Come è nato l’ Hoffmann Sandor e perché si chiama così.
L'ultima regia di Hoffmann Sandor, è nato alla fine del mio
soggiorno di cinque anni in Ungheria.
Accanto a decine di esperienze gradevoli e positive che mi
sono accadute in quel periodo, ce n'è stata anche una, per me inconcepibile,
che mi ha toccato nel profondo.
In Ungheria ho incontrato l'antisemitismo. Un antisemitismo
cattivo, ingiustificato… ingiustificato perché senza oggetto; in Ungheria ormai
di ebrei non ce ne sono quasi più.
Un antisemitismo pericolosissimo, perché quello che ho
incontrato, non è l'antisemitismo di pochi fanatici invasati, che pure esistono
in Ungheria, come in quasi ogni altra nazione europea, e costituiscono “solo” un
problema di ordine pubblico; no… l'antisemitismo che ho trovato è
pericolosissimo perché è l'antisemitismo dei moderati, delle persone perbene,
delle persone che hanno studiato e sembrano persone civili.
È l'antisemitismo di chi minimizza, di chi giustifica, di
chi dice "si c'è stato qualche morto… ma non esageriamo con i
milioni", "gli ebrei avranno anche sofferto… ma guarda quello che
fanno ai palestinesi", "certo che sarebbe il caso di smetterla di
farsi comandare sempre dagli ebrei"…
È dall'incontro/scontro con questo antisemitismo che è nato
un primo testo: Pécs 1944.
Questo testo è stato presentato nelle scuole, nei centri
culturali, nelle università, nei teatri, e sempre alla fine delle
rappresentazioni, oltre alle incontenibili reazioni di commozione si
manifestava qualche resistenza. È a questo punto che nella mia mente è nato un
quesito. Come mai ci sono persone che non accettano la realtà, non la vogliono
vedere nemmeno quando questa si presenta davanti ai loro occhi in tutta la sua
evidenza, e continuano a negare, a sottilizzare, a minimizzare, e ci sono altre
persone che invece vedono le cose 10, 20, 50 anni prima degli altri?
Un esempio illuminante è quello di Franz Kafka.
Siamo nei primi anni del 900. Kafka scrive "Nella
colonia penale". È un racconto ambientato in una strana isola, la colonia
penale, in cui i detenuti, ridotti ad uno stato di squallido abbrutimento, sono
tutti condannati a morte; nessuno di loro ha subito un processo; nessuno di
loro ha avuto diritto a una difesa; nessuno di loro conosce la causa della
condanna; ognuno di loro è destinato a essere stritolato da una macchina
perfetta, concepita da un sadico.
La colonia penale ora è diretta, di fatto, da un mediocre
individuo, carico di frustrazioni, di nostalgia “per i bei tempi” in cui il
campo funzionava a pieno regime, e di speranza per un futuro
"migliore"; e infatti, una lapide ricorda che il comandante, il
sadico che ha concepito la colonia penale e la sua macchina, ora è morto, ma un
giorno ritornerà.
Che cosa aveva visto, Kafka, con quarant'anni di anticipo? Non
dovremmo solo dire che Kafka è stato un grande scrittore… dovremmo dire che
Kafka è stato un profeta.
In fondo, L'ultima regia di Hoffmann Sandor, riconosce lo
spirito profetico di Kafka… a cui aggiunge poi, nel finale, un'altra visione,
un’altra profezia che dà ulteriore senso a tutto il lavoro.
Hoffmann Sandor. Credo che sia il mio Dibbuk. Il Dibbuk
nella tradizione ebraica è un'anima in pena, erratica, derelitta, infranta,
sospesa tra due mondi; l'anima di un morto inquieto, perché morto di morte
violenta; un morto non rassegnato; un morto che aveva ancora bisogno di vita…
il Dibbuk è un'anima che chiede un atto di riparazione, per poter trovare un
po'di pace.
