mercoledì 11 gennaio 2012

sottosuolo






MEMORIE DAL SOTTOSUOLO

di Luigi Alcide Fusani,
liberamente ispirato all’omonimo romanzo di  Fëdor Dostoevskij


I.
Io... sono un uomo malato... anzi, sono un uomo cattivo... ma no... sono solo un uomo sgradevole. Credo di avere il mal di fegato... anche se di preciso non so di cosa soffro. Io non mi curo e non mi sono mai curato... non voglio curarmi, non voglio curarmi per cattiveria... probabilmente questo voi non lo capite... Io invece lo capisco...  So meglio di chiunque altro che faccio del male unicamente a me stesso... Tuttavia, non mi curo... non mi curo per cattiveria...
Voi credete che io voglia farvi ridere? Vi sbagliate!
Non sono affatto l’uomo allegro che forse credete!
E’già da molto tempo che vivo così. Prima lavoravo, ero impiegato. Ero un impiegato cattivo. Ero villano e mi faceva piacere... infatti non prendevo bustarelle... pessima battuta... l’ho detta pensando che sarebbe stata molto arguta... ma adesso mi rendo conto che volevo soltanto pavoneggiarmi in modo disgustoso...
Pensate che quando dei postulanti si avvicinavano alla mia scrivania, io digrignavo i denti... ero felice quando mi riusciva di dare un dispiacere a qualcuno... Ma il drammatico è che in ogni momento, perfino nella rabbia più accesa... mi accorgevo che non ero un uomo cattivo... no, spaventavo soltanto i passeri... inutilmente.
No, non ero un impiegato cattivo! Facevo solo i capricci... in realtà non sono mai riuscito a diventare cattivo. Non sono riuscito a diventare proprio nulla, né cattivo né buono, né ladro né onesto, né eroe... né insetto... e ora... ora me ne sto nel mio cantuccio... e mi consolo pensando... che “l’uomo intelligente” non può diventare assolutamente nulla... e che diventa qualcuno soltanto lo sciocco.
Eh, si! “L’uomo intelligente del nostro secolo” è moralmente obbligato... deve essere una creatura priva di carattere; mentre l’uomo di carattere, l’uomo d’azione, deve essere una creatura “limitata”.
Ora ho quarant’anni... e quarant’anni sono tutta una vita; vivere di più di quarant’anni è volgare... è immorale! Chi vive oltre i quarant’anni? Ve lo dico io chi vive oltre i quarant’anni: gli sciocchi e i mascalzoni.
Io ero un impiegato di basso livello... lavoravo per avere qualcosa da mangiare... e l’anno scorso, quando un parente mi ha lasciato seimila rubli per testamento, ho dato subito le dimissioni e mi sono sistemato nel mio angolo... la mia stanza è squallida, brutta... io abito in periferia... Il clima di Pietroburgo è nocivo alla mia salute e con i miei scarsi mezzi è troppo costoso vivere a Pietroburgo. Ma io resterò qui, non me ne vado... no... no... non me ne vado... non me ne vado... , perché...perché  non me ne vado!
Io ho un terribile amor proprio. Sono sospettoso, permaloso, ma ci sono dei momenti in cui, se mi capitasse di ricevere uno schiaffo, forse ne sarei perfino contento.
Comunque il primo colpevole di tutto sono sempre io, colpevole senza colpa, anzi: colpevole secondo le leggi di natura... Sono colpevole perché sono più intelligente di tutti quelli che mi circondano. Perché “l’uomo cosciente” certe volte si sente talmente inferiore “all’uomo normale” che, in coscienza, si considera un topo, e non un uomo.  E quindi... colpevole! E per tutta la vita ricorderà la sua vergogna fino all’ultimo particolare, aggiungendoci ogni volta dei particolari ancora più vergognosi, inventerà un sacco di storie, col pretesto che anche quelle avrebbero potuto succedere: qui si racchiude un piacere così sottile, così sfuggente alla coscienza, che gli uomini dai nervi saldi non ci capiranno assolutamente nulla.
I miei scherzi sono di cattivo gusto, incoerenti, poco convinti. Ma questo perché io stesso non mi rispetto. Può un uomo cosciente avere il minimo rispetto di sé? Ma no!
Signori, forse io mi considero un uomo intelligente solo perché per tutta la vita non ho potuto né iniziare né concludere nulla... Va bene... va bene: sono un chiacchierone, sono un chiacchierone fastidioso e innocuo, come tutti. Ma cosa ci si può fare se oggi l’unico destino di una persona intelligente è la chiacchiera?

