mercoledì 11 gennaio 2012

l'improvviso di vigevano

L’improvviso di Vigevano
ovvero
La lettera del professore

Di Luigi Alcide Fusani

* * *


Le parti sottolineate sono indicazioni e didascalie, e quindi non vanno “recitate”
Le parti in rosso indicano la conversazione tra le ragazze
Le parti in nero costituiscono il testo della lettera del prof.

* * *

Le ragazze entrano in scena, guardano in fondo, dietro il pubblico, come si cercassero di riconoscere qualcuno e ogni tanto chiamano, senza alzare la voce, quasi sottovoce.
  • Professore... Professore... Professore noi vorremmo fare ancora teatro...
Attendono qualche istante come aspettando una risposta. Silenzio.
  • ... non può rispondere... non ci sente neanche... è troppo lontano... sono quasi 1000 km.
Ancora qualche istante di silenzio, poi...
  • ... ma cosa dite... come pensate che il professore possa averci dimenticate... si, certo 1000 km sono tanti, e non può sentirci come se fosse qui... ma vi ricordate cose ci disse prima di partire: “voi sarete sempre nel mio cuore”, e lui col cuore ha sentito che lo chiamavamo anche prima che noi lo chiamassimo... e ha già risposto... mi ha mandato un e-mail... un e-mail con il testo dello spettacolo che adesso faremo...
  • Uno spettacolo tutto per noi?
  • Si solo per noi... solo noi possiamo recitarlo... ci sono i nostri nomi, e non si possono cambiare !
  • ... ma per la regia... come facciamo senza di lui?
  • Come al solito... camice e pantaloni neri... e parliamo così... sempre guardando il pubblico ma senza recitare... come se stessimo chiacchierando tra di noi... come se stessimo chiacchierando con lui...
  • Proviamo...
  • Va bene... comincia a leggere...
  • (legge) Ciao ragazze, e ciao ragazzi, se c'è anche qualche ragazzo... non so esattamente quanti sarete ad essere impegnati in questo spettacolo, per cui non scriverò io chi deve dire le diverse battute. Questo dovrete deciderlo voi. Immagino che sicuramente ci sarà Gabi, Timi, Anita... spero che ci siano anche Attila e Haini... e anche Agi, e Eszter... e tutti quelli del nostro Orlando glorioso...
  • Orlando Furioso!
  • Sì lo so che sarebbe Orlando Furioso, ma siccome è stato lo spettacolo del nostro più grande successo.... al concorso di italiano, a Zagabria, a Belgrado, a Trieste... vi ricordate che bello a Trieste... eravamo arrivati tutti timorosi, avevamo paura di fare brutta figura... gli altri erano italiani, recitavano nella loro lingua, noi dovevamo recitare in italiano davanti a degli italiani... al pomeriggio avevamo assistito alle prove... tutti si divertivano molto, scherzavano, si conoscevano tutti... alla sera io, sono salito sul palco per presentarvi... per prevenire il pubblico, avevo paura che davanti a qualche accento sbagliato, davanti a qualche parola pronunciata in modo ridicolo, i ragazzi italiani avrebbero cominciato a ridere e a prendervi in giro... e invece quando siete uscite, e avete cominciato, nei nostri costumi bellissimi, con il nostro testo preciso, poetico, perfettamente recitato... nella sala è successo il miracolo... il silenzio... quel magnifico silenzio, teso... teso e denso, pieno di stupore e di meraviglia, i ragazzi italiani erano incantati... non ce n’era uno solo che si distraesse... nessuno, studente, professore, organizzatore... nessuno perdeva nemmeno una parola di quello che stavate recitando...  e voi eravate bellissime, lassù, sul palco, decise, precise... una macchina da guerra... e stavate vincendo...
Poi a un certo punto Anita ha detto quella battuta... com’era...?
  • “... gli uomini quando devono prendere una donna povera e indifesa, riescono subito a superare qualunque differenza di razza e di religione... ”
  • E allora una ragazza del pubblico... che sicuramente era d’accordo ha gridato “Giusto! Brava!” e tutti sono scoppiati a ridere, e non è stata la prima volta... prima della fine dello spettacolo risate, applausi, entusiasmo... alla fine non smettevano più di applaudire...e quando io sono arrivato sul palco dietro le quinte per dirvi che eravate state bravissime... c’erano alcuni ragazzi delle altre scuole di Trieste, ragazzi che partecipavano al concorso che mi hanno accolto dicendo “... meno male che voi eravate fuori concorso... altrimenti premi per noi non rimanevano!”.
