mercoledì 11 luglio 2012

Una sedia di nome freccia






Una sedia di nome Freccia



Luigi Alcide Fusani
           
Corso Pavia, 26
27029 – Vigevano (PV)
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C'era una volta una sedia.
Era una bella sedia; sembrava persino una sedia antica, di legno lavorato, con il sedile di tappezzeria, imbottita. Non era una di quelle sedie squadrate e dure che si comprano oggi.
Lavorava in una bella casa. Una casa indipendente, con giardino e autorimessa, vicino al centro.
Non stava in un appartamento qualsiasi, in un condominio qualsiasi, in una strada qualsiasi.
Il padrone di casa era un avvocato importante. Una persona seria. Prima di pranzo leggeva sempre le notizie di politica sul giornale e a pranzo ascoltava sempre il telegiornale.
La sedia doveva restare tutto il tempo composta accanto al tavolo da pranzo, a meno che qualcuno non volesse sedersi su di lei. A volte la spostavano per pulire bene sotto il tavolo, ma per la maggior parte del tempo doveva starsene lì tranquilla.
In casa oltre all'avvocato, vivevano sua moglie, i suoi figli (due ragazzi di otto e dieci anni), e la domestica.
Durante il pomeriggio i ragazzi a volte finivano a giocare in sala, e questo alla sedia non dispiaceva. I ragazzi giocavano con lei… facevano finta che fosse il vagone di un treno, oppure una montagna da scalare, oppure un cavallo per battaglie tra indiani e cowboy. Alla sedia non piaceva molto fare la montagna da scalare, anche perché spesso la mettevano sul tavolo in posizioni strane, le salivano sopra coi piedi… poi arrivavano la mamma e la domestica che alzavano la voce, mandavano via i bambini e la rimettevano a posto. Fare il cavallo per battaglie tra indiani e cowboy, invece le piaceva molto. Le sembrava proprio di essere un cavallo vero e di correre attraverso le praterie infinite. Una volta, alla televisione, aveva visto un bel pezzo di film dove si vedevano dei cavalli veri, con i pellerossa che correvano nella grande prateria… quella sì che doveva essere una bella vita. Il protagonista era un cavallo bianco velocissimo (in realtà era grigio, ma a lei sembrava bianco); così veloce che il suo cavaliere, Ombra Silenziosa, un guerriero apache valorosissimo, lo aveva chiamato Freccia.
Quello che invece proprio non le piaceva, ma per niente, era dopo pranzo, quando la moglie dell'avvocato si sedeva proprio su di lei, per vedere la sua telenovela preferita.
Per capire meglio quanto sgradevole fosse la situazione, bisogna chiarire un fatto: la moglie dell'avvocato aveva un sedere tremendo… un sedere così grosso che non ci stava nemmeno tutto, sul sedile… un sedere così pesante che ogni volta che la signora si sedeva, lei si sentiva soffocare.
E poi la telenovela: una storia di un'imbecillità infinita… e in più le toccava sentire i commenti della signora e della domestica, Martina, che anche lei si sedeva lì davanti alla televisione con un chilo di piselli da sbucciare, o qualche altra verdura da preparare per la cena della sera. “Certo che lui è proprio un bastardo”;
“Ma anche lei, che gli ha fatto credere che lui è il padre del bambino… non è tanto brava…”;
“Chissà come farà lei, poi con il bambino, ora che ha anche perso il lavoro…”.
Quello era il momento peggiore della giornata.
Una volta che proprio non ne poteva più, cominciò a pensare che avrebbe proprio voluto andarsene.
Si, andarsene e diventare un cavallo. Uno di quei cavalli che corrono nelle grandi praterie.
Certo non era facile. Lei non si era mai mossa da dove l'avevano messa.
Incominciò a sognare. Se fosse stato un cavallo le sarebbe piaciuto tantissimo chiamarsi anche lei Freccia, come quello di Ombra Silenziosa.
Sapete com’è, quando si comincia a fare un sogno… cominci a pensarci… continui a pensarci… ci pensi sempre di più, e alla fine non pensi più ad altro… ogni giorno. Alla notte non dormì più. Pensi solo a come realizzare il tuo sogno.
La sedia pensava tra sé e sé: “… dovrei provare a cercare di spostarmi almeno un pochino… qualche centimetro… fatti i primi centimetri il più è fatto… poi me ne torno a posto, ma intanto mi sono spostata… e se poi non riesco? Sono quasi cinquant'anni che sto in questa casa, e non mi sono mai spostata… se scoprissi che non posso spostarmi e che dovrò restare qui per tutta l'eternità, potrei anche impazzire… devo riuscire, devo riuscire, assolutamente… devo riuscire. Magari un centimetro… un centimetro solo, ma devo riuscire”.
E fu così che in una notte di maggio, una notte che le scoppiava la testa, col cuore impazzito, tremando di paura, disse a se stessa: adesso o mai più! Sentì ogni fibra del suo legno contrarsi in una tensione che mai prima di quel momento aveva provato… e si spostò.
Quando si fu spostata, di colpo, la sua anima fu invasa da un senso di benessere.
Si fermò un istante a riposare e a cercare di capire meglio quello che era appena successo. Com'era stato facile! Avrebbe potuto rifarlo. Guardò il tavolo… si era spostata di un bel pezzo… altro che un centimetro… saranno stati sette o otto… (avrebbe voluto pensare dieci, ma le sarebbe sembrato di barare con se stessa).
Fu a questo punto che le venne un pensiero che la fece tremare… “Sarò capace di farlo ancora?”.
Riprovò. Riuscì di nuovo. Meno della prima volta… quattro o cinque centimetri, ma questa volta con uno sforzo decisamente minore. Era stata capace di farlo ancora! La sedia si sentì profondamente felice, intimamente felice, ma anche spossata… e si lasciò andare al riposo.
Si risvegliò di colpo al mattino. La padrona di casa la rimise al suo posto con un movimento brusco, accostata al tavolo, borbottando “Vorrei sapere chi è che lascia le cose in disordine in questo modo…”. La sedia pensò: “Fai pure la prepotente… vedrai cosa farò appena avrò imparato a spostarmi bene bene…”.

II

La giornata passò velocemente, quel giorno. La sedia non prestò attenzione a nulla di quello che accadeva intorno a lei. Pensava solo a quello che avrebbe fatto alla sera. Progettava.
“Potrei andare fino alla finestra, guardare un po’ fuori, e poi tornare al mio posto… in modo che nessuno si accorga di niente… è pericoloso… se qualcuno si alzasse di notte per andare a prendere qualcosa in cucina… un bicchier d’acqua… o un digestivo… o addirittura a farsi una camomilla… no, no, no… troppo pericoloso…”, e poi non sapeva come avrebbe retto alla fatica; dal tavolo alla finestra erano almeno tre metri… sei, tra andata e ritorno… “no, no, … questa sera è troppo presto per una impresa di questo genere”.
Inoltre le era anche venuto in mente che i due spostamenti della sera precedente erano andati diritti… ma sarebbe stata capace di girare a destra o a sinistra? Avrebbe dovuto provare a girare… si sarebbe limitata solo a fare un mezzo giro su se stessa… in verso antiorario, per poi ritornare al suo posto ruotando in verso contrario… “Ottima idea, si!”.
Cominciò a pensare a come avrebbe dovuto coordinare i suoi movimenti per eseguire le rotazioni previste. Fece alcune ipotesi, e decise che le avrebbe sperimentate alla sera. Le piaceva questo modo di pensare; questa capacità di programmare le sue azioni in modo razionale… scientifico, in un certo senso.
La sera arrivò presto. Quando le luci si spensero la sedia era già emozionata, ma saldamente padrona di se stessa. Attese ancora che attorno a lei fosse tutto silenzio.
Finalmente, lentamente, stando ben attenta a non far rumore, con un piccolo sforzo, perfettamente controllato, si staccò dal tavolo. Si staccò ancora un po’… poi fece il primo tentativo di rotazione… Perfetto! Stava girando su se stessa! Di nuovo… di nuovo… di nuovo! A poco a poco nel buio quasi assoluto, percepì il cambiamento di prospettiva. Continuò fino a che non ebbe compiuto il mezzo giro. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato; le sembrava contemporaneamente un tempo lunghissimo e un tempo brevissimo. Era un po’ disorientata.
“Bene – disse a se stessa – ora bisogna tornare a posto”. Una operazione di precisione, ma la sedia la eseguì senza incertezze, anzi con una certa soddisfazione.
Ecco… ora era tornata perfettamente al suo posto. L’ultimo pensiero, prima del riposo, fu per la moglie dell’avvocato: “… e domattina voglio vedere se ti accorgi di qualche cosa!”.
La sedia aveva ragione; al mattino la signora non si accorse assolutamente di nulla… ma quella notte era successo qualcosa di molto, molto importante.