II.
Ascoltate. Avevo ventiquattro anni. La mia vita già allora era disordinata. Al lavoro cercavo di non badare a nessuno, ma mi accorgevo benissimo che i miei colleghi mi consideravano un originale. Avevo sempre l’impressione che mi guardassero con un certo disgusto... Perché a nessuno, tranne che a me, sembrava d’esser guardato con disgusto? Uno dei nostri impiegati di cancelleria aveva un viso ripugnante. Con una faccia così indecente, non avrei avuto neanche il coraggio di alzare gli occhi. Un altro aveva un’uniforme così consunta che già vicino a lui si sentiva cattivo odore. Eppure nessuno si sentiva imbarazzato. Né l’uno né l’altro s’immaginavano d’essere guardati con disgusto; e se anche l’avessero immaginato, se ne sarebbero infischiati, purché non fossero i superiori a giudicare.
Io odiavo la mia faccia, sospettavo perfino che avesse un’espressione vile, e ogni giorno, presentandomi al lavoro, cercavo di assumere un’aria il più possibile indipendente. “Che il viso sia pure brutto ma in compenso che sia nobile, espressivo e, soprattutto, estremamente intelligente”.
Odiavo gli impiegati della nostra cancelleria e li disprezzavo tutti, ma nello stesso tempo li temevo. Ma, sia che li disprezzassi, sia che li giudicassi superiori a me, davanti a quasi tutti quelli che incontravo abbassavo gli occhi. Facevo perfino degli esperimenti: sarei riuscito a sostenere lo sguardo del tale su di me? E sempre lo abbassavo per primo.
Ero un codardo e uno schiavo. Lo dico senza nessun imbarazzo. Ogni uomo perbene del nostro tempo è e deve essere un codardo e uno schiavo.
In generale sono sempre stato solo. A casa, prima di tutto, leggevo. La lettura mi aiutava molto: mi emozionavo e mi tormentavo. Oltre alla lettura, non avevo risorse, cioè, nel mio ambiente... non c’era nulla ch’io potessi rispettare e da cui mi sentissi realmente attratto.
Mi rodeva l’angoscia; mi prendeva un’ansia isterica... e così mi davo al “libertinaggio”... ma, il mio libertinaggio era solitario, timoroso, pieno di vergogna. Frequentavo locali assai malfamati... 
Una volta, passavo davanti a una bettola, e dalla finestra illuminata ho visto dei signori che si picchiavano intorno al un biliardo, e ad un certo punto hanno scaraventato uno di loro dalla finestra. In un altro momento mi sarei sentito disgustato; ma allora, così, all’improvviso invidiai quell’individuo, e lo invidiai tanto che entrai nella bettola, pensando: “Magari anch’io farò a botte e forse butteranno anche me dalla finestra”.
C’era lì un ufficiale: io stavo vicino al biliardo e, più che altro per ignoranza, impedivo il passaggio, e quello doveva passare; mi prese per le spalle e in silenzio, senza avvertirmi e senza spiegarsi, mi spostò dal punto in cui stavo in un altro, e poi passò come se non mi avesse neppure notato. Era quasi un metro e novanta. Le percosse le avrei perdonate, ma non potevo perdonare che mi avesse spostato e ignorato.
Ero stato trattato come una mosca! Che cosa avrei dato per una vera lite. La lite, del resto, dipendeva da me: bastava protestare un po’e, certo, mi avrebbero scaraventato giù dalla finestra.
Non ebbi mica paura per vigliaccheria, ma per vanità. Mi ero spaventato non del metro e novanta o del fatto che me le avrebbero suonate di santa ragione; no... di coraggio fisico ne avrei avuto abbastanza; ma non mi bastava il coraggio morale. Mi ero spaventato del fatto che tutti i presenti lì intorno. dal segnapunti fino all’ultimo leccapiedi, non avrebbero capito. Si sarebbero semplicemente sbellicati dalle risa, e l’ufficiale non mi avrebbe semplicemente malmenato ma mi avrebbe senz’altro colpito col ginocchio, facendomi girare tutt’intorno al biliardo, e solo dopo forse si sarebbe impietosito e mi avrebbe scaraventato fuori dalla finestra.
Questa storia non poteva finire così. Dopo quella sera incontrai spesso quell’ufficiale per strada e l’osservai bene... e andò avanti così per diversi anni! Anzi, la mia rabbia cresceva con gli anni.
Una mattina, mi venne l’idea di descrivere quell’ufficiale in un racconto di denuncia, una satira. Lo smascheravo: camuffai il cognome, ma in modo che lo si potesse subito riconoscere, poi, inviai il racconto ad una rivista di Pietroburgo. Ma a quel tempo non usava ancora la letteratura satirica e così il mio racconto non fu pubblicato. Ero furioso. La rabbia mi soffocava. E così mi decisi a sfidare il mio “amico” a duello. Gli scrissi una lettera molto elegante, supplicandolo di scusarsi con me; e in caso di rifiuto alludevo piuttosto fermamente al duello. La lettera era scritta in modo che, se l’ufficiale avesse avuto la minima idea di qualcosa di elevato, sarebbe senz’altro corso da me per offrirmi la sua amicizia.
Come sarebbe stato bello! Che vita avremmo cominciato! Lui mi avrebbe difeso con la sua prestanza; io l’avrei nobilitato con la mia cultura, con... le mie idee! Ma grazie a Dio non spedii mai la mia lettera.
Nei giorni di festa, di pomeriggio, me ne andavo a passeggiare sulla prospettiva Nevskij; anche lui ci andava. Si scansava davanti ai generali e agli alti funzionari, ma quelli come noi, li schiacciava semplicemente; gli andava contro diritto, come se davanti a lui ci fosse uno spazio vuoto.
Ero furioso; io lo guardavo e ogni volta mi spostavo per lasciarlo passare. Ma è possibile che perfino per strada io non possa stargli alla pari? “Perché ti scansi sempre per primo?” Nessuna legge lo dice, non sta scritto da nessuna parte!
Ad un tratto mi venne un’idea sorprendente. “E se per una volta non mi facessi da parte? Se non mi facessi da parte di proposito, anche a costo di dargli uno spintone?”. Era un’idea straordinariamente ardita. Continuavo a pensarci, andavo apposta sulla prospettiva Nevskij per immaginarmi con maggiore chiarezza come avrei agito al momento buono.
Non mi sarei spostato: ci saremmo scontrati... non in modo da farsi molto male... così, spalla contro spalla. I preparativi richiesero moltissimo tempo: bisognava occuparsi del vestito. “In caso dovesse nascere una scenata pubblica bisogna essere ben vestiti; la cosa fa impressione e in un certo senso ci porrà sullo stesso piano agli occhi della società”. Mi feci pagare lo stipendio in anticipo e comprai dei guanti neri e un discreto cappello. Avevo preparato una bella camicia con i gemelli bianchi; ma quello che mi fece perdere più tempo fu il cappotto. In realtà il mio cappotto era tutt’altro che malvagio, scaldava; ma era imbottito d’ovatta, e il bavero era di procione. Bisognava a tutti i costi sostituire il bavero e farne uno di castorino, tipo quello degli ufficiali. Cominciai a girare e ad un certo punto trovai un castorino tedesco di poco prezzo. Questi castorini tedeschi si logorano prestissimo, però, appena acquistati, hanno un’aria più che decorosa; e del resto a me serviva una volta soltanto.
Era caro: decisi di chiedere un prestito ad Anton Setockin, il mio capufficio, uomo serio che non prestava denaro a nessuno. E’stato orribile. Mi pareva vergognoso chiedere denaro in prestito. Anton Setockin si stupì, poi rifletté e mi accordò il prestito (comunque si fece firmare una ricevuta). Finalmente tutto era pronto.
Feci alcuni tentativi, ma confesso che dopo un po’cominciai a disperare: non c’era modo di scontrarsi. Quando mi avvicinavo a lui, recitavo perfino delle preghiere, perché Dio mi desse la forza. Proprio quando pareva che ci saremmo scontrati, mi rendevo conto che gli avevo ceduto la strada di nuovo e lui era passato, senza accorgersi di me.
Poi per fortuna tutto si risolse come meglio non si poteva.
Ormai avevo deciso di lasciar perdere tutto, così uscii per l’ultima volta sulla prospettiva Nevskij. A un tratto, a tre passi dal mio nemico, mi decisi, chiusi gli occhi e... ci scontrammo in pieno, spalla contro spalla! Non cedetti di un pollice e passai oltre... esattamente sul suo stesso piano!
Lui non si voltò neppure, fece finta di non essersene accorto; ma fece solo finta, ne sono assolutamente convinto. Avevo raggiunto lo scopo, avevo affermato la mia dignità, non avevo ceduto di un passo e mi ero posto pubblicamente al suo stesso livello.
Quando tornai a casa ero completamente vendicato di tutto. L’ufficiale poi fu trasferito: ormai sono quattordici anni che non lo vedo. Chissà che cosa fa adesso? E chi opprime adesso con la sua prepotenza?