E il giorno dopo al mare... io sapevo che Anita non aveva mai visto il mare... non aveva mai bagnato i piedi nell’acqua del mare... e aveva tanto desiderio di farlo... io volevo firmarla... volevo riprendere quel momento, in cui per la prima volta Anita si bagnava nell’acqua del mare... ma non ho fatto in tempo... appena siamo arrivati lei è corsa avanti e quando si è girata a chiamarmi, piena di felicità... “ Professore! Professore...”, io ero ancora lì e cercavo di aprire la mia piccola telecamera... non ho fatto in tempo nemmeno a gridarle “aspetta!”. Tra l’altro, non so come, la nostra avventura è finita in un libro... si, all’inizio di “Trieste sottosopra, di Covacich... si parla di un gruppo di ragazze di Pécs a Trieste, che al mattino vanno in visita al castello di Miramare, e al pomeriggio vanno a fare acquisti al mega centro commerciale Le Torri”... possiamo essere soltanto noi... siamo entrati in un romanzo! ... ma questo non importa... l’importante è che Anita è riuscita a vedere il mare e a bagnare i piedi nell’acqua... e sono felice che questo ricordo “mitico” sia legato per lei al ricordo di quella bella esperienza di teatro.
  • ... prof... cosa sta facendo? ... cerchi di trattenere la sua emotività... su! Si asciughi quella lacrima... svelto!... vogliamo fare teatro, non vogliamo vederla piangere...
  • ... allora prof... noi siamo qui... siamo pronte...
  • siamo pronte per fare ancora teatro con lei...
  • Va bene, ma cosa volete recitare...?
  • Scelga lei professore... quello che vuole lei... lei sa sicuramente qual è il testo giusto per noi...
  • Una volta ci aveva parlato di Antigone, la ragazza che trova il coraggio di ribellarsi contro le decisioni sbagliate degli adulti... ci aveva detto che Antigone è il simbolo di tutti i giovani che con la loro sincerità, con il loro coraggio, con la loro onestà, hanno la forza di non piegarsi, di non accettare gli errori... e finché al mondo ci saranno dei giovani che avranno il coraggio di dire no, Antigone sarà la loro bandiera...
  • Un’altra volta ci aveva raccontato la storia di Peer Gynt, la storia di quest’uomo così inquieto, che aveva sempre voglia di andare via...
  • ... come tanti giovani ungheresi... che non riescono a vedere un futuro in Ungheria... e vogliono viaggiare... e vogliono andare via “per vivere”...
  • ... ma la storia di Peer Gynt, è intrecciata indissolubilmente con la storia di Solveig, la ragazza che lo ama, e che non ha bisogno di andare in giro per il mondo... a lei basta solo suo amore per lui... un amore infinito, assoluto, impossibile... ma è un amore che dà senso alla vita sua e anche a quella di Peer Gynt... era una storia bellissima...
Qualche secondo di silenzio.
  • A cosa sta pensando prof ?
  • Mi chiedo quale spettacolo... perché ancora un altro spettacolo... che senso ha? Mi chiedo se basta dire... che è bello... che è bello stare insieme... che è bello perché il teatro ha fatto nascere la nostra amicizia che continua anche adesso che siete grandi... che siete all’università... mi chiedo... che senso ha...
  • Scusi prof... ma proprio adesso le vengono questi dubbi?
  • Quanti anni sono che si occupa di teatro?
  • Circa quaranta...
  • E dopo quarant’anni proprio adesso si chiede che senso ha fare teatro?
  • ... si, perché non se lo è chiesto quando era giovane?
  • ... a dire la verità, quando ero giovane mi ero posto questa domanda... ma erano altri tempi... eravamo negli anni della contestazione globale... avete mai sentito parlare del ’68?
  • ... ?... si-i... qualcosa...
  • ... erano anni molto complessi... c’era un gran bisogno di capire... di cambiare... si pensava che i sogni migliori si potessero realizzare... ingenuamente si credeva che questi sogni fossero lì... a portata di mano. Per quanto riguarda il teatro, il nostro autore era Bertolt Brecht. La nostra stella polare era il Piccolo di Milano. Giorgio Strehler e Paolo Grassi lo avevano fondato venti anni prima... All’inizio di quella avventura fantastica c’era un sogno di un teatro... che in Italia non c’era mai stato. Il loro sogno... che poi diventò anche il nostro sogno... il sogno che dava un senso al nostro amore... amore istintivo, per il teatro, era scritto in un documento importante: “Lettera programmatica del Piccolo Teatro della Città di Milano”, sottoscritta da Giorgio Strehler, Paolo Grassi e da tutti gli altri artisti e amministratori che con loro hanno condiviso quell’avventura fantastica che ancora oggi continua.
Sentite che meraviglia:

“Questo teatro nostro e vostro, il primo teatro comunale d’Italia è promosso dall’iniziativa di taluni uomini d’arte e studio, che ha trovato consenso e aiuto nell’autorità fattiva di chi è responsabile della vita cittadina. Noi non crediamo che il teatro sia una decorosa sopravvivenza di abitudini mondane o un astratto omaggio alla cultura. Il teatro resta il luogo dove la comunità adunandosi liberamente a contemplare e a rivivere, si rivela a se stessa; il luogo dove fa la prova di una parola da accettare o da respingere: di una parola che accolta, diventerà domani un centro del suo operare, suggerirà ritmo e misura ai suoi giorni”.

È bellissimo... un momento di pazienza... lo rileggiamo e lo spieghiamo anche un poco

Questo teatro nostro
(nostro... cioè di noi artisti: regista, attori, scrittori, musicisti, pittori...)
e vostro
(vostro... cioè di voi, cittadini di Milano),
il primo teatro comunale d’Italia
(cioè il proprietario non è un privato qualsiasi... no, il proprietario è il Comune di Milano; cioè la città stessa di Milano)
è promosso
(cioè è stato realizzato, concretamente)
dall’iniziativa di taluni
(da taluni, cioè non da tutti, non dagli indifferenti o dagli uomini della destra, per esempio)
di taluni uomini d’arte
(giornalisti, scrittori, pittori, musicisti, editori)
e di studio
(professori di università),
che ha trovato il consenso
(l’accordo e il concreto aiuto economico)
nell’autorità fattiva
(che collabora attivamente)
di chi è responsabile della vita cittadina
(il sindaco, il prefetto, le autorità, gli amministratori).
Noi
(tutti coloro che credono in questo progetto)
Noi NON  crediamo che il teatro sia una decorosa sopravvivenza di abitudini mondane
(noi non crediamo che  si debba andare a teatro per mostrare gli abiti eleganti, le pellicce e l’auto nuova; per trovarsi a chiacchierare con gli amici; il teatro non è né un salotto, né un caffè, né un ristorante)
Noi NON crediamo che il teatro sia  un astratto omaggio alla cultura
(la cultura non è qualcosa di lontano da noi di cui fare bella mostra).
Il teatro resta il luogo dove la comunità
(i cittadini di Milano)
adunandosi liberamente
(possono riunirsi liberamente, non costretti, come durante il fascismo)
a contemplare e a rivivere,
(per “guardarsi nello specchio” e per ricordare con emozione la loro stessa storia)
la comunità si rivela a se stessa
(la comunità si riunisce per capire se stessa);
il teatro è il luogo dove (la comunità) fa la prova di una parola
(fa prova... cioè controlla se la parola che viene detta è vera o falsa)
Una parola da accettare o da respingere
(nessuno è obbligato a dire che quello che noi diciamo è giusto, si può benissimo non essere d’accordo):
una parola che (però, se) accolta (e condivisa) diventerà domani un centro del suo operare
(cioè se tu, cittadino milanese, sei d’accordo con quello che noi abbiamo spiegato nel teatro, allora domani non potrai comportarti come oggi: la tua vita deve cambiare),
suggerirà ritmo
(il nostro teatro ti dirà le cose da fare, quelle da non fare e quando)
e misura
(le cose giuste e quelle non giuste)
ai suoi giorni
(in tutti i giorni dell’anno).