III

Nei giorni seguenti progettò con cura tutte le tappe che l’avrebbero portata alla sua nuova vita; non si diventa un cavallo… così, da un giorno all’altro, senza una seria preparazione. Ogni cosa doveva essere pianificata accuratamente. Prima di tutto avrebbe dovuto acquisire una maggiore abilità nello spostarsi e nel muoversi su se stessa; poi avrebbe dovuto esercitarsi nel salto… una volta aveva visto alla televisione un torneo ippico dove i cavalli gareggiavano in abilità e forza, ma senza perdere per nulla la loro eleganza, anzi mettendola in primo piano. Ecco, lei voleva diventare così. Forte, agile, elegante. Perché non puntare in alto? D’altronde si vive una volta soltanto, e lei aveva già perso fin troppo tempo in quella casa.
Certo, esercizi di agilità, e in particolare il salto, richiedevano spazio e una certa libertà di movimento. Bisognava aspettare che la famiglia se ne andasse a fare un fine settimana nella casa in Liguria, al mare, e allora avrebbe potuto esercitarsi con comodo.
Occorreva stare calmi, non farsi prendere dalla fretta e rischiare di farsi scoprire proprio adesso.
Si immaginava le scene, se la signora l’avesse scoperta a saltare il divano… senza dubbio si sarebbe messa a strillare che in casa c’erano gli spiriti e che bisognava chiamare un esorcista a benedire la casa… no, no, calma, questo era il momento in cui bisognava stare attenti a non commettere passi falsi.
La sedia aspettò con pazienza che la famiglia andasse in Liguria… a Santa, dicevano loro… e nel frattempo ogni notte, un esercizio: un giro intorno al tavolo; una passeggiatina fino alla porta-finestra; un’occhiatina alla vetrinetta dove la signora conservava tutti i suoi ninnoli… bomboniere, statuine, scatoline di ceramica, campanelle di cristallo… una collezione di una banalità assoluta. La sedia si sentiva orgogliosamente superiore. Orizzonti senza confini… sognava lei; altro che bomboniere!
Una sera era rimasta a guardare per una mezzoretta fuori dalla finestra; le sembrava un cielo familiare… a un certo punto riconobbe cinque stelline luminosissime e quasi allineate… Ma certo! Erano le stelle che indicavano agli apache la direzione del loro villaggio. Quando loro si erano spostati di un bel pezzo, o per una battuta di caccia al bisonte, o per una battaglia contro i visi pallidi, poi ritrovavano la strada di casa, seguendo le stelle dell’arco… loro le chiamavano così, quelle cinque stelle! Intuizione meravigliosa! Se lei, una volta libera, avesse seguito le stelle dell’arco, sarebbe sicuramente arrivata alle immense praterie.
Una grande gioia pervase la sua anima. Aveva trovato la luce che l’avrebbe guidata nel suo viaggio verso la libertà. Se ne tornò al suo posto.
Tornava sempre al suo posto, alla fine dei suoi esercizi, e se ne restava lì tranquilla, come se niente fosse successo, ad aspettare che la vita, in casa, al mattino riprendesse come sempre.
La cosa che la divertiva di più, in quei momenti… era stare a guardare le altre sedie… cinque… uguali a lei, costruite insieme a lei. Restavano lì, impassibili, immobili, come se niente fosse successo… facevano finta di dormire… quelle ipocrite. Poverette. Lì le avevano messe, lì sarebbero restate fino a che un giorno, qualcuno non le avrebbe mandate in discarica, o addirittura all’inceneritore. Era vita quella? Certo che no! Eppure non reagivano!

IV

Finalmente arrivò il fine settimana in Liguria. Preparativi. Spese e scorte, come se in Liguria non vendessero l’acqua minerale! Ma la sedia aveva altro a cui pensare… altro che acqua minerale!
Quando la porta di casa si chiuse, attese di sentire il portellone del garage che si apriva, la macchina che si metteva in moto, la manovra… la chiusura, il silenzio.
Silenzio. Silenzio! Libera. Ora poteva fare tutti gli esercizi che voleva, anche di giorno! Poteva anche fare rumore… la fermassero le altre, se avevano coraggio!
Cominciò a saltare, a correre, e poi di nuovo a saltare sempre più in alto, e poi a correre sempre più veloce, ma senza perdere il controllo: attenta! Attenta a non far cadere vasi, a non spostare le coppe d’argento, a non urtare i quadri, a non graffiarsi, a non farsi male… tutti errori imperdonabili.
Fu un fine settimana indimenticabile; potersi muovere senza paura di far rumore… immaginarsi insieme agli altri cavalli correre libera fino allo sfinimento, fino a che il sole non fosse calato dietro le montagne, e restare poi lì, nel vento fresco della sera, tutta sudata, ad ascoltare il cuore che batte impetuoso. Vita! Quella si che era vita!
Ad ogni evoluzione si raccontava quello che immaginava stesse succedendo: “Ecco Freccia, il magnifico destriero bianco, che attraversa senza esitazioni o cedimenti, il deserto della morte, dove decine di cavalli vinti dal caldo e dalla sete, sono stramazzati al suolo esanimi. Ecco che ora con un balzo unico, passa da una riva all’altra del grande fiume che ha scavato il canyon dell’antilope…”
Quando alla sera della domenica tornò al suo posto, e si mise ad aspettare il rientro della famiglia, si sentiva pronta… si! Si sentiva un cavallo vero e proprio. Bisognava solo aspettare l’occasione… avrebbe potuto essere un pomeriggio d’estate… uno di quei pomeriggi caldi in cui, per far circolare un po’ d’aria, si srotolano le tende sui balconi e si lasciano le porte metà aperte. E allora senza incertezze, un salto e via, libera… libera per le strade del mondo, libera di galoppare, libera di correre, libera di incontrare altri cavalli liberi come lei.
E così fu. Semplicemente. Era uno dei primi giorni di luglio, un mercoledì, nelle prime ore del pomeriggio. Un balzo elegantissimo, e la sedia si ritrovò in strada… non c’era quasi nessuno, era troppo caldo, e tanta gente era già in vacanza. La sedia si ritrovò in strada, e la sua vita passata era già completamente dimenticata.
L’avvocato, i bambini, la signora, la domestica Martina, le sue cinque compagne… brucia vita passata, brucia! Freccia ora è libero. Cosa succederà in casa quando si accorgeranno della sua assenza? E chi se ne importa! Il futuro. Quello che conta è solo il futuro. E ora, avanti, via, diritto davanti a sé, verso le stelle dell’arco, al galoppo.
La sedia correva, ogni tanto qualcuno, in strada, vedendola arrivare si bloccava, si spostava, restava lì a bocca aperta, senza capire, e poi si guardava intorno… era uno scherzo? C’era qualche televisione nascosta che stava riprendendo le reazioni dei passanti? Dov’era nascosta la telecamera? ... certo… che idea, una sedia che corre da sola nella strada… ma come sarà il trucco? Ci saranno dei fili? Ma chi è che la muove? Forse è telecomandata… un robot… dev’essere una roba giapponese… anzi no, cinese… ormai i cinesi…
Ma la sedia ormai era passata, aveva girato l’angolo, e già non la si vedeva più.
Dove andava? Diritto. Diritto verso le stelle dell’arco. Diritto e lontano; lontano da quella casa, lontano da quelle strade del centro, lontano da quella prigione.

