è più caldo di quanto non ce ne sia nelle case di tanti tedeschi che muoiono di fame e di freddo, per questa guerra...
Noi oggi agiamo nel nome del creatore onnipotente… Combattendo contro l’ebreo, noi ci battiamo per l’opera del Signore!”. Urlò in modo che tutto il piazzale sentisse.
Poi si rivolse a me “Sa, signor ufficiale, questo individuo è un... ebreo... – disse questa parola con una certa riluttanza – grazie alla stella gialla si riconosce subito... – esitò un istante come se stesse finendo di caricarsi di rabbia, poi, con voce controllata, ma feroce disse – ... bisognerebbe tatuargliela sulla pelle... non cucirgliela sulla casacca... lo diceva anche il vecchio comandante... lui faceva così...” e a quel punto estrasse il coltello a serramanico e gli diede sei rasoiate in pieno petto, a disegnare una stella di sangue. L’uomo incominciò a perdere sangue abbondantemente, ma restava in piedi contorcendosi appena. A questo punto il vice comandante gli piantò il coltello nel cuore e l’uomo crollò al suolo.
L’ufficiale venne verso di me mentre gli altri deportati, agli ordini di altri ufficiali si allontanavano per recarsi ai posti di lavoro. Il corpo dell’uomo ucciso restò al suolo, lì dove era caduto.
“I mezzi per governare il campo sono la forza e il terrore – disse.
Dobbiamo chiudere i cuori alla pietà ed assumere un contegno brutale.
Dobbiamo essere crudeli, dobbiamo abituarci ad essere crudeli, resteremo comunque  con la coscienza pulita... annientare una vita senza valore non comporta alcuna colpa. Il debole deve essere distrutto”. Parlava come un automa, come se ripetesse una lezione imparata a memoria

Il campo era piuttosto grande, ci volle tutta la mattina per percorrerlo, per visitare le baracche, i servizi, i forni crematori. Il vice comandante mi spiegava il funzionamento di tutto quello che visitavamo, e soprattutto mi illustrava i cambiamenti che il vecchio comandante avrebbe voluto realizzare per rendere il campo ancora più efficiente.
Tutto sommato però, al momento, il funzionamento non era diverso da quello degli altri campi: all'arrivo, i prigionieri venivano divisi in due gruppi: i deportati troppo deboli per lavorare venivano eliminati immediatamente nelle camere a gas, e i loro corpi venivano bruciati; gli altri venivano impiegati nelle fabbriche situate dentro o attorno al campo. Il tifo, la fame, i ritmi di lavoro massacranti decimavano i deportati quotidianamente.

A mezzo giorno, quando tornammo, il comandante era appena rientrato. Sembrava abbastanza stanco. Mi invitò a mangiare al suo tavolo e mi chiese di parlare del progetto. Gli dissi quali erano le intenzioni del ministero, e gli espressi anche i miei dubbi sulla possibilità di svolgere adeguatamente il lavoro, dopo quello che avevo visto al mattino. Quando ero partito da Berlino immaginavo che la situazione nei campi fosse drammatica, ma non fino a quel punto. Non rispose, mi disse che in pomeriggio avremmo fatto un nuovo giro, io e lui, un sopra luogo, e avremmo analizzato quello che si poteva fare. Evidentemente non aveva intenzione di farsi sentire dagli altri ufficiali, mentre esprimeva il suo pensiero.
Durante la passeggiata pomeridiana, lontano da orecchie indiscrete, mi espresse tutto il suo pessimismo sulla situazione. Ormai era chiaro: la guerra era persa, la fine imminente era questione di pochi mesi. Fu molto severo anche con gli apparati di propaganda del regime. “La propaganda ha schiacciato la ragione, la logica, l’evidenza. La propaganda ha schiacciato il pensiero; invece di ascoltare le parole dei nostri filosofi, dei nostri scrittori, dei nostri poeti,  ci siamo lasciati abbagliare dalle chiacchiere di... dalle chiacchiere della propaganda. Siamo tutti colpevoli, voi... anche più di noi. Comunque ormai non si può più fare nulla. Bisognava fermarsi prima. Ora, bisogna recitare fino in fondo la nostra parte, fare il nostro dovere, e prendercene la responsabilità”.
Finimmo il nostro giro in silenzio.
