mercoledì 11 gennaio 2012

quel che resta dei sogni

Quel che resta dei sogni
( MANIFESTO )

Il teatro che vi aspettate, come totale novità, non potrà mai essere il teatro che vi aspettate. Infatti, se vi aspettate un nuovo teatro, lo aspettate necessariamente nell'ambito delle idee che già avete; inoltre, una cosa che vi aspettate, in qualche modo c'è già. 
Ma le novità, anche totali, non sono mai ideali, sono sempre concrete. Quindi la loro verità e la loro necessità o non si conoscono o si discutono riportandole alle vecchie abitudini. 
Oggi, dunque, tutti voi vi aspettate un teatro nuovo, ma tutti ne avete già in testa un'idea, nata in seno al teatro vecchio.
Oggi, invece, ciò che si mette in discussione è il teatro stesso: la finalità di questo manifesto è dunque, paradossalmente, la seguente: il teatro dovrebbe essere ciò che il teatro non è

Chi saranno i destinatari del nuovo teatro
I destinatari del nuovo teatro non saranno le persone che formano generalmente il pubblico teatrale: ma saranno invece le poche migliaia di intellettuali di ogni città il cui interesse culturale sia magari ingenuo, ma reale. 
Queste tre righe, sono il primo proposito rivoluzionario di questo manifesto. Esse significano infatti che l'autore di un testo teatrale non scriverà più per il pubblico che è sempre stato il pubblico teatrale; che va a teatro per divertirsi, e che qualche volta vi è scandalizzato. 
I destinatari del nuovo teatro non saranno né divertitiscandalizzati.

Il teatro di parola
Il nuovo teatro non è né teatro accademico né teatro d'avanguardia.
Non si inserisce in una tradizione. Semplicemente la ignora e la scavalca una volta per sempre.
Il nuovo teatro si vuole definire, sia pur banalmente, "teatro di parola". 
La sua incompatibilità sia col teatro tradizionale sia con ogni tipo di contestazione al teatro tradizionale, è dunque contenuta in questa sua autodefinizione. 
Esso non nasconde di rifarsi esplicitamente al teatro della democrazia ateniese, saltando completamente l'intera tradizione moderna del teatro rinascimentale e di Shakespeare.
Venite ad assistere alle rappresentazioni del "teatro di parola" con l'idea più di ascoltare che di vedere; questo è necessario per comprendere meglio le parole che sentirete, e quindi le idee, che sono i reali personaggi di questo teatro.
 
A cosa si oppone il teatro di parola
Il nuovo teatro si definisce di "Parola" per opporsi quindi: 
I) al teatro della Chiacchiera, che implica una ricostruzione ambientale e una struttura spettacolare naturalistiche, senza cui gli avvenimenti (omicidi, furti, balletti, baci, abbracci e controscene) sarebbero irrapresentabili; 
II) Per opporsi al teatro del Gesto o dell'Urlo, che contesta il primo radendone al suolo le strutture naturalistiche e sconsacrandone i testi: ma di cui non può abolire il dato fondamentale, cioè l'azione scenica, che esso porta, anzi, all'esaltazione.
Da questa doppia opposizione deriva  una delle caratteristiche fondamentali del "teatro di parola": ossia (come nel teatro ateniese) la mancanza quasi totale dell'azione scenica. 
La mancanza di azione scenica implica naturalmente la scomparsa quasi totale della messinscena - luci, scenografia, costumi ecc.: tutto sarà ridotto all'indispensabile


Sia il teatro della Chiacchiera che il teatro del Gesto o dell'Urlo hanno in comune l'odio per la Parola. 
Il primo è un rituale in cui il pubblico tradizionale si rispecchia, più o meno idealizzandosi, comunque sempre riconoscendosi. 
Il secondo è un rituale in cui il pubblico tradizionale, da una parte si riconosce in quanto produttore dello stesso, ma dall'altra prova il piacere della provocazione, della condanna e dello scandalo (attraverso cui, infine, non ottiene che la conferma delle proprie convinzioni). 
Il teatro del Gesto o dell'Urlo ha come destinatario - magari assente – il pubblico da scandalizzare (senza il quale esso sarebbe inconcepibile);
il teatro di Parola, al contrario, ha come destinatari gli stessi gruppi culturali avanzati da cui è prodotto
Negli spettacoli del teatro di Parola, ci sarà soprattutto uno scambio di opinioni e di idee, in un rapporto molto più critico che rituale. 
Il teatro di Parola è un teatro reso possibile, richiesto e fruito nella cerchia strettamente culturale, esso rappresenta, di conseguenza, l'unica strada per la rinascita del teatro.