III.
Certe volte sentivo una terribile nausea. Ma avevo una via d’uscita: i sogni. Ero esasperato: sognavo anche per mesi di fila. Di colpo diventavo un eroe. C’erano attimi di tale ebrezza, di tale felicità. In quei momenti credevo ciecamente che per qualche miracolo, di colpo tutto si sarebbe spalancato; a un tratto mi sarebbe apparso il destino di un’attività degna, umanitaria, meravigliosa, ed ecco: io mi presento al mondo,  incoronato di alloro, a cavallo di un bianco destriero.
Io trionfo su tutti; tutti sono annientati e costretti a riconoscere ogni mia perfezione, e io li perdono tutti. M’innamoro, sono un famoso poeta, ricevo milioni e milioni e subito li sacrifico per il genere umano, ma nello stesso momento confesso dinanzi a tutto il popolo le mie infamie, che non sono semplicemente infamie, ma racchiudono in sé moltissimo di sublime ed elevato. Tutti piangono e mi baciano, e io scalzo e affamato vado a predicare le nuove idee e sconfiggo i reazionari ad Austerlitz; poi proclamo un’amnistia, e parto col Papa da Roma per il Brasile; poi un ballo, un ballo a villa Borghese sul Lago di Como, per l’Italia intera! E poi, e poi... e poi... Che vergogna! Che vergogna....
Ogni tanto sentivo l’esigenza di andare a trovare il mio capufficio, Anton Setockin: è stato l’unico conoscente costante in tutta la mia vita. Bisognava presentarsi di martedì: di solito sedeva nello studio, insieme a qualche funzionario. Non vi ho mai visto più di due o tre ospiti, e sempre gli stessi. Discutevano delle tasse, dello stipendio, di sua eccellenza e così via. Io avevo la pazienza di star seduto accanto a quella gente come uno scemo anche per quattro ore di fila , senza osare intavolare alcuna conversazione con loro. A volte cominciavo a sudare, sentivo che stava per venirmi una paralisi. E quando me ne tornavo a casa, abbandonavo per un bel pezzo il desiderio di abbracciare tutta l’umanità.
Ma avevo anche un altro conoscente: Simonov, un mio ex compagno di scuola. Di compagni di scuola ne avevo molti a Pietroburgo, ma non li frequentavo e avevo perfino smesso di salutarli per strada. Volevo troncare di netto con la mia infanzia.
Maledetta quella scuola, e quegli anni di galera.
Simonov non si distingueva particolarmente, era un ragazzo tranquillo. E penso che non fosse neanche molto limitato. E così un giovedì, non resistendo alla mia solitudine mi ricordai di lui e andai a trovarlo: era passato quasi un anno dall’ultima volta che lo avevo visto.