V

Le belle case del centro ormai non c’erano più; le strade ora, erano costeggiate solo da condomini grigi. Le saracinesche dei negozi erano ancora abbassate e piene di graffiti, quelli che i ragazzi disegnano di notte con le bombolette. Ogni tanto, tra un palazzo e l’altro si apriva qualche spiazzo, o addirittura un terreno incolto, in attesa di essere edificato.
A un certo punto, dopo le ultime case, in uno spazio decisamente più grande di quelli che aveva visto fin’ora… un recinto di transenne, carrozzoni e, al centro, un enorme tendone da circo a strisce bianche, blu e rosse, e tante stelle… e luci… luci intermittenti.
Fin’ora lei il circo lo aveva visto solo alla televisione. Si rese conto in quel momento, che un sacco di cose, lei le aveva viste solo alla televisione. Certo, a stare sempre e solo in salotto, più che la televisione non puoi vedere. Si ricordava che nel circo si potevano vedere giocolieri, trapezisti, acrobati, clown, … ma soprattutto, animali ammaestrati. Che emozione! Avrebbe finalmente potuto incontrare dei cavalli come lei! … Si, anche le tigri sono interessanti, e anche gli elefanti sono capaci di fare gli esercizi… gli elefanti, mio Dio, le venne in mente il sederone della padrona di casa… no, no… niente tigri, elefanti, foche o serpenti… cavalli! Lei voleva incontrare i cavalli.
Saltò le transenne, con facilità e sicurezza, come se non avesse mai fatto altro in vita sua, e si diresse senza esitazioni verso le gabbie in cui venivano tenuti gli animali tra uno spettacolo e l’altro. C’era una puzza nell’aria che rendeva l’ambiente poco gradevole. Se dobbiamo dire la verità… l’elefante aveva appena fatto trenta chili di cacca… certo è la sua natura… ma anche la puzza, è puzza.
Il primo animale che incontrò fu un pavone. Lo tenevano nel circo perché quando dovevano cambiare allestimento, tra un numero e l’altro, lui usciva, faceva il suo giro… e quando faceva la ruota c’era sempre il solito coro di “Oh”… ma non è che sapesse fare un granché.
La sedia gli si avvicinò. Il pavone, sentendosi osservato (anche se non capiva bene cosa stesse succedendo) si sollevò, si mise tutto impettito, e incominciò a camminare lentamente davanti a sé. Sembrava quasi che aspettasse che qualcuno gli chiedesse di fare la ruota… per poter rifiutare.
Gli piaceva farsi pregare. Alla sedia non passò minimamente per la testa di mettersi a pregare il pavone… aveva ben altro in mente, e quindi con una certa dose di ingenua insolenza domandò: “Scusa sai dove posso trovare i miei simili?”.
Il pavone rimase interdetto. Non capì. La sedia non gli chiedeva di fare la ruota? E soprattutto… di quali simili parlava? Altre sedie? A parte il fatto che nel circo c’erano le panche, e non le sedie… Rimase lì, immobile, con lo sguardo fisso nel vuoto… uno sguardo non molto intelligente, pensò la sedia; e allora ripeté la domanda, ma un po’ più chiara: “Scusa sai dove sono i cavalli?”.
Il pavone rimase ancora più interdetto; incominciò a emettere un verso strano… un gorgoglio che non si capiva. Sembrava gli fosse andato qualcosa a traverso. Forse aveva paura… ma non riusciva a gridare, forse cercava di ridere… ma non riusciva a respirare. Continuava così, impalato.
La sedia capì di avere incontrato un vero imbecille. Se voleva incontrare i cavalli doveva andare a cercarseli da sé, e così fece. Salutò il pavone e via. Passò accanto ad alcune gabbie: una con un paio di elefanti addormentati che non si accorsero neanche di lei; un’altra con delle scimmie che quando la videro incominciarono a urlare come delle pazze, terrorizzate; un’altra ancora con il leone che era impegnato con la leonessa… quando la vide si fermò qualche istante, poi come se niente fosse riprese a fare quello che stava facendo.
Finalmente, in un recinto, in uno spiazzo aperto, eccoli! Dodici cavalli lipizani: mantello grigio, sudati, ma elegantissimi… proprio come lei. Stavano riposando dopo il lavoro del pomeriggio… la loro domatrice li stava addestrando per un nuovo numero; roba che si fa solo all’Alta Scuola di Vienna. Adesso erano soli, e stavano aspettando che gli inservienti venissero con secchi e spazzole per strigliarli, ripulirli e rinfrescarli.
La sedia si avvicinò al recinto; era felice ed emozionata… non sapeva bene cosa dire… come rivolgersi a quegli splendidi animali. Rimase qualche istante in silenzio, sperando che fosse qualcuno di loro a riconoscerla e a rivolgersi a lei, ma nessuno le fece nemmeno un cenno.
Fu lei allora a farsi coraggio, e a prendere l’iniziativa: “Ciao ragazzi… io sono Freccia…”.
Le sue parole non suscitarono particolari entusiasmi; solo tre di loro si voltarono a guardarla sollevando un poco la testa. Sembrava che dicessero: “… parli con noi?”.
Freccia continuò: “… sono scappata di casa oggi pomeriggio e ho attraversato di corsa tutta la città… al galoppo…”.
Uno dei cavalli fece un cenno agli altri e si girò dall’altra parte; alla sedia sembrò di sentire una frase, sottovoce: “Non date confidenza… fate finta di niente…”.
La sedia non aveva certo il carattere di una che si arrende facilmente, e poi forse aveva sentito male. “Ragazzi, io sto andando a cercare le grandi praterie… lì potremo correre liberamente… lì non ci sono recinti e domatori con la frusta… lì nessuno vi costringerà a fare esercizi stupidi e faticosi… andiamo, venite anche voi, per voi scavalcare è un attimo!”.
I cavalli erano solo leggermente infastiditi; si scambiarono qualche occhiata perplessa e si allontanarono dalla zona vicina alla sedia quasi con indifferenza. Pochi istanti più tardi comparve un inserviente coi secchi e con le spazzole, e i cavalli gli andarono incontro immediatamente.
La sedia ci rimase molto male. Non le avevano nemmeno rivolto la parola… è vero, loro erano i lipizani; loro lavoravano nel circo; quando facevano le loro evoluzioni ricevevano applausi e zollette di zucchero, ma la libertà… la libertà è la libertà… e le grandi praterie…!
Restò a guardarli ancora qualche istante, poi incominciò ad allontanarsi… camminando.
Quando ebbe fatto una ventina di metri si fermò e si voltò indietro a guardare ancora una volta quegli splendidi animali.
Le sembrò che il grigio del loro mantello fosse più grigio che bianco… e le sembrò anche che uno dei cavalli, il più piccolo, forse il più giovane, si fosse girato a guardare verso di lei.