L'attore del teatro di Parola
Tutto ciò richiede la fondazione di una vera e propria scuola di rieducazione linguistica; che ponga le basi della recitazione del teatro di Parola: una recitazione il cui oggetto diretto non sia la lingua, ma il significato delle parole e il senso dell'opera. 
Uno sforzo totale, insieme di acume critico e di sincerità, che comporta una revisione completa dell'idea di sé che ha l'attore. 
Sarà dunque necessario che l'attore del "teatro di Parola", in quanto attore, cambi natura: non dovrà più sentirsi, fisicamente, portatore di un verbo che trascenda la cultura in una idea sacrale del teatro: ma dovrà semplicemente essere un uomo di cultura
Egli non dovrà più, dunque, fondare la sua abilità sul fascino personale o su una specie di forza isterica e medianica sfruttando demagogicamente il desiderio di spettacolo dello spettatore, o prevaricando lo spettatore attraverso l'imposizione implicita del farlo partecipare a un rito sacrale. Egli dovrà piuttosto fondare la sua abilità sulla sua capacità di comprendere veramente il testo . E non essere dunque interprete in quanto portatore di un messaggio che trascende il testo: ma essere veicolo vivente del testo stesso. 
Egli dovrà rendersi trasparente sul pensiero: e sarà tanto più bravo quanto più, sentendolo dire il testo, lo spettatore capirà che egli ha capito.



1.

Mi ero svegliata, e non riconoscevo nulla.
Non riconoscevo il letto, non l'avevo mai visto prima.
Non riconoscevo la ragazza che stava vicino a me e mi parlava… diceva di chiamarsi Stella e di essere mia sorella, ma io non l'avevo mai vista. Mi faceva paura. Mi abbracciava, mi toccava, mi chiedeva “Ma cosa ti è successo questa notte?”.
Io chiamavo aiuto, volevo andare via, volevo fuggire.
Stella era molto bella, la sua pelle era delicata, i suoi capelli formavano un'onda elegante e trascurata che ricadeva fin sopra l'occhio. Il suo corpo era coperto da una veste bianca di seta.
E io stavo in un letto... un letto che sembrava una navicella d'oro.
Stella mi chiamava: “Basta Rosaura, sei sempre stata sana, padrona di te stessa, una ragazza come me, come tutte... sono vent'anni che dormi in questo letto... finiscila con questa storia”. Mi parlava di mio padre, di mia madre, diceva che noi eravamo ricchi, che nostro padre possedeva intorno a Madrid tanta terra da costruirci un'altra Madrid... ma io non ne sapevo niente, non riconoscevo il lino di quelle lenzuola, io non riconoscevo le tende alle finestre, né i tappeti sul pavimento. Io ero estranea a tutto... tutto quello che vedevo non mi apparteneva, perché io non conoscevo né la ricchezza, né tutto ciò che è legato alla ricchezza. Tutto mi sembrava un sogno. Ma Stella sosteneva che quello non era un sogno...
Mi propose di fingere di fare un gioco: “Fai finta di non sapere niente del mondo dove ti sei risvegliata stamattina. Fai finta di non sapere niente del mondo dove vivi. Io fingerò di doverti spiegare come stanno le cose... perché nessuno verrà mai a liberarti… anche se tu invocassi aiuto fino a domani… e io non potrò non essere tua sorella neanche se tu lo negassi fino alla morte… e così questa casa, nostro padre, nostra madre, nostro fratello Pablo. Ecco perché devi fingere e ascoltare come in un gioco tutte le spiegazioni che io ti darò."
Io non volevo sapere nulla, non volevo imparare nulla. Io volevo soltanto tornare dove ero veramente.
Ma mia sorella prese un anello che era sul comodino. Un anello d'oro, antico, che nostra madre aveva ereditato da sua madre, che a sua volta l'aveva ereditato da sua madre, di madre in madre...
“Rosaura, la prima cosa che hai sempre fatto, ogni mattina, è infilarti al dito questo anello. Infilalo.”