IV.
Trovai da lui altri due miei compagni: stavano discutendo. Nessuno di loro mi prestò attenzione. Dovevano disprezzarmi per l’insuccesso della mia carriera, ero vestito male, e questo per loro era il segno del mio scarso valore. Simonov si stupì persino del mio arrivo. Mi sedetti con una certa angoscia e mi misi ad ascoltare.
Era in corso una discussione molto seria: un pranzo d’addio; Zverkov, un loro compagno, che prestava servizio come ufficiale partiva per un governatorato lontano. Anche Zverkov era stato mio compagno di scuola. Avevo cominciato ad odiarlo dalle classi superiori. All’inizio era soltanto un ragazzino carino, vivace, benvoluto da tutti. A scuola andava veramente male, però godeva di protezioni...
Nell’ultimo anno di scuola, poi, aveva ricevuto un’eredità e siccome noi compagni eravamo quasi tutti poveri, aveva cominciato a fare il gradasso con noi.
Ricordo perfino che una volta attaccai lite con lui perché, scherzando con i compagni delle sue future imprese di seduttore a un certo punto aveva dichiarato che non si sarebbe lasciato scappare neppure una ragazza del suo villaggio, e che quello era il suo droit de seigneur e che, se i contadini avessero osato protestare, li avrebbe frustati tutti e avrebbe raddoppiato il canone a tutte quante quelle canaglie.
Tutti applaudivano... io attaccai lite.
Ebbi la meglio, ma Zverkov era allegro e audace, e così se la cavò con una battuta. Finita la scuola sentii  dei suoi successi di tenente, di come faceva baldoria, come faceva carriera. Mi ricordo che una volta lo vidi a teatro: faceva la corte alle figlie di un generale. In pochi anni si era come gonfiato, aveva cominciato ad ingrassare. E dunque per questo stesso Zverkov, che finalmente partiva, i nostri compagni volevano dare un pranzo.
Uno disse: -“Beh, mettendo sette rubli a testa, siamo in tre, ventun carte; si può pranzare bene.”
“Come sarebbe a dire ventuno?  Se calcoliamo anche me, non fanno ventuno, ma ventotto rubli”.
Pensavo che la mia proposta così inattesa sarebbe sembrata molto bella, che loro mi avrebbero guardato con rispetto, simpatia; invece Simonov, senza neanche guardarmi, disse: “Perché, vuole venire anche lei?”
“E perché no? Fino a prova contraria sono un compagno anch’io e, anzi, mi dispiace che abbiate fatto tutto senza di me”.
Mi risposero che io non ero mai andato d’accordo con Zverkov e, comunque, visto che ci tenevo tanto, che venissi pure.
“Cosa mi era saltato in mente di cacciarmi in questa storia! E per un mascalzone simile, per quel porco di Zverkov! Non dovevo andare...”.
Ma sapevo che ci sarei andato e quanto più sconveniente sarebbe stato, tanto più mi sarei affrettato ad andarci.
Quella notte feci sogni orrendi. Per tutta la sera ero stato oppresso dai ricordi. In quella scuola mi avevano cacciato dei lontani parenti. Ero un povero orfano, stavo sempre in silenzio; i compagni mi prendevano in giro.
Ed io cominciai subito a detestarli. Mi impegnai moltissimo nello studio e mi guadagnai subito un posto fra i primissimi. Le canzonature cessarono, ma l’antipatia rimase.
Non dovevo andare a quella cena. Ma proprio questa era la cosa più inattuabile. Altrimenti poi mi sarei preso in giro da solo per tutta la vita: -“E allora, hai avuto paura della realtà! Eh?!”
Io volevo dimostrare che non ero affatto quel vigliacco che io stesso credevo. Sognavo di conquistarli, di affascinarli, costringerli ad amarmi per le mie “idee” e per l’indubbia arguzia. Sognavo che avrebbero abbandonato Zverkov, egli sarebbe rimasto seduto in disparte, a tacere e vergognarsi. Poi, magari, mi sarei riconciliato con lui e avrei bevuto alla nostra salute.
Il giorno dopo noleggiai una carrozza di lusso, (mezzo rublo!), ed arrivai come un signore all’Hotel de Paris.