Io mi ritirai nel mio alloggio, e cominciai a lavorare sui materiali che avevo ricevuto al ministero. Durante il viaggio avevo preso appunti per “Una giornata al campo di Kulmhof”. La scaletta del documentario doveva mostrare il sorgere del sole sul campo, il risveglio, l’igiene del primo mattino, con la ginnastica all’aria aperta... poi gli adulti al lavoro, uomini e donne, e i bambini a scuola. Le cucine dove si preparano i pasti e la pausa per il pranzo, un breve riposo prima di riprendere le attività pomeridiane, i bambini a fare compiti, a esercitarsi nella musica, le ragazze nel canto e nella danza. Tempo libero per i propri interessi prima del pasto serale e infine, alla sera lezioni di “storia ed educazione” per tutti. Il riposo notturno, mentre la luna illumina il bosco.

Nei giorni successivi mostrai il progetto allo scenografo, al comandante e al vice comandante del campo. Discutemmo di come poter realizzare le scene previste. Alcune, con opportuni accorgimenti si potevano realizzare anche subito, abbastanza facilmente. Per altre le cose erano più complicate.
Per la ginnastica all’aria aperta,  bastava non riprendere il fango del piazzale, puntare la macchina verso l’alto e mostrare solo volti sorridenti e primi piani contro il cielo azzurro. Per le cucine si potevano fare delle riprese in quelle della mensa ufficiali.
Per le riprese con i bambini invece le cose erano più complicate. I bambini, appena arrivavano al campo erano indirizzati alle camere a gas. Decidemmo che per i prossimi arrivi avremmo ritardato l’operazione, per consentire le riprese. La cosa suscitò le critiche del vice comandante che vedeva in questa scelta un ulteriore riduzione della efficienza del campo. Propose che per girare queste scene si utilizzassero i bambini del villaggio, ma il comandante lo mise a tacere facendogli osservare che nessuno avrebbe potuto scambiare per bambini ebrei, i nostri bambini ariani.
Si dovette anche cercare il luogo dove poter girare le scene, ma al campo non ce n’erano; si decise andare alla scuola del villaggio e adattare un’aula. Anche qui il vice comandante avanzò l’obbiezione che se si consentiva con tanta facilità ai bambini di uscire dal campo, questi avrebbero potuto fuggire, o essere rapiti con una certa facilità, vanificando così tutto il lavoro di raccolta svolto precedentemente. Il comandante accettò le osservazioni e predispose un “sevizio di vigilanza di ferro” in modo che non uno solo dei bambini potesse sottrarsi al suo destino.
Quando iniziammo le riprese, scoprimmo che tra i bambini che dovevano, diciamo così, frequentare la scuola di musica, solo cinque o sei erano in grado di eseguire un solfeggio, e di tenere in mano correttamente uno strumento. Uno dei soldati, che da civile era maestro di musica, fu incaricato di insegnare ai ragazzi le giuste posizioni, in modo che durante le riprese sembrasse che davvero si stessero facendo le prove dell’orchestra dei piccoli. Durante il montaggio sarebbe stata aggiunta la musica registrata altrove.   
Lavorammo in questo modo per circa due mesi, fronteggiando continuamente l’irritazione crescente del vice comandante che era sempre più impaziente e aspettava solo il momento in cui le riprese e il nostro lavoro sarebbero finiti.
Anch’io avrei voluto finire il più rapidamente possibile.
Quello che stavo vedendo da quando ero arrivato al campo era incomprensibile. Dire che era mostruoso, che era orribile, è talmente riduttivo che, come tutti i luoghi comuni non dice niente.
 Io per la macchina della propaganda nazista dovevo contribuire a costruire una enorme menzogna... una menzogna a cui, per la verità, molti volevano credere, sia in Germania che fuori; “Appartiene al meccanismo dell’oppressione vietare la conoscenza del dolore che produce” avrebbe scritto Adorno qualche anno dopo.
Alla metà di maggio, arrivò un treno carico di deportati. Erano tutti ungheresi. Il comandante diede ordine di sospendere la procedura normale; i nuovi arrivati potevano essere utili per le riprese del film. Naturalmente il vice comandante sosteneva che non c’era posto per tutti nelle baracche, e che almeno una certa selezione, che avrebbe potuto operare lui stesso, andava messa in atto. Il comandante invece fu irremovibile: i vecchi e le donne servivano per creare un’aria di famiglia, i malati dovevano servire per gli ambulatori e per l’ospedale del campo; gli uomini tutti dovevano essere avviati ai lavori e tutti gli internati, tutti dovevano essere trattati con una certa umanità.