Un mese dopo... ero stata con mia sorella al Prado.
Quando tornammo a casa mia madre stava parlando con un'amica. Parlavano di politica, dei privilegi… ricordavano i tempi della guerra civile, di Franco, dei cattolici, dei borghesi, degli industriali… parlavano degli ebrei e di Himmler, che avrebbe fatto bene ad ammazzarli tutti quanti.
A un certo punto annunciarono la visita di un signore. "Un uomo dall'aspetto nobile”.
Avrà avuto cinquant'anni. Mancava da molto tempo dalla Spagna. Disse che gli sbirri questa volta lo avevano fatto passare, chissà perché... sì disse proprio “sbirri”… una piccola provocazione. Aggiunse subito che anche lui era nobile, anche se con una parte di sangue ebreo. Cattolico comunque di religione, borghese di cultura. Aveva tutte le carte in regola.
Parlò a lungo. Fece un discorso amaro e spiritoso. “Ho il diavolo al fianco”, disse. Parlò di amici suoi, famosi e esiliati:Machado, Unamuno, Rafael Alberti… di Bunuel e del surrealismo.
Parlò di come aveva visto la Spagna dall'aereo… disse frasi che non dimenticherò mai: “e così piangevo, come un poeta lungo le rive del Duero. La mia anima mi prendeva, come una camicia con i lembi fuori dai calzoni…”.
Disse di aver vissuto tutta la vita scherzando. Aveva vissuto un po' qua e un po' là, da giramondo. Poteva diventare ministro e invece...
Mi sembrò che avesse vissuto una bella vita, con tanti viaggi, tante belle amicizie, tanta leggerezza.
Mi guardò e mi disse che avevo il visino disperato di una volpe.
Mi sembrò che mi accarezzasse, mentre mi diceva: “Vedi, Rosaura: chi vince è idiota, ma anche perdere sempre, è una bella disgrazia”. Il suo nome era Sigismondo.

Quella notte feci un sogno strano. Mi trovavo dentro al quadro “Las Meniñas” di Velàzquez. Avevo un busto stretto e lungo, e la gonna barocca con le due gobbe ai fianchi. Mio padre era vestito da re e mia madre da regina. Dicevano frasi strane:
“L'amore non è pensabile senza un senso sociale”,
“La nascita, che straordinaria fonte di diritti, e di conoscenza”,
“Riconosci la tua vita in quella degli altri, Rosaura, e vedrai che essa sarà vera. Abbi gli amori che hanno gli altri, e vedrai che essi non si distingueranno dalla vita”,
“Coraggio, Rosaura, confessa a tuo padre che sei innamorata di Sigismondo. Solo se tu confesserai l'inconfessabile, noi potremmo parlare con te, e persuaderti del tuo tradimento, rigenerandoti”,
“Il potere dialoga con chi gli appartiene; il potere può essere buono, anzi deve essere buono”.
Ma io tacevo. E allora mio padre disse: “Dunque, non vuoi confessare. Noi potremo convincerti che il signor Sigismondo, che tu ami, non può essere amato da te, perché nessun senso sociale potrà mai contenere questo amore: Sigismondo infatti, è un antifascista, vissuto in esilio, schedato, sorvegliato a domicilio, un essere contaminato dalla povertà, che egli difende tradendo la ricchezza, e che, come ha detto tua madre parlando degli ebrei, le autorità dello Stato farebbero bene a mettere al muro.

Mi risvegliai in un luogo che non capivo. Un convento, una casa di cura, un manicomio.
C'era un giovane medico che era innamorato di me.
Io amavo un borghese mancato, e un altro borghese mancato amava me.
Se lavorava in manicomio era perché in realtà vi era rinchiuso, segregato, escluso anche lui, come me. Un’altro sconfitto.
Noi eravamo marchiati dalla sconfitta fin dalla nascita. La nascita è tutto.
Il giovane medico che era innamorato di me, non ebbe mai il coraggio di confessarmi il suo amore.
Mi parlò una volta, una volta che io piangevo, piangevo e protestavo che il mio corpo non era una cosa che non potevano metterlo dove volevano. Protestavo che il mio corpo era sacro, perché è con esso che vivo.
Mi disse: “Povera Rosaura, è proprio perché lei ha un corpo, che lei può essere nostro capro espiatorio. Non critichi suo padre. Egli ha il diritto di volersi liberare di lei e di vivere in comune con tutti i padri spagnoli il presente e la tradizione, senza contraddizioni. Io collaboro con lui alla sua segregazione, in cui lei è messa a tacere: corpo, cosa.”
Dopo mi ridiede la mia libertà, aprì le porte della prigione, mi fece tornare nel mondo.