Quando avevo cominciato a cercare di capire questo rapporto
tra certi ungheresi di “buon senso” e gli ebrei, un giorno mi capitò, passando
nella via del passeggio di Pécs, di vedere nella vetrina di una libreria, un volumetto
dalla copertina color marroncino, nella quale si vedeva un dettaglio della
casacca a righe dei deportati, con la stella di Davide.
Entrai subito in libreria e chiesi alla commessa di darmi
quel libro. Quando lo aprii, vidi su ciascuna pagina, due colonne listate a
lutto, piene zeppe di nomi. Si trattava dell'elenco degli oltre 4000 cittadini
di Pécs, deportati nel maggio-giugno del 44, nei campi di sterminio nazisti, e
mai tornati.
Il primo nome che mi capitò di leggere fu Hoffmann Sandor.
Ce n'erano parecchi di Hoffman in quella pagina... 10, forse 15. Ma il primo che
lessi, fu lui: Hoffmann Sandor.
Qualche tempo dopo, ero riuscito a trovare il cimitero
ebraico. Decisi di andare a visitarlo. Naturalmente era chiuso. Per puro caso,
qualcuno che arrivava in quel momento, riuscì a farsi aprire, e potei entrare
anch'io.
Un giro breve. Le tombe portavano quasi tutte il nome di
qualche antenato morto nell'800 o ai primi del 900, e poi un elenco di nomi
scritti tutti uguali, quasi tutti con lo stesso cognome, diverse le date di
nascita, ma tutti con la stessa data di morte indeterminata: 1944.
Nel bel mezzo di una di queste tombe un nome mi colpisce:
Hoffman Andor… si Andor, senza la esse… un errore, una distrazione, forse
causato dalla fretta dello scalpellino.
Ma di nuovo Hoffman Sandor attira la mia attenzione.
Scrissi il mio Pécs 1944, ne diressi la messa in scena, fu
rappresentato, fu trasmesso per radio, suscitò grandi emozioni e approvazione.
Il preside del Dipartimento di Italianistica di Pécs, il professor Tassoni, decise
che bisognava lasciare una traccia meno effimera dello spettacolo; decise di
far stampare, a spese dell’università, poco più di un migliaio di copie, in
edizione italo ungherese, con testo a fronte. Ad ogni recita dello spettacolo
decine di persone chiedevano di poter avere il testo e in poco tempo tutte le
copie stampate sono state esaurite.
Io e mia moglie, avevamo stretto una cara amicizia con il
professor Tassoni, acuto semiologo; piacevoli serate intere trascorse a
chiacchierare di politica, di letteratura, di spettacolo, ma anche di figli, di
famiglia, di vacanze.
Si avvicinava, a maggio, il giorno del suo compleanno. Io e
Cecilia passeggiavamo per il centro di Pécs. Cecilia nota in una libreria
antiquaria un volumetto di opere di Petrarca, tradotte in ungherese. Certo
potrebbe essere un simpatico regalino per il professore.
Entriamo in libreria e chiediamo di poterlo esaminare; se è
in buone condizioni e se il prezzo è accessibile, si può acquistare. Il prezzo
era conveniente. Prendo il libro tra le mani, apro la copertina… Ex libris
Hoffmann Sandor… il nome è scritto con una grafia elegante, antica, ordinata…
sono allibito. Ancora lui. Ho tra le mani uno dei suoi libri. Mi tremano le
mani. Mentre faccio vedere a Cecilia quello che ho trovato, un pensiero mi
attraversa la mente. Il nome per il protagonista del mio racconto su Kafka è
questo!
Comincio subito a scrivere; raccolgo gli appunti: li metto
in ordine; gli do una prima forma.
Lavoro circa un mese. A un certo punto, continuando a
aggiungere, togliere, correggere, mi perdo nel mio stesso testo. È il momento
di lasciar sedimentare tutto. Qualche mese di riposo poi lo riprenderò dopo
l’estate.
Estate. Incontro in Sardegna gli amici del teatro Cada Die
di Cagliari. Si parla di progetti miei e loro; racconto l’Hoffmann Sandor a
Pier Paolo Piludu. L’idea gli piace tantissimo; gli interessa. Mi fa promettere
che prima di dare il testo a chiunque altro, lo faccia leggere a lui. Prometto.