È bellissimo... non è vero?
Lasciatemi dire grazie a Giorgio Strehler e Paolo Grassi.
  • ... mi va venire in mente il suo testo... Pécs 1944... anche lì lei parlava della nostra città, della nostra storia... lei parlava di cose importanti... drammatiche... non era soltanto per divertirsi e per stare insieme...
  • Esattamente... e se vi devo dire la verità... credo che in Ungheria, ci sia veramente molto bisogno di un teatro come questo... come quello che si faceva al Piccolo... come quello che ho cercato di fare io... un teatro “civile”... si chiama così...
Mi piacerebbe che magari... da questo nostro piccolo gruppo teatrale universitario... piccolo e povero di mezzi, ma non di generosità, di intelligenza, di fantasia, nascesse una compagnia capace di fare un teatro che assuma come proprio il manifesto programmatico del Piccolo.
  • Ma oggi in Italia tutti i teatri lavorano seguendo i principi di Strehler e Grassi?
  • No... certo che no! Ci sono molti artisti, molto bravi e anche famosi che hanno avuto un grande successo, facendo questo genere di teatro... ma ci sono altri che hanno seguito percorsi completamente differenti... Per esempio negli anni ’70, in Italia, e in tutta europa arrivarono i primi spettacoli e gli scritti di Grotowskji, di Peter Brook, di Eugenio Barba, della Mnouckine, del Living, del Bread & puppet... molti di noi, io compreso, restammo disorientati... non sapevamo più come gestire la nostra passione...
  • Ma la sua passione come era nata?

  • Credo che si debba andare indietro... indietro di più di 50 anni...

Estate del 1954, Marina di Carrara... località turistica sul mar Tirreno.
Famiglie sotto gli ombrelloni. Bambini col cappellino contro l’insolazione.
Tra quei bambini ci sono io,
gioco con secchielli, palette, sabbia, palle di gomma.
Sembra un giorno come tutti gli altri.
Invece, … invece quel giorno di fine agosto è una giornata particolare.
Quella sera ci sarà uno spettacolo nel teatrino parrocchiale.
Sul palco c’è una bambina che recita, avrà 10 anni. È mia zia Annarosa.
È nella luce... e tutti la ascoltano.
A un certo punto c’è una battuta divertente; il pubblico prima ride, poi applaude.
La bambina si ferma, come interdetta:
“Ma signori, perché applaudite, non ho ancora finito…”.
Il pubblico ride ancora di più e poi applaude di nuovo.
C’è anche un vecchio signore, con una ridicola camicia da notte, e una cuffia in testa.
E’ una pantomima grottesca… strani personaggi travestiti… finti moribondi…
Non capisco quasi niente,
ma ritrovo qualcosa di quei teatri di burattini che vedevo a Bergamo, in Piazza Vecchia,
dove il Gioppino di Benedetto Ravasio, perduto nei meandri del castello stregato,
per salvare la bella innamorata,
scatenava raffiche di bastonate sul capo del diavolo, o della morte.

Nel teatrino si recitava Molière… nel percorso che ci ha portato qui, su questo palco,
Molière ha avuto un ruolo importantissimo.
Molière, quel giorno si mise vicino a me
e passo passo, mi ha accompagnato, mano nella mano per tutta la vita.