V.
Non c’era nessuno di loro, faticai perfino a trovare la nostra saletta. La tavola non era ancora apparecchiata. Il pranzo era ordinato per le sei, e non per le cinque... Se avevano cambiato l’ora, avrebbero dovuto avvisarmi!
Mi toccò di aspettare per tutta un’ora, era una situazione molto imbarazzante, ma quando finalmente li vidi arrivare tirai un sospiro di sollievo dimenticando perfino che ero tenuto ad avere un’aria offesa.
Ridevano, loro; ma, vedendomi, si diedero un contegno, Zverkov si avvicinò senza fretta, e mi diede la mano, cauto.
“Ho appreso con meraviglia il suo desiderio di essere dei nostri. Come mai non ci siamo più incontrati? Lei ci evita. Fa male.”
Non ebbi neanche il tempo di rispondere, che si erano già seduti; e così mi sedetti anch’io. Zverkov continuava a occuparsi di me: -“Dica: lei... lavora in un dipartimento?”
Era insopportabile. Io risposi, guardando il piatto: “No, adesso lavoro in cancelleria”
“E le conviene? Ma... cosa l’ha indotto a lasciare il posto di prima?”
“Mi ha indotto il fatto che mi è venuta voglia di lasciare il posto di prima”.
Mi chiese anche quanto prendevo di stipendio. Io protestai:
“Ma cos’è, un esame?”.
Comunque, dichiarai subito quanto ricevevo.
“Modesto! C’è proprio poco da pranzare al ristorante”, osservò Zverkov, con una specie di falsa pietà, osservando me e il mio vestito.
“Ma basta metterlo in imbarazzo”, esclamò uno di loro con un risolino fesso.
“Egregio signore, sappia che io non mi imbarazzo... piuttosto sarebbe meglio impegnarci in una conversazione più intelligente”.
“Perché, lei è venuto qui per sfoggiare la sua intelligenza?”
“Non si preoccupi, qui sarebbe del tutto superfluo”.
“Senta: non sarà che le ha dato di volta il cervello in quel suo ridicolo dipartimento?”
A questo punto Simonov si rivolse sgarbatamente verso di me: -“Noi ci siamo riuniti amichevolmente per augurare buon viaggio a un caro amico. Ieri lei si è invitato da solo, dunque non turbi l’armonia generale...”.
“Basta, basta signori”, intervenne Zverkov. “Piuttosto vi racconterò come ho rischiato di sposarmi due giorni fa...”.
E qui cominciò una buffonata. Del matrimonio non diceva una parola, ma nel suo racconto balenavano continuamente generali, colonnelli. Cominciarono le risate di approvazione. Tutti mi lasciarono perdere, ed io restavo lì, annientato. Vigliacchi.
“Signore, è questa la società per me? Ma che ci faccio io qui! L’unica cosa da fare, in questo istante sarebbe alzarmi da tavola, prendere il cappello ed andarmene, semplicemente, senza dire una parola... Per disprezzo.
Rimasi.
Per il dolore bevevo un bicchiere dopo l’altro. A un tratto mi venne voglia di offenderli tutti nel modo più temerario e poi andarmene.
Simonov alzò il bicchiere.
“Alla salute e bon voyage! Per gli anni passati e per il nostro futuro!”.
Tutti bevvero. Io, non mi mossi; il bicchiere pieno stava intatto davanti a me.
“E lei non vuol bere?”
“Prima voglio fare un discorso... dopo berrò”. Presi il bicchiere in preda alla febbre, volevo dire qualcosa di straordinario ma non sapevo ancora quel che avrei detto esattamente.
“Silenzio... Ora sentirete il vero ingegno!”.
“Signor tenente Zverkov, sappia che io odio le frasi e i fraseggiatori. Odio gli amorazzi e i dongiovanni. Soprattutto i dongiovanni. Amo la verità, la sincerità, l’onestà. Amo il pensiero, amo il cameratismo, su basi di parità. Ebbene, anch’io, bevo alla sua salute!”.
Zverkov si alzò dalla sedia, s’inchinò e mi disse: -“Le sono molto grato”.
Era terribilmente offeso... era perfino impallidito.
Simonov mormorò: -“Bisogna cacciarlo fuori!”.
“Vi ringrazio tutti”, disse Zverkov, “ma saprò dimostrargli io stesso quanto valuti le sue parole... Bisogna lasciarlo perdere! E’completamente ubriaco!”.
“Signori, voi... voi sareste contenti se me ne andassi. Siete solo dei buffoni. E invece sapete cosa farò? Resterò e berrò. Resterò e berrò... e canterò, e berrò, e ballerò, e canterò... e berrò e canterò... perché ne ho il diritto...”.
Ma non cantavo. Cercavo soltanto di non guardare nessuno di loro; aspettavo con impazienza che loro, per primi, mi rivolgessero la parola. Ma, ahimè, essi passarono dalla tavola al divano. Zverkov si distese sul sofà. Tutti gli si sedettero intorno. Lo ascoltavano con venerazione. Si vedeva che gli volevano bene. “Perché? perché?”.
Era impossibile umiliare se stessi in modo più vergognoso e deliberato, e io lo capivo perfettamente, perfettamente. “Se loro sapessero di quali sentimenti e pensieri sono capace!”
Una volta, una volta sola, si girarono verso di me: fu quando Zverkov cominciò a parlare di Shakespeare, e io, subito, mi misi a ridere sprezzantemente. Tutti di colpo interruppero la conversazione: ma non mi rivolsero la parola e subito mi lasciarono perdere, nuovamente.
Suonarono le undici.
Zverkov, alzandosi dal divano, esclamò: -“E ora, signori... tutti da Madame!”
Ero distrutto, volevo farla finita! Avevo la febbre.
“Zverkov! Le chiedo scusa”.
“Ma ci lasci passare, perché si è messo in mezzo alla strada!... Che cosa le occorre?”
“Le chiedo la sua amicizia, io prima l’ho offesa, ma...”.
“Lei! Offeso me! Egregio signore: sappia che lei non può mai... mai!...  e in nessuna circostanza....  offendere me! E adesso la pianti e si levi di torno!”
Loro... uscirono chiassosamente dalla stanza. Io... restavo lì, oltraggiato.
Dovunque disordine, vino versato, avanzi, sigarette. Avevo il delirio nella testa, e l’angoscia nel cuore. Rimasi ancora un momento...soltanto un momento...  sapevo dov’erano andati.