Arrivai alla casa di Sigismondo. Mi accolse con voce dolorosa. Aveva perduto tutta la sua leggerezza. Parlò. “Nei biglietti che mi hai scritto, in principio, avevi espressioni di ammirazione quasi filiale. Poi, un po'alla volta sono diventati veri e propri messaggi d'amore. Adesso posso parlarti perché l’essere stata offesa ti dà dei diritti.
Rosaura, non solo io non posso amarti, ma neanche tu poi amare me.”
Fece una lunga pausa prima di riprendere.
“Hai mai sentito che c'è stata in Spagna una guerra civile... in quella guerra io ero con i poveri contro i ricchi, con gli operai e contadini contro i preti e i borghesi. Ci è andata molto male…
io e tua madre andavamo alla stessa scuola, ed eravamo fidanzati, per scherzo, ma il nostro amore era vero. Oltre che amarci avevamo anche le stesse idee politiche, allora. Eravamo due fieri repubblicani, amavamo gli anarchici e i comunisti come fratelli. Ero giovane ma sapevo maneggiare il fucile, ho sparato contro la Falange. Scrivevo lettere d'amore come un soldato in guerra alla sua fidanzata. Perché la guerra divide sempre, il suo vero scopo pare essere quello di dividere le persone che si amano.
Poi tutto finì, con la nostra sconfitta... io avrei potuto tornare a Madrid, essere perdonato, riprendere i miei studi, rivedere la mia fidanzata. Non l’ho fatto. Non ho più rivisto tua madre. Un'altra guerra è scoppiata ed è finita. Io sono sopravvissuto un'altra volta e, per una terribile nostalgia, sono tornato di nascosto in Spagna. Nella vecchia Madrid vagavo solo come un capro espiatorio sfuggito alla mannaia. Chi potevo cercare se non tua madre? L'ho ritrovata… ma chi ho ritrovato, al posto di tua madre? Una donna sconosciuta… i suoi 15 anni in più erano un secolo di ordine e di noia.
Tua madre che aveva odiato insieme a me Franco quand'era sbarcato in Andalusia, adesso lo amava.
Ritrovandola così, l'ho violentata. Ho imposto a tua madre il mio corpo per odio e per vendetta, o forse per un amore che non voleva più essere chiamato così.
Questo non ha impedito che ne nascesse una creatura.
Ti avevo avvertito che questa storia ti avrebbe lasciata come perduta nel buio.
Ti avevo avvertito che il dolore avrebbe soffocato la gioia, e la gioia il dolore.
Quella creatura sei tu, e io sono tuo padre.
Io dovevo raccontarti questa storia... dovevo... i doveri non sono che argini contro la realtà… anche se spesso sono perfettamente inutili.
Non c'è più niente da dire. Sei libera di non amarmi più... oppure anche di amarmi ancora”.

“…Vorrei amarla ancora...”.








2.