VI

La sedia era un po’ delusa, non possiamo negarlo. Si era immaginata che i cavalli avrebbero colto l’occasione, e sarebbero partiti tutti insieme.
Che cosa non aveva funzionato? Perché si erano comportati così? Qualche volta alla televisione aveva sentito parlare degli strani comportamenti e delle strane psicologie degli esseri umani, ma avrebbe scommesso che i cavalli come lei ragionavano in modo diverso.
Non aveva più voglia di correre oggi. Camminava con passo spedito, questo si, ma l'entusiasmo e la voglia di correre, per quel giorno erano passati.
Comunque era contenta. Le strade asfaltate erano finite. I condomìni erano lontani e si sentiva solo il profumo dell'erba e la freschezza della brezza della sera. Ormai stava camminando in mezzo ai campi da più di un'ora, quando si accorse che la sua strada si incrociava con una roggia; un canale in cui l'acqua che serviva ai contadini per irrigare i campi, scorreva abbastanza impetuosa.
Avrebbe potuto passare sull'altra sponda con un semplice balzo, ma sinceramente, ebbe un po' di paura… incominciava ad essere stanca; e se fosse caduta nell'acqua? Dove l’avrebbe trascinata la corrente? Non aveva paura di farsi male, ma di andare a incastrarsi in mezzo alle chiuse e rimanere bloccata lì. Era un rischio che, anche se altamente improbabile, non poteva assolutamente permettersi di correre. Meglio costeggiare il corso d'acqua fino a quando non avrebbe trovato un ponte o un punto in cui poter attraversare con sicurezza.
Si incamminò, e cominciò a guardare intorno a sé, quel nuovo paesaggio sconosciuto. Ben presto si trovò vicino a una serie di alberi che costeggiavano la roggia. Il sole stava tramontando, il vento passava in mezzo ai rami, gli unici suoni che si sentivano erano il fruscio delle foglie e il gorgogliare delle acque. Era bellissimo, e ormai aveva smesso di pensare ai cavalli del circo. Si fermò un istante; voleva godersi fino in fondo quella prima sera di libertà.
A un certo punto fece un sobbalzo; una voce irata le aveva intimato perentoriamente: “Allora te ne vai o no!?”. La voce veniva dall'alto… chi era che parlava? La sedia si voltò di colpo, e incominciò a guardare in mezzo ai rami.
“Non mi guardare, cretina!... guarda dall'altra parte del canale!”;
“Ma se tu sei sull'albero perché io devo guardare dall'altra parte del canale?”;
“Perché se tu guardi verso di me, mi scoprono, cretina!”
Due frasi, due “cretina!”. Chiunque ci fosse sull'albero certo non era qualcuno di simpatico.
“Scusa ma tu chi sei? E cosa ci fai sull'albero?”;
“Ma chi me l’ha mandata questa? Ma proprio a me, mi devi rovinare la giornata? È tutto il giorno che sto a far la posta a una pantegana che s’è nascosta sotto quel tronco, e mo’ arriva lei a prendere l'aria fresca della sera proprio davanti al pasto mio”;
“Scusa… io non volevo…”, ma la sedia non fece in tempo nemmeno a finire la frase che sentì un frullare d’ali, nervoso tra le fronde, riconobbe un falchetto che si allontanava veloce, e sentì ancora qualche parola: “Ma vattene!”.
Tutta la poesia della sera e del tramonto, era scomparsa di colpo.
“Il mondo fuori, è veramente diverso da come uno se lo immagina…”.
Infatti! Quello che successe in quel momento, non se lo sarebbe immaginato proprio, nemmeno se glielo avessero raccontato.
Tutto successe in meno di un secondo. Un topo lungo almeno trenta centimetri balzò fuori da sotto un tronco, afferrò qualche cosa nel fango e tirò con forza. Era la testa di un serpentello che cominciò a dibattersi per cercare di liberarsi, ma il topo lo aveva afferrato alla testa e non mollava. Subito apparvero altre due topi, e anche loro si buttarono sulla preda. Un paio di strattoni, e il corpo dell'animaletto era a brandelli. I topi, voracissimi, ingoiarono tutto in pochi istanti.
Fu a questo punto che il primo topo si rivolse alla sedia. “Grazie amica!... quel bastardo, era due ore che stava lì a farmi la posta… mi aveva beccato proprio mentre stavo per papparmi quel miroldino… ho fatto appena in tempo a imboscarmi sotto il ramo… e quell’altro lì, s'è acquattato nel fango… l’ho tenuto d’occhio tutto il tempo!...  porca miseria… il falco, a lui gli va bene tutto, se lo vedeva, se lo pappava lui… e invece ce lo siamo pappato noi! (e qui tutti e tre i topi risero di gusto)... grazie comunque, se non venivi tu, stasera io non lo so…”.
“Prego, di niente… e poi non l'ho neanche fatto apposta…”.
“Ma tu, che cavolo ci fai da queste parti?”, disse un altro dei topi.
“Io, sto andando verso le grandi praterie… sono un cavallo ormai, un destriero… mi chiamo Freccia… voglio combattere con gli apache…”.
E tre rimasero in silenzio qualche istante.
La sedia diceva di essere un cavallo.
“Karim, ma questa è fuori come un balcone”, disse il più piccolo dei topi, che frequentava le fogne della città, e aveva sentito che lì, quando uno è un po' pazzo si dicono frasi di quel genere.
La sedia capi, che il suo discorso poteva suscitare qualche perplessità, ma era anche sicura, che ben presto, superato il primo sconcerto, tutto sarebbe sembrato naturale anche ai topi.
“Sapete, io sono scappata di casa oggi pomeriggio, e ho attraversato di corsa tutta la città… al galoppo… sto andando a cercare le grandi praterie… lì potrò correre liberamente… perché non venite anche voi? Lì non ci sono falchi affamati … lì nessuno vi costringerà a nascondervi sotto i tronchi… lì saremo tutti liberi… andiamo… possiamo fare il viaggio insieme…”.
I topi erano molto in imbarazzo. La sedia li aveva tolti da una situazione incresciosa, e loro non volevano essere maleducati… ma questa ora delirava di cavalli, di praterie e di apache…
“Vedi, cara sedia, noi ti siamo molto grati per quello che tu oggi hai fatto per noi, e se ti capitasse di avere bisogno… noi sicuramente faremmo tutto il possibile per aiutarti… ci piacerebbe anche venire con te… a chi non piacerebbe vivere nelle immense praterie… coi purosangue… come te (“come te”, lo disse un po' sottovoce), e chi non vorrebbe combattere con gli apache… chi non vorrebbe… ma vedi noi siamo una grande famiglia, ora qui tu vedi solo me, mio cugino Elis, e suo figlio Kevin… ma io ho decine di figli, alcuni molto piccoli, ho alcune mogli… alcune più giovani, altre più vecchie, ho decine di fratelli, centinaia di nipoti, centinaia di cugini, migliaia di figli dei cugini… se noi venissimo, tutta la grande famiglia si dovrebbe muovere con noi… dovremmo avere l'approvazione degli anziani, e di tutta la tribù… noi abbiamo viaggiato molto prima di trovare questa terra in cui grazie a Dio, riusciamo a vivere in pace con quasi tutti… c'è qualche falchetto in giro, è vero, e in città c'è ancora qualche gatto che ci dà la caccia… ma più per gioco che per fame… lo fanno per fare contenti i loro padroni, ma tutto sommato sono dei buoni animali anche loro… insomma, per fartela breve… noi qui stiamo bene, qui abbiamo messo le nostre radici, questa è la nostra terra, qui ci sono le nostre fogne… se ce ne andiamo da qui, chi ci garantisce che troveremo un'altra terra accogliente e ospitale come questa? Ti ringraziamo ancora per quello che hai fatto per noi, ma non ti seguiremo; possiamo solo augurarti buon viaggio e buona fortuna. Addio”.
Detto questo i tre fecero un gesto di saluto con la zampa e di corsa scomparvero lungo le sponde del canale. Appena si furono allontanati un poco la sedia sentì delle risate sgangherate… qualcuno ripeteva qualche frase del discorso di Karim: “… a chi non piacerebbe vivere nelle immense praterie…”, e poi giù a ridere senza misura; “… grazie a Dio riusciamo a vivere in pace con tutti…”, e giù a ridere di nuovo.
“Forse mi hanno preso in giro…”, pensò la sedia… “… vabbè, ognuno è libero di vivere come gli pare… certo che preferire restare nelle fogne, piuttosto che andare a cercare le immense praterie… io proprio non lo capisco…”.