VI.
O imploreranno la mia amicizia, ... o li prenderò tutti a schiaffi!
No... non supplicheranno mai la mia amicizia. E’una volgare illusione, disgustosa e romantica. Devo... devo dare almeno uno schiaffo a Zverkov! Devo darglielo. Entrerò e glielo darò... così, pah, semplicemente. Loro saranno tutti seduti nella sala, e dopo... dopo che comincino pure a picchiarmi, che mi sbattano fuori. Va bene... va bene! Ma io avrò dato lo schiaffo per primo.
Mi arresteranno, mi processeranno, mi scacceranno dall’impiego, mi manderanno in Siberia. Non me ne importa! Fra quindici anni, quando mi scarcereranno. Lo rintraccerò. Sarà sposato... sarà felice... avrà una figlia grande... e io... io mi trascinerò dietro di lui vestito di sacco, in silenzio... chiedendo l’elemosina... fate la carità, fate la carità...
Stavo quasi per mettermi a piangere... E a un tratto mi vergognai terribilmente, mi fermai lì, in mezzo alla strada. Che dovevo fare? 
La neve fradicia cadeva a fiocchi, lasciar perdere non si poteva... Dimenticai tutto: ero assolutamente deciso a dargli uno schiaffo. Ormai sarebbe accaduto.
Corsi su per i gradini e cominciai a picchiare alla porta con le mani e con i piedi. Mi aprirono stranamente presto; come se sapessero del mio arrivo. Attraversai la bottega buia ed entrai nella sala: era uno di quei “Negozi di moda” dove, di sera, chi aveva una raccomandazione poteva essere ricevuto...
C’era una candela accesa, una sola... non c’era nessuno. Avevano già fatto in tempo a separarsi...
Subito dopo si aprì una porta: apparve lei... era alta, forte, ben fatta. Era vestita con semplicità... Per due ore non scambiai neppure una parola con quell’essere. La cosa mi piaceva così, brutale, senza amore, senza pudore...
Mi risvegliai quando suonarono le due...