I nuovi arrivati furono inquadrati sul piazzale del campo e si procedette alla identificazione e alla registrazione.
Io e il comandante assistevamo alle operazioni, quando a un cero punto, mi sentii osservato. Nella fila degli uomini adulti un uomo mi guardava, con uno sguardo  vagamente interrogativo. Lo riconobbi, e lui se ne accorse: era Hoffmann Sandor. Da quando ero arrivato al campo, temevo che questo momento sarebbe arrivato; temevo di vedermelo comparire davanti... speravo che fosse riuscito a fuggire in America o in Svizzera... quella mattina invece...
Ci scambiammo un cenno di intesa minimo. Temevo che rendere pubblica la nostra conoscenza potesse in qualche modo danneggiarlo. Attesi con pazienza che arrivasse il suo turno e quando fu davanti al banchetto, rimasi ad ascoltare.
Cognome e nome !?
Hoffmann Sandor
Data di nascita !
22 Marzo 1906
Luogo di nascita ?
Budapest
Provenienza ?
Budapest
Lavoro praticato da civile ?
Scrittore,... direttore di teatro e di cinema.
“Dunque un ‘artista’!” esclamò il vice direttore che si era avvicinato come insospettito dal nostro sostare.
“Potrebbe essere utile per la realizzazione del documentario” gli rispose con prontezza il direttore, poi si rivolse a me “Glielo affido, sono sicuro che il suo aiuto sarà utile nel seguito della lavorazione del film... abbiamo talmente poco personale competente... ”.
Chinai la testa in segno di assenso; lasciai che le operazioni di registrazione proseguissero mentre mi allontanavo lentamente in compagnia del capitano.

Quella sera stessa mandai a cercare Hoffmann Sandor e lo feci venire nel mio alloggio. Quando entrò lo invitai a sedersi su una poltrona vicina alla mia. Si sedette e incominciò a fissarmi senza parlare; gli versai da bere, prese il bicchiere, ma continuava a fissarmi. Aveva ragione, ero io che gli dovevo delle spiegazioni.
Gli raccontai tutto quello che era successo da quando ci eravamo separati.
Gli parlai del mio incarico; parlai anche di tutte le mie perplessità sulla propaganda, sul nazionalsocialismo, sulla Germania, sulla guerra, sul futuro.
Non avevo voluto essere coinvolto, ma ero... completamente coinvolto.
Che potevo fare? Cosa si poteva fare?
Hoffmann Sandor mi ascoltò.
Gli raccontai quello che succedeva nel campo e gli descrissi alcune scene a cui avevo assistito, compresa quella del primo giorno; quella del coltello... della stella di Davide di sangue; “I mezzi per governare il campo sono la forza e il terrore” ripetei le parole del vice comandante, che a sua volta citava Hitler.
Hoffmann Sandor mi ascoltò pensieroso; ogni tanto scuoteva leggermente la testa e ripeteva sottovoce “Che vergogna… che vergogna…”, poi, dopo un po’, gli tornò il sorriso... il sorriso ironico di una volta, come se gli fosse venuta in mente una idea geniale, epica.
Mi guardò con uno sguardo sornione e mi disse sottovoce: “Sono sicuro che ce l’hai qui”. Lo guardai solo qualche secondo, poi aprii la valigia, lo presi e glielo diedi.
Cominciò a sfogliare e lesse qualche riga qua e là.

“Una piccola valle senza ombra... profonda, sabbiosa, isolata da ogni parte...”, sembra qui, non è vero?
“... il condannato... un uomo mezzo inebetito... i capelli e il viso in disordine... aveva l’aspetto di un cane sottomesso...”... mi guardò di sottecchi... annuendo
“... la macchina è una invenzione del precedente comandante... il merito spetta soltanto a lui... l’ordinamento di tutta la colonia è opera sua...” sembravano le parole del vice comandante.
“… i vecchi disegni del comandante... soldato, giudice, ingegnere, chimico...”
Ascolta “... l’ordinamento della colonia è talmente concluso in sé, che il suo successore anche se avesse avuto mille progetti nuovi in testa non avrebbe potuto, per molti anni cambiare nulla di quel che era stato fatto...”... è proprio così... non è vero?