Mi ero svegliata, e non riconoscevo nulla.
Non riconoscevo il letto, non l'avevo mai visto prima.
Non riconoscevo la ragazza che stava vicino a me e mi parlava… diceva di chiamarsi Carmen e di essere mia sorella, ma io non l'avevo mai vista. Mi faceva paura. Mi abbracciava, mi toccava, mi chiedeva “Ma cosa ti sei sognata questa notte?”.
Io chiamavo aiuto, volevo andare via, volevo fuggire.
Carmen era molto bella, la sua pelle era scura eppure trasparente, i suoi capelli selvatici le ricadevano fin sopra gli occhi. Portava un vestito arancione molto carino, che la copriva appena.
E io stavo in un letto... un letto con un piccolo materasso duro, e vecchie coperte grigie, secche di sudore e di polvere.
Carmen mi chiamava: “Basta Rosaura... sono trent'anni che dormi su questa branda... finiscila di rompere tanto i coglioni”. Mi parlava di mio padre, che era un vecchio ubriaco, di mia madre, che era sempre rabbiosa, diceva che noi eravamo della poveracce, che nostro padre prima di diventare solo un ubriacone faceva il manovale, che noi avevamo otto fratelli che se n'erano andati a lavorare in miniera in Francia e in Germania, per fortuna, così non li dovevamo mantenere noi... ma io non ne sapevo niente, non riconoscevo la tela stracciata di quelle lenzuola, io non riconoscevo la polvere secca di quelle coperte. Io ero estranea a tutto... tutto quello che vedevo non mi apparteneva, perché io non conoscevo né la povertà, né tutto ciò che era legato alla povertà che c’era lì dentro. Tutto mi sembrava un sogno. Ma Carmen sosteneva che quello non era un sogno...
Mi propose di fingere di fare un gioco: “Fai finta di non sapere niente del mondo dove ti sei risvegliata stamattina. Fai finta di non sapere niente del mondo dove vivi. Io fingerò di doverti spiegare come stanno le cose... perché nessuno verrà mai a liberarti… anche se tu invocassi aiuto fino a domani… e io non potrò non essere tua sorella neanche se tu lo negassi fino alla morte… e così questa casa, che noi chiamiamo la fogna, nostro padre, nostra madre, e tutto quanto. Ecco perché devi fingere e ascoltare come in un gioco tutte le spiegazioni che io ti darò."
Io non volevo sapere nulla, non volevo imparare nulla. Io volevo soltanto tornare dove ero veramente.
Ma mia sorella prese una catinella che era sotto il tavolo, una catinella vecchia, tutta ammaccata, con righe di sporcizia nel fondo. Una catinella che nostra madre aveva comperato una estate, da un venditore ambulante, con un carrettino bianco di legno, con una faccia nera di ragazzo zingaro, che cantava.
“Rosaura, la prima cosa che hai sempre fatto, ogni mattina, in attesa dei clienti, è lavarti tra le cosce in questa catinella bianca tutta ammaccata. Che cosa aspetti? Lavati”.

Un mese dopo, stavo lì, nella mia baracca, aspettando i clienti.
A un certo punto si sentì una gazzarra… un casino…
era una banda di ragazzotti, avranno avuto tutti 16,17 anni…
ce n'era uno che recalcitrava… “Maledetti, lasciatemi, non voglio entrare, non voglio entrare!”
“Se non vuoi entrare vuol dire che o sei vergine o sei pederasta”
“Se non hai voglia vuol dire che oggi ti sei già fatto una sega… peggio per te”
Lo buttarono dentro e chiusero la porta. Lui cominciò a bussare da dentro, disperato. Urlava "Fatemi uscire! Aprite la porta!”.
Quando non si sentivano più, si girò verso di me e mi disse “Diglielo che mi aprano, diglielo tu, ti prego... ... digli che non vuoi, digli che sono troppo giovane... per piacere aiutami tu… ti pago lo stesso”.
La chiave della porta io non l'avevo, non ero libera. Se fossi stata libera non sarei stata lì. Glielo dissi. Ma lui insisteva che voleva andarsene e non voleva restare lì con me.
Gli chiesi perché? “Ti faccio paura? Ti faccio schifo? Preferiresti che fossi più giovane più bella?”.
Cercò di essere gentile e mi disse che mi trovava giovane e bella. Potevo essere sua madre e come potevo essere bella stando chiusa lì dentro tutto il giorno, come una cagna legata in un canile.
Glielo dissi. Cominciammo a parlare. Era il suo compleanno, e quello che era il regalo per lui da parte dei suoi amici. L'avevano spinto lì dentro per sverginarlo.
Sicuramente veniva da una famiglia ricca. Era carino. Capelli castani d'oro Occhi metà rabbiosi, metà dolci. Non aveva neanche un pelo di barba. Le labbra del pesciolino, con il labbro più alto carnoso e sporgente in fuori. Non sembrava un signorino. Aveva il viso dei poveri. Solo che si pettinava un po' più serio.
Diceva che tutte le sue compagne di classe erano innamorate di lui... e poteva essere vero.
Un certo punto incominciò a raccontarmi di sé. Mi disse che aveva deciso sul destino. Voleva lasciare la scuola e la sua famiglia. Guardava spesso le navi ferme nel porto di Barcellona, pronte ad andare via. Parlava di noi, gli esclusi… noi con gli occhi troppo scuri, e caratteri di zingari… noi troppo neri e troppo poveri. “Ci manca poco che vengano qui e vi mettano delle divise, come in un lager, in un manicomio, in una prigione”. Mi parlò di un suo amico. Uno che stava in galera. Uno che amava i ragazzi. Uno come Socrate.
Voleva diventare anche lui uno di noi, un pederasta, un matto, un delinquente, un andaluso, una puttana.
Aveva capito qualcosa, ed era diventato anche lui un pericolo.
“Noi siamo i capri espiatori di questa Spagna stupida e miserabile. Noi siamo in prigione perché abbiamo un corpo. Senza corpo non ci sarebbe vergogna, sofferenza, morte”.
Si vantava di aver letto libri difficili: Marcuse, Malcolm X, Carmichael...
Si chiedeva: “Che cosa devono fare oggi, i pederasti, i matti, gli andalusi, le puttane, le donne?”
Lo chiedeva a me, ma che ne sapevo io. Io sapevo solo che mi stavo innamorando di lui.
Arrivarono gli altri a riprenderlo. Ero disposta a dire che aveva fatto, e che ce l'aveva grande e bello duro, ma lui non volle che dicessi proprio niente. Mi faceva male il cuore a lasciarlo. Mi promise che sarebbe tornato. Mi diede la sua parola. Mi lasciò sola e disperata. Non sapevo dove stava, non sapevo dove andava. Non potevo fare niente.