Molière. Molière pare che fosse un bel bambino.
Un giorno, aveva forse 10 anni, la mamma si ammala.
Il padre è un borghese benestante; la casa viene invasa dai medici… ciarlatani, ignoranti, arroganti e presuntuosi. Gli unici rimedi che erano capaci di somministrare, se vogliamo chiamarli così erano clisteri, purghe e salassi.
La mamma di Molière muore.
Quel giorno Jean-Baptiste rientra in casa, dopo aver giocato nei cortili e nelle strade del quartiere,
e la trova vuota.
I ciarlatani sono scomparsi. La mamma non c'è. Solo la domestica... che piange... che mette in tavola per lui e per i suoi tre fratellini quattro scodelle con un po' di latte e un po' di pane.
Nessuno parla. Non c'è bisogno di dire niente.
Si apre una porta, è il nonno; sua figlia è appena morta.
Per qualche istante guarda nel vuoto, poi vede i bambini...
no, non è giusto, non è giusto...
Fuori c'è la fiera. Il vecchio ha uno scatto d'orgoglio.
No! Non si deve stare qui, bisogna uscire.
Parigi è una grande città, ci sono le bancarelle con i dolci e con i giochi, ci sono musicisti, giocolieri, e ci sono anche quegli attori girovaghi, con quei palchetti piccoli, tre metri per tre, una tenda, una sedia, un tavolo; fanno la farsa, sono in pochi, due o tre, quattro al massimo, molti sono italiani, parlano una lingua buffa un misto di parole dai dialetti di tutta l'Europa, si muovono con gesti esagerati, agitano le braccia come le pale dei mulini a vento,
pestano i piedi con violenza sulle assi del palco.
Il nonno e i bambini arrivano davanti a uno di questi palchetti.
Un vecchio con una palandrana rossa e nera, naso adunco, barbetta arricciata sta gustando un buon bicchiere di vino.
Alle sue spalle, una maschera con un teschio che ride:
è la morte, ed è venuta a prendere il vecchio. La morte si para davanti il vecchio e gli fa versi e boccacce come i bambini quando vogliono spaventare, e si credono terribili con le loro smorfie.
Il vecchio perplesso stupito guarda lo strano personaggio;
"Ma chi è questo ?" ripete continuamente. "Ma chi è questo ?".
Si spreme le meningi, cerca solo di ricordare... La morte ride, è in preda alle convulsioni; si rotola per terra a pensare allo spavento che si prenderà il vecchio quando capirà.
Il vecchio viene preso da un bisogno improvviso. Si solleva le sottane e mostra un salame di mezzo metro, che penzola tra le cosce.
Tutti ridono… anche il Molière bambino.
La morte ormai non si regge più in piedi, è a terra e quasi soffoca per il riso.
Ora finalmente il vecchio la riconosce. È la morte, ed è venuta a prenderlo.
Il vecchio prima trema di paura, poi prende il bastone e incomincia a picchiare.
La morte, si difende, si ripara, si alza, e ora sempre ridendo a crepapelle,
scappa a gambe levate, mentre il vecchio la prende a calci nel culo.
Il nonno ride, i bambini in braccio al nonno ridono, Molière ride.
Molière ha capito. Molière ha scelto. La sua vita ora è una strada che fa un angolo di 90°.
Non sarà tappezziere del re.
Molière ha capito che esiste un posto al mondo, uno solo! dove si può prendere la morte a calci nel culo, e quel giorno, il giorno in cui è morta la sua mamma, Molière DEVE prendere a calci in culo la morte. Molière ha capito, Moliére vuole vivere lì.
Ma è difficile vivere lì.
È difficile trovare il modo di salire sul palco quando sei figlio del tappezziere del re.
Quando tuo padre vuole a tutti i costi che tu prosegua l’attività di famiglia.
Appartieni alla buona borghesia, quella sana, fatta di gente onesta che lavora,
che ha fatto passi avanti nella scala sociale, lavorando seriamente.
Discussioni, accordi, compromessi che non durano, litigi.
Voglio fare il teatro.
Musi lunghi. Molière, anzi no, per ora si chiama ancora Jean Baptiste Poquelin non vuol proprio fare il tappezziere.
Voglio fare il teatro.
Studia, diventa avvocato, almeno: un professionista.
Voglio fare il teatro!

Anch’io, nel teatrino della parrocchia, nei teatrini di burattini di Piazza Vecchia, ha capito la stessa cosa. Voglio vivere lì.
Passano un po’ di anni. Vado a scuola, studio... arriva l’ultimo anno di liceo, l’anno della maturità. La professoressa di francese ci invita a teatro.
C’è Nekrassov, un lavoro di Sartre.
È un autore del novecento, può essere utile anche per l’esame.
Bergamo, teatro Donizetti, compagnia di Giulio Bosetti.

Bergamo, teatro Donizetti.
Non è mica come i teatrini di parrocchia… approssimativi, piccoli, scomodi.
No, qui il sipario si apre senza un fruscio… qui le luci in sala si spengono con delicatezza…
qui il palco è un mondo magico… qui le voci arrivano pulite, anche i sussurri…
Vedo la sala del teatro e si risvegliano tutte quelle memorie sopite,
si risvegliano tutti quei desideri che riemergono prepotenti dall’infanzia.
In me rinasce intensissimo quel desiderio sopito. Voglio vivere lì, voglio fare il teatro.

Voglio fare il teatro.
Studia! ci sono tante facoltà serie…
economia e commercio, ingegneria, chimica, fisica… persino matematica…
Ma io voglio fare il teatro.
Saltimbanchi in casa nostra non ce n’è mai stati, e non ce ne saranno mai
Ma io non voglio fare il saltimbanco… voglio fare Sofocle, voglio fare Brecht…
L’altra sera Enzo Biagi ha detto che Brecht era un povero cantastorie…
Ma io voglio fare il teatro.
Sono solo entusiasmi giovanili… tra poco passeranno…
devi prepararti a diventare una persona seria…
Ma io voglio fare il teatro.
Anche alla fine degli anni settanta era difficile salire sul palco.
Era difficile abbandonare la propria classe piccolo borghese.
La nascita è tutto, scrive Pasolini.
Facciamo un compromesso: tu fai una facoltà seria, e intanto puoi fare qualche corso di teatro… andare a vedere un po’ di spettacoli, e poi, se proprio non ti sarà passata, vedremo cosa fare quando ti sarai laureato.
Va bene. Vada per matematica. L’unica facoltà che non prepara a fare un lavoro.
E intanto incomincio a conoscere Antigone, Edipo, Oreste, Amleto, Giulietta, Macbeth, La locandiera, I rusteghi,
I sei personaggi, La madre Courage, Peer Gynt…
I greci, Shakespeare, Goldoni, Pirandello, Ibsen, Brecht. Molière.
Sono loro gli autori che mi insegnano a capire il mondo.
È il teatro che mi ha insegnato a capire il mondo... Molière più di tutti.