Lesse la descrizione della macchina.
“Vedi Kafka sa che ogni macchina ha un funzionamento sequenziale... come il motore delle automobili… quattro tempi… e così ha immaginato una macchina formata da tre parti… tre tempi…
il primo è il letto… prima il condannato viene disteso sul letto, e qui viene bloccato, costretto… gli viene tolta la sua dignità… è quello che è successo a noi… ci hanno prelevati dalle nostre case, costretti nei carri bestiame… inquadrati, numerati…
poi c’è il secondo tempo… il disegnatore… l’insieme degli ingranaggi che determinano il movimento dell’erpice… della macchina che uccide… ogni soldato qui è una parte della macchina, ogni procedura è una parte della macchina…
e infine l’erpice, le camere a gas, i forni crematori… dove la condanna raggiunge il compimento… Kafka aveva immaginato che l’erpice che uccide avesse una parte di vetro per permettere agli spettatori di vedere… qui invece, non vogliono far vedere quello che succede davvero… non vogliono far vedere il modo in cui vengono trattati i deportati… qui la macchina della propaganda deve nascondere la verità…”. 
Rimase a pensare qualche secondo, poi precisò meglio “… cioè, non è proprio così…  hai detto che il vecchio comandante aveva l’abitudine di uccidere incidendo col coltello una stella di Davide sul corpo della vittima… quindi... dentro al campo tutti devono vedere – “i mezzi per governare il campo sono la forza e il terrore” - … ma fuori… fuori dal campo nessuno deve sapere”.
Restò in silenzio, poi con aria di complicità mi lanciò la sfida: “Tu potresti essere il vetro… tu potresti far vedere… tu potresti filmare… con il pretesto di provare le luci, le inquadrature… tu potresti filmare le cose come sono veramente… senza costruire menzogne... senza far vedere niente di più di quello che accade realmente… - tacque un istante - ... glielo devi... a quei morti”.
Mi sembrava di vivere la scena in cui Antigone invita la sorella Ismene a seppellire il corpo del fratello morto, abbandonato sul campo di battaglia.
Si. L’unico modo per riscattare la mia dignità sarebbe stato quello di raccontare la verità. Dovevo raccontare la verità.
La sua idea era quella di girare in parallelo due film; uno sarebbe stato il film voluto dalla propaganda, l’altro avrebbe rappresentato la realtà... la verità. 
Allo sviluppo avrei mandato solo le bobine del film di propaganda, le altre le avrei classificate come riprese sbagliate, imperfette, da non sviluppare, ma le avrei tenute io, nascoste, fino al momento in cui avrei potuto farle sviluppare, in un posto sicuro, magari all’estero. Era un’idea intrigante... ed era realizzabile... d’altronde, per quello che riguardava la produzione, disponevo di una certa autonomia.
Hoffmann Sandor sapeva che avrei detto di si, e senza aspettare la mia risposta continuò a leggere, quasi divertito e annuendo continuamente, come se trovasse continue verifiche del suo teorema:
“Nulla turbava il funzionamento della macchina, nel gran silenzio s'udivano solo i sospiri del condannato…
Al condannato viene scritto sul corpo il comandamento che ha violato...  
Conosce la sua condanna? No, sarebbe inutile comunicargliela... imparerà a conoscerla sul suo corpo…
Sa almeno di essere stato condannato? No, neppure questo…
E la difesa?... non ha avuto modo di difendersi...
La scodella... c’è una pappa di riso caldo, e l’uomo, se ne ha voglia, può mangiare quanto gli riesce di prenderne con la lingua. Nessuno si lascia sfuggire questa occasione...
Nelle prime sei ore il condannato vive quasi come prima, non sente che dolore...
Soltanto verso la sesta ora perde il gusto di mangiare... come si quieta l’uomo dopo la sesta ora... Al più ottuso si dischiude l’intelligenza... l’uomo decifra lo scritto con le sue ferite…
… qui riposa il vecchio comandante. I suoi seguaci, che ora devono restare anonimi, gli hanno scavato questa tomba e posto questa lapide. Esiste una profezia secondo cui il comandante dopo un certo numero di anni risorgerà e guiderà da questa casa i suoi seguaci alla riconquista della colonia. Abbiate fede e attendete.”
Fa paura eh?!… Ma non vedi... non vedi? Kafka era un profeta... uno di quelli che vedono prima... che capiscono prima... prima che le cose succedano...