VII.
La stanza era stretta, quasi completamente buia. Ci guardammo a lungo.
Lei si chiamava Lisa... aveva vent’anni. Le chiesi perché se ne era andata di casa... Mi rispose di lasciarla in pace. Ne fui subito indispettito. Io ero stato così tenero con lei, e lei...
A quel punto mi ricordai una scena che avevo visto la mattina per strada: -“Oggi hanno portato fuori una bara e per poco non l’hanno fatta cadere. Si, in piazza Sennaja; la portavano fuori da un seminterrato... da una casa di malaffare... C’era una tale sporcizia intorno... una puzza, uno schifo. I becchini imprecavano per la neve”.
Le chiesi: -“Per te fa lo stesso morire?”
“E perché dovrei morire?”
“Un giorno o l’altro morirai pure, anche quella poveretta di oggi. Era una ragazza... E’morta di tisi”.
“Una che fa la vita moriva in ospedale...”
“Era in debito con la padrona e l’ha dovuta servire fin quasi alla fine. Lo raccontavano dei  soldati che stavano lì. Ridevano. Tu adesso sei giovane, carina, fresca. Ma fra un anno... fra un anno varrai di meno. Passerai da qui a un’altra casa. Ancora un anno e in una terza casa, sempre più in basso, finché non arriverai al seminterrato... Eh... il guaio è se si manifesta qualche malattia. Con questa vita la malattia fatica a passare. Magari si attacca, e non si stacca più.”
“E va be’, morirò”.
“Ma davvero pensi di esser su una buona strada?”
“Io non penso niente, io”.
“E proprio questo è il guaio, che non pensi. Svegliati, finché sei in tempo. E sei in tempo. Sei ancora giovane, graziosa; potresti amare, sposarti, essere felice...
Tu non guardare me; io non sono un buon esempio. E, forse, sono ancor peggio di te. Sono entrato qui ubriaco... e anche se qui m’infango, non sono schiavo di nessuno; ci sono stato e me ne vado. Tu invece,... tu sei schiava. Si, schiava! Sono sicuro che ti sei già indebitata con la padrona e non ti riscatterai mai più... Ma dimmi, cosa c’è qui di buono; ecco, io e te... poco fa ci siamo incontrati... e per tutto il tempo non ci siamo scambiati neanche una parola, e tu solo dopo hai cominciato a osservarmi; e io te. Si devono incontrare così due esseri umani? E’così che si ama?.. E’un orrore!”
Rispose: -“Si!” Con una fretta che mi meravigliò perfino.
Lei si avvicinò; non potevo nemmeno distinguere i suoi occhi. Sentivo solo il suo respiro profondo.
“Perché sei venuta qui? ...Certo io non so nulla della tua storia, ma una ragazza come te,  non capita qui di sua volontà... Vedi, Lisa, io se avessi avuto una casa fin dall’infanzia, non sarei quello che sono adesso, ma io sono cresciuto senza genitori; forse per questo sono venuto su così... I genitori... Se fossi un padre ed avessi una figlia, credo che l’amerei più dei maschi... Conoscevo un padre che era un uomo severo, rigido, ma davanti alla figlia... Il padre ama la figlia sempre di più. Come è allegro per certe ragazze vivere in casa! E io, se avessi una figlia, io... non vorrei neppure darla in sposa. Sarei geloso, quanto è vero Dio.”
“Altri invece sono felici di venderla, la figlia, altro che maritarla onorevolmente”.
“Questo succede in quelle case dove non c’è né Dio, né amore, e dove non c’è amore, non c’è neppure buon senso...
Possibile, possibile che tu stessa non provi schifo qua dentro? Ma non penserai sul serio che non invecchierai mai, che sarai eternamente bella e che ti terranno qui fino alla fine dei secoli? A parte il fatto che anche qui è un porcile... Solo da ubriachi si può finire qui... Mentre se tu fossi in un altro posto, se tu vivessi come vive la gente onesta, forse... forse, non solo ti farei la corte, ma mi innamorerei di te, sarei lieto di un tuo sguardo, rimarrei appostato davanti al tuo portone. Non oserei pensare nulla di poco pulito su di te... Mentre qui so che mi basta fare un fischio, e tu mi seguirai. E allora a che scopo conquistarsi il tuo amore, quando anche senza amore tutto è possibile? No, Lisa, sarai fortunata, se morirai al più presto di tubercolosi in uno scantinato, come quella di stamani.  Ti ricopriranno alla svelta e andranno a bere all’osteria... E così finirà anche la tua memoria sulla terra; esattamente come se tu non fossi mai nata!”
Adesso era distesa bocconi, con il viso affondato nel cuscino. Il suo corpo sussultava in preda alle convulsioni. I singhiozzi le stringevano il petto e la soffocavano... Mi fermai... mi sollevai...
Era buio: trovai una scatola di fiammiferi ed un candeliere ... Lisa si alzò di colpo ... si sedette ... e con un viso stravolto mi guardò intensamente. Mi sedetti accanto a lei e le presi le mani... ero un po’spaventato.
“Lisa, amica mia, forse... forse ho fatto male... perdonami.”  Mi alzai... mi sentivo male... avevo fretta di andarmene. Le diedi il mio indirizzo...

VIII.
L’indomani mattina mi svegliai dopo un sonno profondo, mi ricordai di tutto, di Lisa... Perché mai le avevo lasciato il mio indirizzo? E se viene?
E se viene... Certo è brutto che veda come vivo ... la miseria di questa casa... Questi stracci... Potrei andare io da lei, raccontarle tutto e convincerla a non venire.
Passò un giorno, un altro, un terzo, e io cominciavo a tranquillizzarmi; a volte cominciavo perfino a sognare: Io salvavo Lisa, proprio per il fatto che lei veniva da me, e io le parlavo... elevavo il suo spirito, la istruivo. E poi mi accorgevo che lei... lei mi amava... mi amava appassionatamente... Io fingevo di non capire ma lei, bellissima, tremando, si gettava ai miei piedi e diceva che ero il suo salvatore e che mi amava più di ogni altra cosa al mondo. Io mi meravigliavo, ma... “Lisa”, dicevo, “credi davvero che non mi sia accorto del tuo amore? Io vedevo tutto, indovinavo, ma non osavo attentare al tuo cuore per primo, perché temevo... che avresti ricambiato il mio amore, per gratitudine, e avresti fatto nascere in te un sentimento che forse non c’era, e io non lo volevo”. Poi cominciavamo a vivere felici, andavamo all’estero...
La cosa diventava ripugnante perfino per me.
Finché un giorno... entra in camera il mio domestico: -“C’è di là una ...”, poi si sposta e la lascia passare.