Quel Molière, accusato di oscenità e di empietà,
quel Molière autore di un teatro che derideva e deformava la realtà, ma senza detestarla,
quel Molière che dava vita a un buffone dal naso per aria e dalle occhiaie incavate
che metteva in scena tirannelli ottusi e avari suonati al posto di grandi eroi che maledicono la Fortuna e piangono  il Destino.
No, niente grandi eroi in Molière, solo idioti gabbati, mariti cornuti beffati dalle mogli, servi scaltri, bravi a raggirare vecchi avari a vantaggio di figli un po’ storditi e tanto innamorati. Scene grottesche con bastonate, beffe, furti. Siamo ancora così vicini alle farse della Commedia dell’Arte. Farse belle, divertenti, veloci, piene di ritmo… fa sempre piacere vedere gli arroganti, i prepotenti e i presuntuosi messi alla berlina… quanto ce ne sarebbe bisogno anche oggi!

Ero studente alla facoltà di matematica, ogni mattino partivo da Bergamo e andavo a Milano, poi alla sera ripartivo da Milano e tornavo a Bergamo.
È in quei viaggi che studiavo teatro, ogni giorno, al massimo ogni due giorni, leggevo un testo; ogni giorno facevo un sogno, ogni giorno un disegno, una scenografia, una idea per una messa in scena…
Quanta passione... una passione così grande che è viva ancora oggi.
Auguro anche a voi di provare nella vostra vita una passione così intensa e così grande.

  • Però, professore, prima lei ha detto anche che quando in Italia erano arrivati gli spettacoli di tutti quegli autori stranieri, molti di voi... eravate disorientati... non sapevate più come gestire la vostra passione... cosa significa... cosa era successo?

  • ... si quello fu un momento... di grande crisi.
Mi ricordo ancora il momento in cui una ragazza che studiava lettere all’università di Pavia mi fece vedere un libro... si intitolava “Per un teatro povero” e l’autore era Jerzy Grotowski...
Ce l’ho ancora... è tutto rovinato... l’ho letto decine di volte, per cercare di capire...
Sulla quarta di copertina c’era una frase sconvolgente... “Ciò che colpisce quando si pensa al mestiere dell’attore, così come è praticato oggi, è il suo squallore: l’appalto su di un corpo che viene sfruttato dai suoi protettori: direttori e registi”.
Non capivo. Perché si parlava di squallore del mestiere dell’attore? A me... molto ingenuamente... sembrava così bello fare l’attore... provai la sensazione di essere proprio un “ragazzo di provincia”...
Cominciai a sfogliare il libro, a guardare le fotografie, a leggere i risvolti di copertina, i titoli dei capitoli, cominciai a guardare i disegni delle scenografie ‘povere’ e gli schemi per gli esercizi degli attori.
Fu come perdere la verginità... ma con dolore... come essere violentati... come se un velo che impediva la vista fosse caduto di colpo ... e il mondo... il mondo come lo vedevo adesso... non fosse più lo stesso di prima.
Persi l’innocenza... affascinato e disorientato... era come se mi sentissi colpevole...
 “La povertà del nuovo teatro corrisponde a una recitazione ottenuta per via di eliminazioni, liberando l’espressività del corpo dell’attore dai clichés e dei gesti banali quotidiani... Stanislavskij sognava il gesto essenziale dell’attore e il corpo liberato”.
Era un linguaggio completamente nuovo, che io non capivo neanche... ma era sconvolgente lo stesso.
Decisi di leggere il libro... decisi di capire... e sapevo che quel libro avrebbe cambiato la mia vita... sapevo che dopo aver letto quel libro il mio modo di pensare il teatro non sarebbe più stato uguale a come era stato fino a quel momento...

  • Ma che cosa era cambiato... realmente...