VII

Ormai si era fatta sera. Non c’era la luna, e con la luce delle sole stelle, si vedeva poco. Andare avanti poteva essere pericoloso. Avrebbe potuto urtare contro qualche ostacolo e farsi del male; oppure avrebbe potuto cadere e rimanere incastrata chissà dove… e se fosse finita nelle sabbie mobili, chi l’avrebbe soccorsa? Meglio restare ferma, riposare e aspettare la luce del giorno.
Scrutò con attenzione il cielo per trovare le stelle dell’arco e quando le trovò si sentì tranquilla; sapeva in che direzione andare. Era felice, anche se le esperienze di quel giorno erano state un po’ deludenti… ma domani!
Domani… il giorno dopo, la sedia si svegliò alle prime luci dell’alba. La prima cosa che vide fu un gatto rosso che la fissava. Si chinò leggermente verso di lui e lo salutò con un gentile “Buongiorno”. Quello non rispose, sbarrò gli occhi e incurvò la schiena. Temendo che lui non avesse capito, lei ripeté sempre gentilmente, ma con voce un pochino più sostenuta “Buongiorno”. Il gatto, sempre restando in tensione, non ricambiò il buongiorno, ma domandò; “Perché parli?”.
“Si lo so… sembro ancora una sedia, ma in realtà io sono un cavallo… sono un destriero bianco, libero e selvaggio. Sono scappato di casa per raggiungere le immense praterie, e combattere insieme agli apache…”.
“Sei… pazza?”, chiese seriamente il gatto, che si era leggermente rilassato, e era in preda a evidente perplessità.
“Non credo… no… non credo proprio”.
“Chi ti ha portato fino a qui? Perché ti hanno abbandonato?”.
“Non mi ha portato nessuno… sono venuta con le mie gambe”.
Silenzio incredulo del gatto.
“Guarda!”. La sedia girò su se stessa e poi avanzò di un passo verso di lui, che tornò a sbarrare gli occhi come all’inizio. La povera bestia era frastornata; non sapeva proprio cosa pensare; rimaneva lì e la fissava cercando di capire. La sedia pensò che non poteva restare lì tutto il giorno ad aspettare che quello capisse, e allora prese l’iniziativa: “Scusa, forse potresti aiutarmi… io dovrei passare oltre questo canale… ma ho paura che se faccio un salto in questo tratto che è così largo… se cado, poi la corrente chissà dove mi porta… sapresti dirmi dove trovo un passaggio per andare dall’altra parte del canale?”.
Il gatto si riprese un po’: “Ma certo… più avanti c’è un ponte… ci fanno passare sopra i mezzi agricoli della fattoria… se vuoi ti accompagno, tanto anch’io devo tornare…”.
“Volentieri, grazie!”.
La giornata era luminosa; il clima gradevole. In quelle ore della mattina non faceva ancora troppo caldo. I due camminavano in silenzio. Lei era contenta di avere trovato qualcuno con cui fare un pezzo di strada, ogni tanto dava un’occhiata tutt’intorno alla campagna, alla terra lavorata, riso, grano, mais, e stava ben attenta a non inciampare.
Lui cercava di capire… Se fosse andato in giro a raccontare che aveva parlato con una sedia… non solo!... ma l’aveva anche accompagnata al ponte sulla roggia… non avrebbe più potuto farsi vedere in giro per il resto della sua vita…
Si immaginava già le oche: “Ehi rosso, cos’hai fatto, questa notte… sei andato al gran ballo di Cenerentola con la credenza?... o sei rimasto a discutere di politica con le persiane?”.
No, no, no… silenzio… silenzio assoluto… non c’erano testimoni… nessuno aveva visto niente, nessuno sapeva niente… e se per caso qualcuno si fosse accorto di qualche cosa, e avesse messo in giro qualche voce: negare, negare, negare assolutamente”.
Arrivarono al ponte, lo passarono, e qui il gatto le indicò la cascina: “Bene io sono arrivato… quella è la fattoria… io abito là… ora devo andare”.
Non vedeva l’ora di uscire da quella situazione imbarazzante.
“Grazie… grazie per le indicazioni e per la compagnia… ma scusa… lì alla fattoria ci sono animali? C’è qualche cavallo?”; il gatto non avrebbe mai voluto sentir dire quello che la sedia disse subito dopo: “… magari potrei trovare qualcuno che vuol venire con me fino alle grandi praterie…”.
Povero gatto, era troppo confuso per avere la prontezza di spirito e il coraggio di dire una bugia; “Si, ci sono due cavalli, ma sono cavalli da tiro… hanno lavorato tutta la vita, non credo proprio che avranno voglia di mettersi in viaggio… per di più con una sedia…”;
“Io sembro una sedia, ma sono uno splendido destriero!”, rispose lei, risentita; “… e che altri animali ci sono alla fattoria…?”;
“Ci sono le oche… non ti auguro davvero di andare con loro… non sanno fare altro che spettegolare e prendere in giro tutti… insopportabili… io aspetto solo i mesi di ottobre e novembre, quando il padrone le piglia una a una, e gli tira il collo…”;
“Mamma mia, che orrore! …”;
“… dipende… quelli che le comprano fanno sempre i complimenti; le portano in Francia, le cucinano nei migliori ristoranti… con il fegato ci fanno il fois-gras… dicono che sia buonissimo… anche se io non l’ho mai assaggiato…”;
“Potrebbero scappare… venire via con me…”;
“Ma figurati! Quelle qui hanno da mangiare fino a scoppiare… il padrone gli dice sempre ‘mangiate, mangiate, che poi andate in Francia’, e loro, che sono un po’ sceme, non vogliono capire cosa gli succederà in Francia…”;
“Poverette… e altri animali?”;
“Ci sono i maiali, e le mucche… si credono molto importanti… con me non parlano… mi disprezzano, dicono che sono un parassita, che mangio a sbafo e non faccio mai niente…”;
“… perché? Tu lavori?”;
“Secondo te chi è che tiene lontani i topi da questa fattoria! I topi, solo a sentire il mio odore scappano… se la fanno addosso! Addosso, se la fanno!... Se non ci fossi io, sai, qui… qui non ci sarebbero più nemmeno le porte! Tutto mangiano quelli! Tutto! Ma qui non osano… lo sanno che qui c’è il Rosso! E il Rosso non perdona! Ma loro cosa vuoi che capiscano, loro! Mangiare, far figli, farsi mungere… le scrofe… buone quelle… loro che dicono a me che non lavoro… cosa fanno loro? Si accoppiano… fanno figli… poi si buttano in terra, nel fango… con le tette all’aria, a farsi succhiare dai piccoli… a me, quello che mi fa più schifo è come si buttano nel fango… stanno lì… magari c’è anche una cacca e loro si buttano sopra senza neanche guardare… vivono come delle bestie… se ti piace la puzza, diventa amica dei maiali…”.

VIII

Chiacchierando chiacchierando, erano arrivati all’entrata della cascina. Il gatto, arrossendo un po’, si rivolse alla sedia, che ormai era diventata sua amica e: “Scusa… per favore… potresti restare un po’ indietro? Se mi vedono con te… per me qui è finita… non ti offendere… te l’ho detto… gli altri non capiscono…”;
“Hai ragione. Sei stato così gentile con me… capisco… non voglio metterti in imbarazzo, vai pure avanti”;
Il gatto si era allontanato di soli tre metri, e subito si sentì una voce orrenda:
“Tel ki, ke l’è riat! Ol resta ‘n gir tutta la notte… e po’, quan ke’l gh’ha fa i so comodi tel ki k’ol s’ fa vet… malnat d’un malnat!” [1] ; e dopo una brave pausa, dopo aver notato la sedia poco distante:
“Ki el, ke l’gh’a purta ki quela cadrega qua?” [2] .
Una roba orrenda si allontanò rapidamente: si capiva che era una donna solo perché aveva la veste che lasciava scoperti i polpacci, e davanti, sulla pancia rotonda, aveva un grembiulaccio tutto unto.
La sedia si sentì in pericolo. Si guardò in giro; non c’era nessuno. Anche il gatto era scomparso. Si spostò dalla parte opposta a quella in cui era andata la donna e si ritrovò vicino alla porcilaia.
Aveva ragione il gatto. Una scrofa enorme, lurida, sonnecchiava distesa a terra, mentre sette piccoli maiali succhiavano dalle sue tette. Freccia avrebbe voluto chiamarla, invitarla a partire con lei, ma non sapeva nemmeno come iniziare il discorso. Si fece coraggio: “Senti!... senti!...”.
L’animale infastidito, aprì un occhio, sollevò un pochino la testa, la guardò. Sembrava che dicesse: “Non vedi che ho da fare!?”, e si rimise giù.
“Vabbè, io c’ho provato”, disse tra sé e sé la sedia. Si guardò in giro; vide la donna orrenda che stava tornando indietro con il grembiulaccio tenuto per i capi… dentro c’era qualcosa che non vedeva. Quando passò vicino a lei si fermò un istante; si guardò intorno come a cercare qualcuno… si stava chiedendo sicuramente chi era, che aveva spostato la sedia. Per fortuna aveva le mani occupate e quindi si allontanò senza fare nulla.
Quella… poteva essere pericolosa; bisognava urgentemente mettersi in salvo. Freccia si mise a correre in cerca di un posto più riparato; un posto, soprattutto, in cui la donna non potesse rivederla. Stava ancora correndo quando da un recinto lì vicino si alzò uno strepito tremendo.
Un’oca l’aveva vista passare e aveva cominciato a urlare: “Attenti, attenti! C’è un mostro! Un extraterrestre! Attenti, attenti!”. Si era tutta allungata col collo teso verso l’alto.
Ben presto tutte le altre oche erano in piedi e urlavano… non si capiva assolutamente nulla.
Tutta la cascina risuonava delle loro grida.
La sedia si infilò in una stalla. Era spaventata; si, bisogna ammetterlo. “Accidenti… la cascina è un luogo veramente pericoloso!”.
Si guardò in giro; nell’aria ristagnava una umidità calda e densa. Centinaia di mosche ronzavano passando dal fieno alle pareti, dalle grandi torte di cacca, agli animali… quando qualcuna si posò su di lei fu percorsa da un brivido e provò una sensazione di ribrezzo.
Si fece coraggio e si rivolse a una grossa mucca che era lì vicino all’ingresso: “Ciao… come ti chiami?”;
“Non vedi che sto mangiando?”;
“Volevo solo sapere come ti chiami… io mi chiamo Freccia… sembro una sedia, ma sono un cavallo… anzi un destriero… sto andando alle grandi praterie… lì potrò correre liberamente…”;
“E allora?”;
“… Magari, se c’è qualcuno che vuol venire con me… tanto per non fare la strada da solo… non ti piacerebbe venire alle grandi praterie?”;
“Ma non vedi che, a giorni, devo partorire? Che testa c’hai?”. La grande mucca scosse il testone.
“Comodo, andare in giro, a far niente… e poi cosa mangiano, la gente… io qui lavoro, ho sempre lavorato… un vitello ogni due anni e più di sessanta litri di latte al giorno… tutti i giorni! Qui non c’è sabati né domeniche… mangiare, far latte, far vitelli…”;
“E ti piace?”;
“Certo!... Ma vuoi mettere la soddisfazione quando viene il contadino e lo senti che dice: “Va’ che bel vitellino che c’ha fatto, anche quest’anno, la Lola… brava la Lola, brava!”… e ti dà una bella mano sul culo… sono soddisfazioni…”;
“Capisco, capisco… e naturalmente qui tutte le tue compagne la pensano come te…”;
“Certo! Noi lavoriamo… tutti… abbiamo sempre lavorato… qui non c’è nessuno che ha grilli per la testa! Se non si lavora non si mangia”;
“Capisco… e allora, buon lavoro…”;
Un tafano orrendo si era posato sul suo tessuto e cercava di mangiare un pezzetto di fibra. Freccia doveva uscire il prima possibile da quel posto terribile; sperava solo di non incontrare di nuovo la donna col grembiulaccio.
“Dai vieni via… vieni di qua”;
Era la voce del gatto che se n’era stato nascosto in un angolo e aveva sentito tutta la conversazione.
“Ciao Rosso!”;
Freccia lo seguì all’aperto; finalmente aria pulita e luce! Le mosche rientrarono nella stalla; le oche stavano cominciando di nuovo ad agitarsi, ma prima che qualcuna di loro si mettesse di nuovo a starnazzare il Rosso le zittì di prepotenza con un perentorio “Ferme, stupide! E zitte, cretine!”.
Quelle rimasero lì impalate, attonite, gorgogliando.
Rosso, che conosceva ogni angolo della cascina, condusse con sicurezza, Freccia fuori da quel posto. Passarono anche davanti ai due vecchi cavalli; stavano lì in un recinto; c’era una vasca con un po’ d’acqua e un mucchietto di fieno, in un angolo. Sonnecchiavano, stanchi; aspettavano. La sedia li guardò ed ebbe pietà di loro. Ormai la libertà per loro…
“… Senti Rosso… perché non vieni tu, via con me… ce ne andiamo insieme… andiamo a cercare le immense praterie…”.
Il Rosso si fermò un istante: “Io ho già la mia libertà. Vado, vengo… quando voglio, dove voglio… qui in giro è pieno di gatte… e io faccio quello che mi pare… qui c’è sempre qualcosa da mangiare per me… non prendo ordini da nessuno… tutti mi rispettano. Non desidero niente di più di quello che ho già”.
Ripresero a camminare; “Hai ragione… perché rischiare, non si può mai sapere quello che può capitare in viaggio…”;
“Ora vai avanti fino alla fine del muro; là gira a destra… e buona fortuna”, e detto questo si girò e tornò dentro la cascina. Gli dispiaceva un po’ che la sedia se ne andasse; non aveva mai parlato con nessuno, come con lei. Si sentiva cambiato, e sapeva che non l’avrebbe dimenticata mai.
Freccia arrivò in fondo al muro, guardò a destra e sentì, anche se non le vedeva, che le cinque stelle dell’arco stavano laggiù. Forza, il cammino continua.