A ottobre ricomincio a lavorarci. Quando lo rileggo, mi
accorgo di tutta una serie di incongruenze, imprecisioni, passaggi
ingiustificati… provo a correggere. Ci lavoro un quindicina di giorni, ma non
c’è niente da fare… non funziona. Non funziona e basta.
Il testo ritorna nel cassetto. Lasciamolo riposare ancora;
ne riparleremo in primavera.
Aprile. Ho un paio di idee su come mettere a posto il testo.
Comincio a lavorarci, ma dopo quattro o cinque giorni, vengo ricoverato in
ospedale. Le coronarie; mi devono mettere tre by-pass.
Sono in ospedale e penso che questo è un segnale ben
preciso. Forse, quello che Hoffmann Sandor vuole da me è qualcos’altro; del mio
testo non sa cosa farsene. Pazienza… è andata così.
Trascorre la mia degenza in ospedale; passo le vacanze in
convalescenza; arriva settembre, e si torna a scuola. Stranamente, non mi è
stata assegnata una nuova classe terza. Mi viene assegnata una quinta. Io ho
già una quinta… portare alla maturità due quinte richiede un certo impegno. Va
bene lo stesso, nessun problema. Entro nella mia nuova quinta. Faccio
l’appello… arrivo alla metà dell’elenco e rimango allibito. Hoffmann Eva.
Guardo la ragazza; anche lei mi guarda; non sorride; mi fissa, severa. Mi
sembra che stia pensando: “… allora, lo finisci o no, questo testo!”.
L’episodio mi inquieta moltissimo. Per qualche giorno non faccio nulla; la
burocrazia di inizio anno è pesante… relazioni, verbali, progetti,
programmazioni… ma ogni volta, in classe, Eva mi guarda con lo stesso sguardo.
A fine ottobre mi rimetto a lavorare; tutto va a posto “magicamente”; uno a uno
risolvo tutti i problemi. Il giorno 2 novembre 2009, al mattino, incomincio a
rileggere tutto; metto a posto le ultime frasi, le ultime parole. Verso mezzo
giorno e mezzo sto finendo l’ultima rilettura. Tutto è a posto.
Cecilia mi chiama: tra cinque minuti a tavola.
Certo, ho finito. Stampo e vado in sala col testo stampato.
Lo appoggio sulla scrivania di Cecilia e le dico che ho finito, e se vuole, può
leggerlo. Bene. Ci mettiamo a tavola, ascoltiamo il telegiornale e
chiacchieriamo. Sto pulendo la frutta e squilla il telefono. Sono le due.
Rispondo. Sento la voce di Pier Paolo Piludu. “Ciao Luigi come stai?… avevi
promesso che quando finivi di scrivere il tuo testo, me lo facevi leggere… ma
non ti sei fatto sentire!”. Non ho parole. È quasi un anno e mezzo che non ci
sentiamo; un anno e mezzo da quando ho fatto la mia promessa. Balbetto, sembra
che mi giustifichi…“L’ho finito un’ora fa… te lo mando subito…”. Appena mi
siedo di nuovo al computer spedisco via mail il mio testo. Qualche giorno dopo
gli amici del Cada Die mi rispondono che ha letto il testo, e gli è piaciuto
tantissimo.
A gennaio del 2011, l’Hoffmann Sandor è andato in scena a
Cagliari, al teatro La vetreria.
PS. Dopo la prima, Pier Paolo mi telefona. È successa una
cosa stranissima.
Nello spettacolo, nella finzione, si parla di un film,
diretto dal Hoffmann Sandor, che sarebbe stato ritrovato dopo sessant’anni, e
che era depositato “al sicuro”. Il narratore racconta come, dove e perché il
film sia stato girato. Si annuncia che alla fine della presentazione il film
sarà proiettato.
Alla fine dello spettacolo il pubblico applaude… e non se ne
va!
Ora gli spettatori vogliono vedere il film.
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