  • Era cambiato che io e alcuni della mia generazione scoprendo il teatro povero... incominciavamo a chiederci quali fossero le vere ragioni... le vere origini del teatro: quelle origini che si ritrovano in ogni tempo... in ogni regione del mondo... in Asia... in India, in Giappone, a Bali... in Messico, in Africa, in Sud America... così come si trovano in Grecia, ma anche in Toscana, in Sardegna, nel sud Italia
Per esempio... cominciavamo a chiederci qual era il significato profondo del mascherarsi... da dove veniva la maschera di Arlecchino?... insomma ci interrogavamo su quelle origini culturali dell’uomo che si trovano anche qui in Ungheria, per esempio nella festa dei Buso a Mohács... cioè...:
      perché a un certo punto, nella vita del villaggio c’è uno che deve andare nel bosco e tornare mascherato in modo spaventoso...?
Volevamo trovare le radici della teatralità e della sua funzione sociale, civile, culturale... di culto...
e così cominciammo a capire che il teatro apre una parete nella nostra dimensione... ci mette in contatto con altre dimensioni... ci permette di parlare con gli dei, con il passato, con chi non c'è, con chi non c’è più, con chi non c’è ancora; il teatro ci permette di parlare con i miti...
Riuscimmo a capire che il teatro custodisce il calore di una memoria che aiuta a riscaldare il presente e a spiegarlo aiutandoci a superare la banalità della vita quotidiana...
Riuscimmo a capire che il teatro delle origini... il teatro delle origini è il teatro fuori dal “teatro”.
Si, il teatro, il fare teatro... nasce molto prima del teatro come luogo... nasce molto prima del teatro Donizetti... e del teatro Nazionale che c’è sulla Kiraly...
E fu così che, a questo punto, dopo avere scoperto questi valori della teatralità, cominciammo a occuparci di teatro di strada, di quella scena urbana, che si sviluppa nella città, di fronte ai suoi monumenti, ai suoi simboli di pietra... quelli a cui gli uomini hanno affidato il compito di sconfiggere il tempo... quei luoghi dove la collettività si ritrova naturalmente, socialmente... civilmente nel momento della festa...
quella festa in cui c'è la rappresentazione del mondo... in cui ci sono i significati e le forme simboliche dei valori che sono necessari per l’espressione dell’identità, della continuità...
Insomma... nella festa originaria, c’è il modello della tribù che si riunisce intorno al fuoco, prega i propri dei, intona i propri canti e racconta le proprie storie.
Il teatro di strada... il teatro urbano...
Si... il teatro di strada conciliava tante esigenze... quelle un po’ più direttamente politiche che sentivamo all’inizio, quelle definite da Strelher e Grassi, ma anche quelle più profonde e istintive... quelle del teatro dei burattini, della commedia dell’arte... del teatro di Molière...
si, perché il teatro di strada è un teatro politico nel senso più ampio del termine... cioè... è un teatro che appartiene alla polis, indipendentemente dai progetti e dalle volontà con cui viene realizzato;
lasciatemi fare il professore per un minuto... devo farvi capire bene... perché qui in Ungheria il teatro di strada proprio non esiste... e questo non è un bene...
Allora: il teatro di strada è un teatro politico proprio per quel rapporto forte che viene a crearsi tra l'azione e la scenografia urbana; non è "teatro politico" nel senso vecchio... antico e un po' banale... di quel teatro che puntava il dito contro il potere e lo denunciava... no... questo teatro è politico perché si confronta direttamente con la città... con i cittadini... e costruisce nella città, per i cittadini... nuovi territori dell'immaginario...
Una volta ho chiesto a un mio amico francese... “ma tu perché fai teatro di strada?” mi ha risposto, quasi stupito... “ma perché in teatro fa troppo freddo!”
Andate a  cercare in Internet qualche immagine... ci sono anche dei filmati di spettacoli fatti da gruppi molto interessanti come Royal de Luxe, francesi o Xarxa Teatre, Spagnoli, o Teater Titanick, tedeschi... e potrete capire di cosa sto parlando.