IX

In direzione della strada non si vedevano altro che alberi e campi coltivati; doveva fare la strada da sola, ma insomma, meglio che correre certi rischi…
Freccia camminò qualche ora; era felice, e ogni tanto si faceva anche una corsetta; si immaginava di essere già nelle immense praterie, di saltare un ostacolo, di salire su una roccia e dall’alto, davanti alla luna, restare ad ascoltare il fiume che scorreva giù nel canyon. Che gioia sentiva nel profondo dell’anima!
A un certo punto, era salita in cima a un cumulo di terra, vide passare nella strada un furgone. Sulla fiancata una scritta: Istituto ricerche medico-scientifiche.
Strano. Dove andava in piena campagna un furgone dell'istituto per le ricerche mediche e scientifiche? Freccia si lanciò all'inseguimento; è vero che restava indietro, anche se il furgone sulla strada di campagna procedeva lentamente; tuttavia la strada era una sola, e non poteva sbagliarsi. Dopo qualche centinaio di metri, ecco il furgone fermo davanti a un cancello. Sulla recinzione, sovrastata da un triplo in giro di filo spinato, un cartello: Centro allevamento e addestramento cani da guardia. Il furgone aveva suonato e qualcuno era uscito ad aprire il cancello.
Il furgone era entrato. La sedia si avvicinò e rimase a osservare la scena. Gli uomini avevano aperto il portellone posteriore e stavano facendo salire… due, quattro, sei, otto… cani. Quelli non sembravano proprio cani da guardia… e cosa se ne facevano all'istituto per le ricerche mediche e scientifiche di otto cani da guardia? Freccia era una sedia, o forse un destriero, forse era un'ingenua piena di speranze che credeva di poter realizzare i suoi sogni, ma certo non era una stupida.
Il destino degli otto cani aveva un nome ben preciso… vivisezione.
Freccia era un'ingenua, ma certo non le mancava il coraggio, e in certi casi non aveva dubbi su quale fosse la cosa giusta da fare. Doveva avvisare i cani. Doveva fermare il massacro.
Il portellone fu chiuso; il guidatore e l'uomo del canile firmarono alcune carte, si strinsero la mano e si salutarono: “Ci vediamo fra quindici giorni!”; “Ci vediamo”.
Il furgone ripartì, uscì dal cancello; l'uomo che era rimasto uscì un momento sulla strada, si guardò intorno per controllare che non ci fosse nessuno a dar fastidio… non si accorse neanche di Freccia; chiuse bene il cancello e se ne tornò dentro all'edificio.
Freccia diede un'occhiata alla recinzione… guardò con determinazione il filo spinato… questo era il momento! Avrebbe saltato! C'era da compiere una missione… salvare decine di cani innocenti… lo avrebbe raccontato ai cavalli degli apache… di quella volta che lei, senza paura di farsi male, senza paura di ferirsi, aveva saltato sul recinto… e loro l’avrebbero ammirata.
Si allontanò di una ventina di metri dal recinto; guardò con determinazione l’ostacolo da saltare, raccolse tutte le proprie energie… e via! Rincorsa, balzo!... vide sotto di sé il filo spinato… le sembrava che si sporgesse per strapparle la tela… ma un vero destriero nei momenti decisivi non commettere errori… atterrò dall'altra parte, persino con una certa eleganza… peccato non ci fosse stato nessuno a vederla! Ma non era certo quello il momento di compiacersi della propria abilità. Incominciò a spostarsi intorno al caseggiato cercando un varco… cercando le gabbie dove venivano tenuti gli animali. Le trovò quasi subito. Andò alla gabbia dove erano tenuti gli animali più grandi… i quali, non capendo cosa stesse succedendo, incominciarono a scoprire e digrignare i denti. Evidentemente credevano di essere terribili. Alla sedia invece non facevano particolarmente affetto… e poi lei sapeva… era lì per una missione, per un salvataggio… doveva solo spiegarsi:
“Ragazzi… ho scoperto una cosa terribile… voi credete che vi stiano allevando per mandarvi a fare i cani da guardia… ma non è vero…”;
“E tu chi sei?... Chi ti ha mandato?... Questo è un centro di addestramento segretissimo… come sei arrivata fin qui?”;
“Occhio ragazzi… deve essere un provocatore mandato qui per metterci alla prova”;
“… E quale sarebbe secondo te il motivo per cui ci stanno allevando?”.
I tre cani che avevano parlato, appena finita la loro frase, tornarono a mostrare i loro denti aguzzi e a minacciare.
“Vivisezione… ho appena visto, un furgone dell'istituto per le ricerche mediche e scientifiche, portare via otto di voi… e ho sentito dire pure che si rivedono fra quindici giorni… tra quindici giorni vengono qui a prendere altre cani… cosa se ne fanno ogni quindici giorni di otto cani da guardia?”;
“Balle! Cani della nostra razza, cani della nostra forza… cani con denti come i nostri… non si sprecano per fare esperimenti…”;
“Noi siamo riconosciuti per la nostra fedeltà ai nostri padroni… tutti sanno quanto siamo affidabili… e cattivi!”;
“Noi siamo dei guerrieri… i migliori… e tu chi sei? Chi ti dà il permesso di venirci a parlare in questo modo?”.
Freccia non si era certo immaginata un'accoglienza di questo genere. Stava per mettersi raccontare tutta la storia… che lei sembrava una sedia… ma era un destriero… e stava andando a cercare le immense praterie, ma sentì… sentì che quelli non avrebbero voluto capire.
Avrebbe voluto dire che quello che stava facendo, lo faceva solo per amore della libertà, della verità, della giustizia… ma sentì che ai loro occhi sarebbe apparsa solo come una sedia patetica e ridicola. E allora tacque. Si allontanò pensando: “Poveretti… credono di essere poliziotti, credono di avere delle responsabilità, credono di essere amati e rispettati dai loro padroni e invece... sono solo carne da macello. Poveretti… si poveretti”.
Ormai stava scendendo la sera… tra poco, in cielo sarebbero apparse le cinque stelle della costellazione dell'arco. Doveva andare. Questa volta non prese nemmeno la rincorsa… fece due passi e saltò ancora più in alto di quanto non avesse saltato per entrare.
“Io non ho bisogno di nessuno… io posso benissimo andare anche da sola… io so benissimo quello che voglio e dove voglio andare… e ci vado!”.
Si allontanò dall'allevamento, guardò in cielo le cinque stelle, si sentì un po’ delusa,  e capì che era giunto il momento di riposare.