Da quel giorno cominciammo a documentare tutto. Il comandante si era accorto del cambiamento che era avvenuto nel nostro modo di lavorare, ma non volle intervenire.
Riprendemmo l’arrivo dei nuovi treni; i deportati stravolti che scendevano dai carri dopo giorni di viaggio in condizioni disumane; lo smistamento, l’immatricolazione, l’avviamento al lavoro, inutile spesso, ma sempre massacrante; piccoli e grandi soprusi; le umiliazioni imposte alle donne, denudate pubblicamente... rasate in tutto il corpo; le umiliazioni imposte ai vecchi, a cui venivano misurati il naso, le orecchie e altre parti del corpi per grottesche statistiche antropologiche. Riprendemmo l’avviamento alle camere a gas; riprendemmo i morti e il fumo che usciva dai forni crematori. Riprendemmo tutto.
Io cercavo di prolungare al massimo i lavori; sapevo che una volta che io fossi partito, per Hoffmann Sandor sarebbe stata la fine quasi immediata; il vicecomandante certo gli avrebbe fatto pagare duramente il trattamento di favore ricevuto fino a quel momento.
Arrivò il mese di dicembre; le cose per la Germania si mettevano male.
Il comandante aveva capito quale sarebbe stata l’evoluzione inevitabile e ormai prossima, e così, per salvare se stesso - non lo giudico, non spetta a me - nei primi giorni di dicembre decise di rientrare a Berlino, da dove poi riuscì a fuggire in sud America. La direzione del campo restò nelle mani del vice comandante. Le voci sullo stato della guerra parlavano di una situazione sempre più critica. Il vice comandante era preso da una frenesia isterica, continuava a ripetere che bisognava assolutamente portare a termine l’opera. I massacri ripresero furiosamente.
Noi riprendevamo tutto; dovevamo documentare tutto quello che stava accadendo.
Il vicecomandante ormai delirava: “Io consumo tutte le mie forze per mantenere in vita quel che esiste, per completare quello che è stato cominciato e deve assolutamente essere portato a termine… non c'è tempo da perdere… oggi si sentono sempre più... discorsi ambigui…”, vedeva ovunque complotti e tradimenti: “… è mai possibile che un'opera simile non debba... non debba essere terminata per colpa di ...”. Odiava il comandante per aver ostacolato con ogni pretesto il lavoro al campo “ … è inaccettabile il suo modo di pensare, legato ai pregiudizi della cultura liberale e cristiana…”; la critica era, nemmeno troppo velatamente, rivolta contro di noi, che con le nostre esigenze avevamo offerto al comandante più di una occasione per ritardare il lavoro.
Riprendemmo anche lui mentre sfogava la sua rabbia a parole, ma anche con una brutalità ormai senza freni. Verso la metà del mese di gennaio si cominciarono a sentire gli echi dei bombardamenti delle forze russe che stavano avanzando. Il vicecomandante ordinò furiose esecuzioni di massa. I corpi delle vittime venivano accatastati in grossi cumuli, cosparsi di benzina e dati alle fiamme.
Quando, il 25 gennaio, in fondo alla strada che portava al campo, comparvero tre carri armati sovietici, e dietro di loro un gruppo di soldati russi, noi stavamo ancora facendo delle riprese. Il vice comandante incominciò a sparare all’impazzata urlando “Distruggere tutto… distruggere tutto!”, arrivò davanti a noi e per sfogare tutta la sua rabbia scaricò tutto quello che rimaneva nel caricatore della sua pistola contro Hoffmann Sandor. Poi scagliò la sua pistola contro il cadavere che ormai giaceva a terra; io continuavo a riprendere. Mi guardò con odio feroce, si levò i vestiti, restò col petto scoperto, afferrò il coltello che il comandante gli aveva lasciato in eredità, e velocemente, in pieno petto tracciò una croce uncinata di sangue. Poi appoggiò la punta del coltello contro il petto, dalla parte del cuore e si buttò a terra in modo da far penetrare, col peso, tutta la lama. Morì così, in un lago di sangue. Feci rivoltare il cadavere, la svastica incisa sul petto del vicecomandante fu l’ultima inquadratura. Anche questa ultima scena, il suicidio del vicecomandante, era stata esattamente prevista da Kafka. Anche l’ufficiale di Kafka, alla fine, si suicida nella macchina della Colonia Penale proclamando la sua ostinata e delirante fedeltà al programma del progetto, perfino nel momento finale e decisivo della rivelazione innegabile di tutta la sua evidente follia.