Poco dopo entrò mia sorella. Mi interrogava e rideva come una scema. Mi chiedeva del ragazzo. Voleva sapere se avevamo fatto l'amore. Se l'avevamo fatto davvero.
Rideva e voleva sapere come c’aveva l’affare. Gli dissi che ce l'aveva lungo e duro come una spada, ma tenero come un fiore, e a toccarlo sembrava seta…
Rideva e voleva sapere se mi ero innamorata. Risposi “Innamorata un poco, si, cosa c'è di male?”.
Rideva ancora e mi chiese se sarebbe tornato. Chi è stato con me una volta ci torna... io li lavoro bene...
Lei rideva, a me cominciarono a scendere le lacrime dagli occhi.

Quella notte feci un sogno strano. C'era uno stanzone vuoto, forse lo studio di un pittore, in un palazzo antico. C'era solo un personaggio, un re, che si rifletteva in un grande specchio. Poi entrarono due uomini. Uno veniva da una stanza buia, l'altro da una stanza piena di luce.
Il re disse: “Chissà se varrà ancora l'antica legge... la legge che dice che l'amore dura più del sogno. Chissà? Andate, andate e sciogliete i nodi dell'esistenza, distribuite, in modo uguale buio e luce, date gioia e dolore. Fate dunque il bene facendo il male, e il male facendo il bene”.