X

Le luci dell'alba non erano ancora comparse, e Freccia sentì vicino, un intenso scalpiccio; non solo, si sentivano anche i suoni di campanacci, ma leggeri. Si guardò intorno nel buio e vide, non lontano da dove si era sistemata un gregge di pecore sonnolente che con gli occhi semichiusi strappavano ciuffetti d'erba e avanzavano lentamente, una accanto all'altra, sorvegliate dai cani pastore, precedute da due asini. Gli asini portavano delle sacche e seguivano due uomini, i pastori, che erano avanti di un bel pezzo, e stavano seduti su un tronco d'albero, ad aspettare, sonnecchiando anche loro.
La sedia restò a guardare per qualche istante. Le avrebbe fatto piacere che qualcuno si accorgesse di lei e le rivolgesse la parola. Dopo tutto non era così naturale trovare una sedia sola soletta, in aperta campagna… ma nessuno lo fece.
“Forza”, si disse, “… facciamoci vedere!”.
Quattro salti, e si trovò subito vicino al gruppo. Naturalmente le pecore a cui si avvicinò si spaventarono e senza nemmeno stare a sentire, si misero a scappare diritto davanti a sé. Le altre, che non l’avevano nemmeno vista, vedendo quelle che scappavano si misero a scappare anche loro… qualcuna, non si capisce nemmeno perché, incominciò a belare come se stesse correndo chissà quale pericolo. Gli asini si fermarono, e restarono lì ciondolando la testona e pareva che si chiedessero: “… ma cos'hanno queste da agitarsi così?”. In queste situazioni sapevano che bisognava aspettare che i cani pastore ricomponessero il gregge, e che le pecore ricominciassero a brucare tranquillamente. La sedia fece ancora qualche passo. Fu uno degli asini che, a quel punto, dopo aver esitato qualche istante, si rivolse a Freccia: “Tu ti muovi da sola? Puoi capire quello che ti dico?”;
“Si, certo, mi muovo da sola, capisco quello che mi dici e posso anche parlare…”;
“… e cosa ci fai in questo posto sperduto?”;
La sedia gli raccontò tutta la storia che noi sappiamo già, del cavallo Freccia, delle grandi praterie eccetera eccetera… “…e voi dove state andando?”;
“Stiamo facendo la transumanza… la facciamo ogni anno; in primavera scendiamo verso la pianura, adesso invece stiamo andando verso le colline e le montagne per trovare nuovi pascoli verdi per le pecore… ogni giorno ci spostiamo di qualche chilometro e all'inizio dell'autunno saremmo arrivati”;
“… e quindi fate sempre la stessa strada? Tutti gli anni? Avanti e indietro?...”;
“Si, sono i pastori che decidono…”;
“Non vi piacerebbe venire anche voi alle grandi praterie? È  vero, non siete dei destrieri… ma sareste liberi anche voi…”;
I due asini restarono qualche secondo in silenzio… uno scosse leggermente il testone, guardò l’altro: “… certo… certo sarebbe bello…”; e anche l’altro, scosse il testone.
Nel frattempo, i cani, dopo aver calmato e ricomposto il gregge si erano avvicinati; scrutavano in quello spazio semibuio per cercare di capire quella situazione che evidentemente non gli era mai capitata prima e ascoltavano con attenzione.
Freccia si rivolse anche a loro con gentilezza “… e voi come vi chiamate?”;
I cani non erano del tutto convinti… tuttavia: “Io sono Rocky, mi hanno chiamato così, come il pugile, perché fin da piccolo ero il più forte… lui invece si chiama Ciro… adesso è ancora giovane, sta facendo pratica, ma quando io mi ritirerò sarà lui a controllare il gregge… la piccola invece si chiama Beba… è furba… è sveglia… e ha un sacco di coraggio… una volta ci ha visto mentre passavamo, si è attaccata e non se n’è andata più…”.
A questo punto intervenne un asino: “Lei sta andando alle grandi praterie… dev’essere bellissimo… a me piacerebbe… andiamo anche noi!”;
Rocky ringhiò come se avesse visto un lupo aggredire gli agnellini: “Voi non andate da nessuna parte! Non azzardatevi a fare un passo, se non volete che chiami i pastori e vi faccia riempire di legnate!”;
“Ma non è giusto!”, cercò di ribattere l’asino, ma tutti e tre i cani cominciarono ad abbaiare con tale cattiveria che i due poveri somari si girarono e scapparono in direzione dei pastori, dove evidentemente si sentivano più al sicuro. D'altronde, quando un cane abbaia in quel modo, non è che ci sia da discutere più di tanto.
Ci fu qualche istante di silenzio, carico di tensione:  “Peccato che state andando in direzione opposta a quella in cui sto andando io… io vado verso le cinque stelle dell'arco… vedete laggiù?”, disse la sedia in tono conciliante.
I cani si voltarono a guardare nella direzione indicata dalla sedia, e con il capo, fecero cenno di aver capito.
“Sono sicura che andando in quella direzione troverò le grandi praterie dove vivono i destrieri liberi e selvaggi come me…”.
I cani si guardarono tra di loro; Rocky diede agli altri un'occhiata che significava: “Lasciamoglielo credere, basta che non metta più strane idee in testa ai nostri asini…”, poi la guardò, fece cenno di sì con la testa, e tutti e tre tornarono alle loro posizioni di guardia, a controllare il gregge.
Le cinque stelle della costellazione dell’arco incominciavano a scomparire nelle prime luci dell’alba. La sedia si incamminò.