Continuai a riprendere fino all’arrivo dei soldati russi.
Mentre i soldati russi si stavano guardando in giro attoniti, alcune SS che non si erano arrese e si erano ritirate in una baracca lanciarono due bombe a mano. I russi corsero a mettersi al riparo; ci furono attimi di panico; io ne approfittai per togliere dalla macchina da presa l’ultimo rullo di pellicola e corsi in paese; lo consegnai al parroco cattolico della chiesa, e lo pregai con tutta la mia anima di nasconderlo e conservarlo fino a quando non sarei tornato a riprenderlo... cosa che feci dopo il processo.
Si perché dopo la guerra, come sai, ci fu il processo. Un piccolo processo, non famoso come quello di Norimberga; un piccolo processo, davanti a una piccola commissione.
Raccontai semplicemente la verità, ammettendo la mia partecipazione ai programmi di propaganda; raccontai tutto quello di cui ero stato testimone nel campo; raccontai anche del mio incontro e della collaborazione con Hoffmann Sandor, evitando però ogni riferimento al film parallelo. Non volevo che i materiali che avevamo girato segretamente, cadessero nelle mani di russi, americani o altri.
No, le nostre riprese erano documenti reali, ma erano soprattutto i materiali per costruire una opera d’arte, così come io e Hoffmann Sandor l’avevamo concepita. Io, io solo, potevo e dovevo fare il montaggio.
Al processo ammisi le mie colpe: la vigliaccheria di non voler essere coinvolto, la vigliaccheria di una neutralità inaccettabile, la vigliaccheria di voler essere al di sopra delle parti, la vigliaccheria della mancanza di chiarezza, la vigliaccheria dell’attesa, nella speranza che il tempo risolvesse tutto. Si, ammisi le mie colpe.
Io ero stato complice della propaganda... la propaganda... questo carnevale, questa mascherata capace di trasformare la danza macabra dei regimi in una festa trionfale capace di incantare... di ipnotizzare, di esaltare popoli interi; quella propaganda che fa leva sulla stupidità di chi la ascolta; quella propaganda che lavora distribuendo i suoi frutti avvelenati: primi fra tutti la paura e l’odio; quella paura e quell’odio che generano l’intolleranza, la violenza, la brutalità, l’assassinio. Quella paura e quell’odio che portano all’annientamento della dignità umana propria e altrui.
La propaganda è la peggiore delle armi dei regimi totalitari; la propaganda è peggio della peggiore polizia segreta che sequestra, tortura e uccide; la propaganda è l’arma con cui i regimi deformano nel profondo l’identità dei popoli, e così facendo li distruggono.
Non ero l’unico colpevole, lo sapevo. La propaganda si era servita anche di radio e di giornali. Avevano colpe anche la scuola e gli insegnanti, le chiese con i loro pastori o i loro preti. Tutti, quasi tutti, silenziosi e reticenti. Tutti avevano rinunciato a proclamare la verità. Tutti avevano rinunciato alla loro funzione educatrice.
Aveva colpe anche la comunità internazionale... anche la comunità internazionale aveva fatto i suoi piccoli passi... si anche quelli che ora ci giudicavano, non erano stati sempre lucidi e determinati nella loro azione contro il nazionalsocialismo...
... e quando i piccoli passi portano al punto di non ritorno... quando arriva il momento dell’impotenza, allora non si può più fare nulla; bisogna solo che ognuno accetti di prendersi le proprie responsabilità e sia disposto a pagare per i propri errori... e l’errore più grave è stato esitare. Hitler e i suoi dovevano essere fermati fin da subito, anche se avevano vinto le elezioni. Bisognava fermarli subito e con ogni mezzo. Bisognava fermarli a qualunque costo. Ci sarebbero stati milioni e milioni di morti in meno.
Non ero l’unico colpevole, ma questo non diminuiva le mie responsabilità... non era una consolazione. Rimasi in silenzio per i resto del processo, disposto ad accettare qualunque condanna mi sarebbe stata inflitta. Spesso ripensavo a quella ultima frase del racconto di Kafka, che Hoffmann Sandor lesse quella prima sera in cui ci incontrammo nel mio alloggio: “… qui riposa il vecchio comandante. I suoi seguaci, che ora devono restare anonimi, gli hanno scavato questa tomba e posto questa lapide. Esiste una profezia secondo cui il comandante dopo un certo numero di anni risorgerà e guiderà da questa casa i suoi seguaci alla riconquista della colonia. Abbiate fede e attendete”.