IX.
Me ne restavo lì, davanti a lei, imbarazzato, confuso.... sorridevo, cercando di coprirmi con la mia vestaglia imbottita d’ovatta.
Lei mi guardava con gli occhi sbarrati.
“Siediti... Mi hai trovato in questa situazione. Ma, non farti chissà quali idee! Io non mi vergogno della mia povertà... io sono povero, ma nobile... Si può essere poveri e nobili”...
Ma scoppiai in lacrime. Mi vergognavo.
Lei si avvicinò, “Cosa le succede?”
Io mormorai: -“Dammi dell’acqua”. Recitavo...! Per salvare le apparenze.
Mi guardava con perplessità.
Io dissi: -“Lisa, mi disprezzi?”
Lei si confuse e non rispose nulla.
Poi, a un certo punto mormorò: “Io da quel posto voglio andarmene... andarmene completamente”.
Provavo compassione per la sua goffaggine... per la sua franchezza... inutile.
“Ma perché... perché sei venuta da me? Perché sei venuta? Sei venuta perché allora ti dissi parole pietose e ora, di nuovo, ti è venuta voglia di parole pietose... Sappi, sappi che allora ridevo di te... E anche adesso rido... A pranzo mi avevano appena offeso... Ero venuto lì per picchiare uno di loro... ma non l’avevo trovato: bisognava pure vendicarsi su qualcuno. Mi avevano umiliato, ... e allora anch’io volevo umiliare... Ecco cos’è stato! ... Pensavi che fossi venuto lì apposta per salvarti!”
Divenne pallida, voleva dire qualcosa. Mi ascoltava a bocca aperta, con gli occhi... tremando...
“Avevo bisogno di potere, avevo bisogno delle tue lacrime, della tua umiliazione: ecco di cosa avevo bisogno! ... Non so perché ti diedi il mio indirizzo... stupidamente. Ormai ti odiavo perché ti avevo mentito... So di essere una canaglia, un vile, un egoista. Ho tremato per tutti questi giorni, per paura che tu venissi... Poco fa ti ho detto che non mi vergognavo della  mia povertà; invece me ne vergogno ... me ne vergogno più di ogni altra cosa al mondo, più che se rubassi... Ma lo capisci come ti odierò adesso? Un uomo, un uomo... si confessa così una volta, una volta soltanto, in tutta la vita... Che cosa vuoi ancora? Perché mi tormenti, perché non te ne vai?”
Lisa aveva capito. Aveva capito ciò che una donna capisce prima di ogni altra cosa (se ama veramente); aveva capito che ero infelice, aveva capito quanto ero infelice.
Mi abbracciò e scoppiò in pianto. Anch’io mi misi a singhiozzare come non mi era mai capitato prima... Mi vergognavo: le parti adesso si erano invertite... Ero io la creatura umiliata e schiacciata.
Sollevai la testa; mi vergognavo a guardarla, strinsi forte le sue mani. Come la odiavo e come mi sentivo attirato da lei!

X.
Un quarto d’ora dopo lei sedeva sul pavimento ... piangeva... Piangeva, ma non se ne andava... L’avevo offesa definitivamente: aveva capito perfettamente che ero un uomo abietto e,  aveva capito, soprattutto, che ero un uomo... incapace di amarla.
Avrei voluto che scomparisse... Desideravo la tranquillità... desideravo restarmene solo... solo... nel sottosuolo...  Facevo perfino fatica a respirare... Due minuti dopo si alzò.
Mentre andava verso la porta... mi disse... -“Addio”.
Andai verso di lei ... le afferrai la mano ... gliela aprii... vi misi...
Restai lì, a sentire i suoi passi sugli ultimi gradini.
La massiccia porta a vetri che dava sulla strada si aprì, con un cigolio, e poi si richiuse pesantemente.
Rientrai in casa... Mi fermai davanti al tavolo, vicino alla sedia su cui lei era seduta...
Avevo lo sguardo perso nel vuoto.
E a quel punto vidi sul tavolo... vidi una banconota azzurra da cinque rubli, spiegazzata ... la stessa che un minuto prima avevo stretto nella sua mano... Non poteva essere un’altra; in casa non ce n’erano altre... Aveva fatto in tempo a gettarla sul tavolo.
Non potevo aspettarmi che l’avrebbe fatto... Ero talmente egoista, che non potevo neppure immaginarmi che l’avrebbe fatto...
Corsi come un pazzo a vestirmi ... mi gettai addosso qualcosa ... e mi lanciai al suo inseguimento... Non doveva essersi allontanata molto.
In strada ... in strada c’era un silenzio ... la neve fioccava sulla via deserta...
Non si sentiva un suono... Corsi fino all’incrocio e mi fermai.
“Dov’era andata?... E perché la rincorrevo?... Perché?... Per cadere in ginocchio davanti a lei ... singhiozzare di pentimento ... implorare perdono?... Perché?... Domani stesso avrei cominciato a odiarla ... non potevo, non potevo darle la felicità!”
Stavo lì, in piedi nella neve.
Non incontrai mai più Lisa ... e non ne sentii parlare... mai più... mai più... mai più.

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1 commento:

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