XI

Quel giorno non fece incontri particolari. Dovette attraversare un bosco, e lì trovò solo piccoli animali, indaffarati a raccogliere semi e ghiande da portare nelle loro tane. C’erano scoiattoli, ghiri, uccellini, qualche vipera, una volpe coi piccoli… da lontano vide anche passare un grande cervo con la sua famiglia. Il cammino si faceva sempre più difficoltoso, non solo perché il bosco era sempre più fitto, ma anche perché il percorso era sempre più in salita; a volte, doveva fare dei lunghi giri perché c’erano rami spezzati o tronchi caduti che ostruivano il passaggio.
Non le piaceva quel pezzo di strada; aveva paura di ferirsi, di strappare la tela del sedile o dello schienale, cioè di rovinarsi il mantello… e poi, insomma, lei aveva sempre vissuto in un salotto, quell’ambiente lì le faceva un po’ di paura.
Camminò tutto il giorno senza riposarsi; alla sera, finalmente, quasi di colpo la foresta si diradò, e Freccia si ritrovò di fronte a una piana verde… grandissima… lontanissime si vedevano delle montagne, coperte di neve sulla cima. Restò lì a guardare, con il cuore che le si riempiva di gioia… che silenzio, che aria pulita!
Certo sapeva che quella piana non era la grande prateria… ma ci assomigliava abbastanza.
Voleva riempirsi gli occhi e la mente di tutto quello che vedeva, di tutto quello che sentiva, in quel momento… un momento meraviglioso da ricordare tutta la vita.
In mezzo alla piana scorreva un corso d’acqua, e accanto una strada, ma non c’erano auto che la percorressero; a un certo punto la strada passava sopra il torrente; dopo quell’incrocio, i loro cammini si divaricavano.
Restò lì, ad aspettare che la luce del giorno svanisse e le stelle si accendessero, a una a una nel cielo sereno. Vide la costellazione dell’arco splendere davanti a lei; le sembrò che non fosse mai stata così luminosa e in cuor suo, la ringraziò di averla guidata fino a quel paradiso in terra. Guardava il cielo… guardava nella piana che oramai era diventata nera, e pensava che il giorno dopo, finalmente, avrebbe incontrato i destrieri liberi e selvaggi, e si sarebbe unita a loro.
Era emozionata, e non riuscì ad addormentarsi fino a tarda notte.
Al mattino, quando si svegliò, il sole era già alto. La piana splendeva davanti a lei, e quello che vedeva in quel momento era la prova che non si era sbagliata; il suo sogno era diventato realtà; le stelle dell'arco l'avevano guidata esattamente là dove lei voleva andare.
Là, vicino al fiume, in un ansa, un branco di cavalli si stava abbeverando tranquillamente.
Erano loro i destrieri liberi e selvaggi per i quali lei aveva fatto tutto il viaggio… ora finalmente si sarebbe unita a loro, e insieme avrebbero corso su tutta la piana.
Si gettò al galoppo verso di loro, saltò dei cespugli, volò sopra alcune rocce che sporgevano dal terreno, si sentiva forte, sentiva finalmente, di essere riuscita ad essere se stessa.
Attraversò tutta la distesa; si avvicinò agli altri destrieri (… da vicino erano bellissimi), e nitrì.
Quelli si scossero appena… alcuni la guardavano con un sorrisetto…
“Cos'è sta roba…”;
“Non ho idea… dev'essere uno scherzo…”;
“No, non sono uno scherzo…” e raccontò tutta la sua avventura, fin da quando viveva nella casa dell'avvocato, e quando era scappata, e tutti gli incontri, e il circo, e la fattoria, e il bosco… insomma, tutto il racconto di tutto quello che le era successo fino a quel momento; il momento in cui il suo destino si era compiuto.
Durante tutto suo racconto, qualcuno ogni tanto ridacchiava; qualcuno scuoteva la testa; qualcuno ascoltava incredulo con sguardo fisso sulla sedia, o nel vuoto.
Quando ebbe finito di raccontare, uno dei cavalli, un capo, il più vecchio forse, scosse la testa: “Non ho mai sentito niente del genere… è una storia veramente incredibile… francamente non so che cosa dovremmo fare…”;
“Non dobbiamo fare niente… quella è una sedia, e noi non possiamo accettarla tra di noi!”.
“Se accettassimo questa sedia nella nostra tribù, diventeremmo gli zimbelli della pianura…
Diventeremmo la tribù della sedia!”
E rivolgendosi a lei: “Patetica! Ma come puoi pensare di essere diventata un cavallo… come puoi pensare che qualcuno possa prenderti per un cavallo…”;
“Non un cavallo… un destriero… e magari le piacerebbe… anzi, gli piacerebbe anche sposarsi con qualche cavalla delle nostre!”;
L’ultimo che parlò disse: “Ma dove pensi di andare… con quelle zampette di legno?”.
Questa volta Freccia si offese a morte.
Non potevano trattarla così! Non potevano, anche loro, essere così stupidi da considerare solo le apparenze più banali! Non meritavano nemmeno una risposta; lei era molto più destriero di loro; loro erano nati, così, e non avevano fatto niente per meritare di essere quello che erano; loro non avevano mai inseguito un sogno, come aveva fatto lei; lei aveva voluto diventare un destriero; aveva lavorato, per diventarlo… e non sarebbero stati certo loro a farla tornare indietro!
Freccia si voltò; lanciò un nitrito, si alzò sulle zampe posteriori e si lanciò al galoppo. Una corsa solitaria e meravigliosa… si diresse verso i confini della piana, saltando tutti gli ostacoli senza alcuna esitazione, con una eleganza da gran prix, e poi via, ancora, lungo tutto il confine… via, via, via… andava così veloce  che nessuno di quei destrieri là al fiume avrebbe potuto starle dietro; via, via, via… senza fermarsi mai, e nessuno di quelli avrebbe avuto la sua resistenza; via, via, via… per tutta la giornata… non un momento di stanchezza, non una goccia di sudore!
Qualche lacrima, si.
Qualche lacrima che si mescolava con le prime gocce di pioggia.
Non si era nemmeno accorta che nel pomeriggio grossi nuvoloni si erano addensati sopra la piana e ora cominciava a piovere.
Era delusa, ma non aveva perso la sua lucidità. Doveva trovare un riparo, altrimenti la sua tela si sarebbe bagnata tutta… il legno si sarebbe piegato… si sarebbe tutta deformata, avrebbe fatto fatica a correre… le sarebbe venuta una specie di artrosi, e avrebbero dovuto abbatterla.
Doveva raggiungere una specie di baita che aveva visto durante il pomeriggio… non era tanto lontana da lì… via un’ultima corsa, ed eccola al sicuro!
La porta era semplicemente accostata; aprì ed entrò. Basta ora poteva riposare… domani, via, a cercare nuovi orizzonti, altre praterie, altri incontri. Arrendersi: mai!
Si mise a riposare… sognava di guerrieri pellerossa e di battaglie… sognava villaggi, mandrie di bufali, recinti; albe e tramonti; l’aria calda del giorno e il vento fresco della notte… sognava.

XII

Sognava. Ad un certo punto avvertì una sensazione di calore che non aveva mai provato prima. Era un calore che invadeva tutto il suo corpo e lo trasformava. Un calore che partiva dallo schienale, e dallo schienale scendeva giù al sedile, e dal sedile, ancora più giù alle gambe. Il suo corpo si stava trasformando… Lo schienale era diventato più forte, robusto… un bellissimo collo, e ora stava spuntando una magnifica criniera grigia… quasi bianca! Il sedile si era arcuato, e stava diventando una schiena robusta, che avrebbe potuto sorreggere qualunque guerriero apache… e le gambe… le gambe… altro che quattro zampette di legno! Le gambe si stavano trasformando in quattro zampe forti, lunghissime ed eleganti. Scosse la testa e nitrì. Un nitrito che si sentì in tutta la piana, un nitrito che echeggiò in tutte le valli vicine, e anche oltre, fino alla città. Tutti si svegliarono; qualcuno ebbe anche paura. Freccia invece si sentiva… come dire? Liberata!
Usci dalla baracca, batté lo zoccolo sulla terra… e la terra echeggiò tutta; si alzò sulle zampe posteriori e lanciò un nuovo nitrito… era un nitrito di gioia, ma per alcuni suonò come un grido di guerra. Le nuvole erano scomparse; le stelle luminosissime brillavano in cielo; Freccia si lanciò al galoppo verso la costellazione dell’arco; le sembrava che con un balzo potesse raggiungerla. E allora saltò! Che forza! Che leggerezza! Sentì che si stava sollevando… leggera, leggerissima… si, con quella leggerezza che aveva sempre sentito nel profondo della sua anima.
Il suo balzo stava attraversando tutto il cielo. E tutti la videro… tutti!
La videro i cavalli della piana, che si abbeveravano all’ansa del fiume.
La videro i piccoli animali del bosco, che non l’avevano nemmeno considerata.
La videro Rocky, Ciro e la Beba… e gli asini, e le pecore, e anche i pastori.
La videro i cani dell’allevamento, e capirono, e furono presi da terrore.
La videro il Rosso, le oche, la scrofa, la mucca che aveva appena avuto il vitellino, e sapeva che tra qualche settimana glielo avrebbero portato via… e la videro anche le mosche e i tafani.
La videro il falco e i topi di fogna, che erano usciti quando avevano sentito il nitrito.
La videro gli animali del circo: l’elefante e le tigri, e i cavalli lipizani, che quella sera non avevano ricevuto neanche tanti applausi, e il pavone, che restò li a becco aperto, a gorgogliare ancora una volta.
La videro i passanti che aveva incontrato per le strade della città.
La videro, dalla loro casa in Liguria, l’avvocato, e i suoi figli, e la signora, e la domestica Martina, e la videro anche, attraverso la finestra da cui Freccia era scappata, le altre cinque sedie del salotto.
Tutti capirono in quel momento che accanto a loro non era passata una sedia qualunque; era passata una sedia con un’anima, e con un sogno; e con la forza di credere nel suo sogno, e di non tradirlo mai…  Freccia era una sedia straordinaria… e loro non lo avevano capito…
Freccia si voltò indietro, prima di spiccare il balzo finale, verso le stelle dell’arco… guardò la terra, e la piana, e la baita dove aveva trovato riparo per quell’ultima notte da sedia. Si accorse in quell’ultimo istante che lì, avevano trovato riparo anche due uomini… due pastori? Due pellegrini? Due vagabondi?
Chiunque fossero, avevano freddo e si stavano scaldando davanti al fuoco… e nel fuoco stava bruciando una vecchia sedia.




Luigi Alcide Fusani
           
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[1] Eccolo qui, che è arrivato. Se ne sta in giro tutta la notte, e poi, quando ha fatto i suoi comodi, eccolo qua che si fa rivedere, malnato che non è altro
[2] Chi è che ha portato qui questa sedia qua?

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