In tutto questo percorso ci ha guidato un grande maestro... Eugenio Barba... un grande regista europeo... nato in Italia, ma vissuto quasi sempre all’estero... Eugenio è il fondatore di un piccolo ma grandissimo teatro-povero: l'Odin Teatret di Hostelbro in Danimarca.
A noi insegnò a lavorare con le comunità... ci insegnò il meccanismo del baratto: lui con il suo gruppo, faceva così: si installava in una piccola comunità, lavorava e poi ‘barattava’ con la collettività il frutto del suo lavoro; facevano uno scambio... una danza, un canto, una azione in cambio di un canto, di una storia, di un ballo che la collettività gli donava.
Questo era il terzo teatro... non il teatro classico, tradizionale, non il teatro difficile e dissacratorio delle avanguardie... della sperimentazione... no... un teatro "terzo".
Seguendo questa filosofia ci ritrovammo a fare teatro con i ragazzi nelle scuole... ma anche con i “matti”... nei centri di cura... o con i giovani che stanno nei centri di recupero per i tossicodipendenti... o con i detenuti che stanno rinchiusi nelle carceri...
Se oggi in tutta Europa si fa teatro nelle carceri per aiutare i detenuti a ritrovare se stessi... e a ritrovare un rapporto umano con chi sta fuori dal carcere... un rapporto che superi il rifiuto istintivo...
... bene... se questo oggi accade... è per la crisi che ci travolse negli anni 70... e per le risposte che, a questa crisi... riuscimmo a dare... anche guidati da Eugenio... che ci ha insegnato anche che

“... l’essenziale risiede nella trasfigurazione della durata effimera dello spettacolo in una scheggia di vita conficcata nel costato dello spettatore e che l’accompagnerà negli anni.
Lo spettacolo, come un insetto, si installa nell’intimo dello spettatore, gli rosicchia il metabolismo psichico, mentale, affettivo, si trasforma in memoria.
Devi aprire gli occhi dello spettatore con la stessa delicatezza di quando chiudi gli occhi ad una persona appena morta.”

  • È bello.. è interessante... è anche difficile da capire bene...
  • ... ma adesso noi cosa facciamo?

§         Ti rispondo con una favola... anche questa me l’ha raccontata Eugenio

C’era una volta un gruppo di saltimbanchi. Viaggiavano per paesini e metropoli, si arrampicavano sull’edificio più alto e attaccavano una fune sul tetto.
Gettavano l’altro capo della fune su nell’aria, diritta, e vi camminavano sopra, uno dopo l’altro, concentrandosi per evitare il minimo passo falso che avrebbe compromesso l’equilibrio e la marcia dell’intero gruppo. Il loro spettacolo era accolto come una grande impresa artistica, con grandi applausi e riconoscimenti.
Gli anni passarono e i saltimbanchi facevano sempre lo stesso. Non cambiavano, non si adattavano ai tempi, usavano una fune per avvicinarsi al cielo, ignorando le ultime novità: gli elicotteri, gli aerei, i missili. Non si rinnovavano. I saltimbanchi sembravano sordi a ogni commento e consiglio, si ostinavano a visitare gli stessi posti, a incontrare di nuovo i loro vecchi spettatori che col tempo diventavano sempre di meno... sorridevano ai giovani che non avevano mai visto uno spettacolo del genere: attaccare una fune ad un tetto, gettarla verso il cielo e danzarci sopra.
Un giorno scomparvero nel vuoto.
La loro fune ondeggiava in un cielo pesante di nuvole nere, lampi e tempesta. Le ceneri di un libro bruciato caddero giù, solo una pagina si era salvata.
Vi era scritto: "Quello che devi fare, devi farlo, e non porre domande, non porre domande". 

Mi chiedete... “e adesso noi cosa facciamo?” ...
Bisogna cercare di riportare il teatro ad una dimensione rituale, quella da cui esso sgorga originariamente, bisogna affermare la sua funzione e la sua necessità.
Ormai... il teatro non deve più essere considerato più luogo della finzione...
ci sono già abbastanza spettacoli in giro...
il teatro deve essere il luogo della rivelazione... il regno della contro-finzione.
... o il teatro è in grado di essere momento di verità per una comunità di attori e spettatori
... o il teatro non ha più alcuna ragione di esistere,
perché l’autentica profondità c’è solo quando si può effettuare una reale comunicazione umana.

... ora io so solo che adesso, tocca a voi... voi siete giovani... siete voi che dovete trovare le vostre risposte... che dovete fare il vostro percorso... seguire la vostra strada... costruire il vostro futuro... con il teatro o senza il teatro... questo non è importante...
Io posso starvi vicino... parlarvi... raccontarvi... come ho fatto oggi... aiutarvi, se me lo chiedete... ma siete voi che dovete costruire il vostro destino... con coraggio, con sincerità, con onestà... perché sarà questo che darà un senso profondo alla vostra vita.

Un bacio... il vostro prof


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1 commento:

  1. l'improvviso di vigevano by fusani luigi alcide is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported License.

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