Abbiate fede e attendete: la profezia dice che l’orrore ritornerà... quell’orrore che è sempre pronto a ritornare, sostenuto... spinto dal vento di nuove e diverse forme di propaganda.
Fui assolto, non avevo compiuto crimini efferati, non avevo ordinato stragi. Fui assolto da una giustizia banale: una giustizia che condanna solo i carnefici.
Fui assolto, ma mia vita ormai era... era un cumulo di rovine e lo sarebbe restata per sempre. Provai a ricostruire una normalità, via dalla Germania... il matrimonio, i figli... Provai perché mi restava ancora un dovere nei confronti della vita... nei confronti di un amico... dovevo montare il film... dovevo. Adesso, il film segreto di Hoffman Sandor... l’ultima regia di Hoffman Sandor... “Nella colonia penale”, liberamente ispirato al racconto di Franz Kafka, è nelle tue mani. È un film prezioso. Fallo vedere agli storici del cinema, fai in modo che venga proiettato e conservato nelle cineteche. Ti lascio questo incarico perché io mi sento male.
Sono ossessionato da una domanda cui non so trovare risposta.
Come difendersi? Come possono i popoli difendersi dal demone ambiguo della propaganda?
Forse solo la ragione e la cultura potrebbero salvare i popoli; una cultura autentica, profonda.
Ma troppo spesso la cultura si trasforma in erudizione sterile o in pregiudizio a sostegno dei propri preconcetti e delle proprie scelte ideologiche... troppo raramente la cultura riesce a essere la forza che permette di capire i valori reali, i valori profondi.
Troppo spesso la ragione si addormenta e la cultura diventa un esercizio inutile...
E così, figlio mio, senza una risposta, e con poche speranze... ti abbraccio... scusami la mancanza di ironia... scusa se non riesco a costruirmi delle illusioni... e ad andare avanti come se niente fosse. Non riesco a vivere nel terrore che quello che è accaduto possa accadere di nuovo... se è terribile avere questa paura, sapendo di essere stati, e di poter essere di nuovo, delle vittime... è insopportabile avere questa paura sapendo di essere stati, e di poter essere di nuovo, carnefici.
Scusami... tuo padre”

... prima di proiettare le immagini ... vorrei aggiungere una piccola riflessione... un collegamento... un ricordo. Mio padre... un fantasma... non ricordo di avere mai sentito la sua voce... mia madre rispettava il suo silenzio, la sua chiusura... quando io e mia sorella giocavamo... aveva cura di fare in modo che non lo disturbassimo... così siamo stati educati ad accettarlo e a rispettarlo. Quando più grande, chiesi a mia madre perché mio padre fosse... così... mi disse solo che aveva sofferto tanto...
L’unica cosa che posso aggiungere a tutto quello che è già stato detto, è una cosa che mi disse mio zio Luca Alberto, il fratello di mia madre... mi riferì di un breve colloquio che aveva avuto con mio padre... era l’inizio del 1954; mio zio arrivò a casa con un regalo... un televisore... da poco erano iniziate le trasmissioni della RAI... mio padre e mio zio parlarono un poco... mio padre comprese immediatamente... se con la radio, i giornali, il cinema... si era arrivati dove si era arrivati... cosa sarebbe successo adesso, con questo nuovo mezzo che, come la radio, avrebbe potuto arrivare in tutte le case e portare in tutte le case non solo i discorsi ma anche le immagini... le menzogne della propaganda avrebbero potuto essere molto più convincenti, molto più efficaci...
Mio padre comprese immediatamente che la propaganda attraverso la televisione sarebbe stata invincibile... e perse ogni speranza. Pochi mesi dopo, smise di parlare definitivamente...
Prego... possiamo proiettare le immagini

A questo punto si abbassano le luci in sala e segue una breve proiezione di immagini dei campi (ma anche di parate naziste e di Hitler che parla alle folle in delirio).La sequenza si conclude con l’immagine del volto di. Franz Kafka.


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1 commento:

  1. l'ultima regia di hoffman sandor by fusani luigi alcide is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported License.

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