Quel giorno stesso ricevetti la visita del signor parroco. In cominciò subito a chiedermi spiegazioni sui miei occhi arrossati. Cerca di raccontare qualche bugia ma senza convinzione. Disse che era lì solo per aiutarmi. Mi dava fastidio la sua presenza. Ma lui insisteva: “Quello che devo dirle è in relazione coi suoi occhi rossi, l'aiuterò anche se lei non vuole”. Mi misi ad ascoltare pensando che avrei detto la verità sono se mi fosse convenuto. Mi rimproverò garbatamente... io non frequentavo la Chiesa, mentre mia sorella… non c'era funzione in Chiesa a cui mancasse. Era abile… non mi poteva fregare con le cattive… mi stava fregando con le buone.
Poi venne al dunque:
“Carmen è venuta da me, e mi ha detto che l'altro giorno tu avresti... fatto l'amore…
con un certo Pablo... uno studente di liceo...
allora... ti conviene o non ti conviene dirmi la verità?”
Feci un cenno con il capo: “E’ vero, ho fatto l'amore con lui”
“E ora hai gli occhi rossi… perché lui non torna…
io sono qua per darti una notizia che ti darà molta gioia molto dolore... e così tu resterai muta, in una grande confusione. Ed è perciò che hai bisogno di aiuto…
e comunque sappi che se Pablo non torna non è per sua volontà”.
Mi bastava già così… mi bastava sapere che lui avrebbe voluto venire... mi bastava.
Ripeté di nuovo la domanda: “Davvero, hai fatto l'amore con lui?”
Provai di nuovo a mentire… ma poi dovetti ammettere: “No. Non abbiamo proprio fatto l'amore... ma se tornasse lo farei di certo, e non gli chiederei neanche un soldo, lo farei gratis tutte le volte che vuole, e magari lo pagherei io, se avesse bisogno…”
Fece una pausa lunghissima:
“Non tornerà. Ma se dovesse tornare, tu, non dovrai fare l'amore con lui.
Questa storia, questa favola terribile, comincia 16 anni fa.
Eri una bambina quando hai conosciuto Sigismondo… Sigismondo aveva vent'anni... non aveva ancora ammazzato nessuno… ora è in galera con la testa pelata e il corpo pieno di sfregi e cicatrici… è lui che ti ha fatto fare un figlio...
un figlio maschio, con gli occhi castani e i capelli dai riflessi color oro.
Tu l'hai visto appena... non hai fatto neanche in tempo a sapere come si chiamava...
Io non voglio dare giudizi né sul tuo bene, né sul tuo male. Io dico solo ciò che è:
hai subito la violenza di un ragazzo, senza odiarlo,
hai fatto un figlio e l’hai perduto, senza protestare,
hai pianto in silenzio, senza disturbare nessuno,
poi a poco a poco hai dimenticato tutto, senza vergognarti.
Non voglio dare dei giudizi neanche su tua madre e tua sorella…:
tua madre e tua sorella sanno fare delle cattive azioni… cercano di difendersi, poverine.
In tutti questi anni tu hai creduto di aver perduto un figlio...
tuo figlio invece è vissuto in una bella casa, nella via più bella di Barcellona…
lì ha vissuto lì da ricco e da potente.
Ai signori che l'hanno adottato, tua madre e tua sorella chiedono soldi... non tanti per la verità…
hanno sempre avuto paura, che tu, che tu... se avessi saputo... non ci saresti stata...
e avresti rovinato tutto.
Esse hanno seguito a ogni passo nella vita di Pablo... non l'hanno mai perduto di vista…
ed è a me che sono venute a rivolgersi… adesso, adesso che tu l'hai conosciuto.


3.


Mi ero svegliata, e non riconoscevo nulla.
Non riconoscevo il letto, non l'avevo mai visto prima.
Non riconoscevo la donna che stava vicino a me e mi parlava… diceva di chiamarsi Agostina e di essere mia sorella, ma io non l'avevo mai vista. Mi faceva paura. Mi abbracciava, mi toccava, mi chiedeva “Ma cosa ti è successo questa notte?”.
Io chiamavo aiuto, volevo andare via, volevo fuggire.
Agostina mi chiamava: “Basta Rosaura,... ieri sera eri qui, in questa casa, con me, con tuo marito, con i tuoi figli, finiscila con questa storia”. Ma io non ricordavo, io non conoscevo marito, figli.
Caddi di nuovo nel sonno. Di colpo. Mia sorella disse che era stato solo qualche istante. Disse che avevo chiuso gli occhi e mi ero abbandonata tra le lenzuola come morta. Ero caduta in uno stato che non era né sonno, né svenimento.
Spesso sognavo di essere un falco che vola sopra la Spagna, sui grandi campi gialli seccati dall'estate… oppure sognavo di essere un gattino che miagola fermo verso il mare…
quel giorno avevo fatto un sogno nuovo, ma non lo ricordavo.
Incominciai a dire frasi strane. Chiesi a mia sorella di portarmi un cuscino amaro con due lenzuola bollite, le chiesi anche di aiutarmi a infilare il vassoio, perché dovevo alzarmi... parlavo di aquile che erano tornate sotto il marciapiede e di tappeti alle finestre che non lasciavano entrare il buio.
Mi sarebbe piaciuto che mio marito Basilio sentisse quanto parlavo, lui si lamenta sempre che io sto troppo zitta. Povera donna, non sapevo più scegliere le parole.
Nella mia mente c'era la torre di Babele.

Mio marito e il medico litigavano tranquillamente davanti a me. Tanto io non capivo.
Il medico diceva: “Il fatto è che niente accade se non ci sono delle premesse. Si potrebbe spiegare tutto con l'afasia. Ma la realtà è che la borghesia vuole eliminare il suo recente passato. Aveva bisogno di agnelli rivoluzionari, e li ha trovati tra i suoi figli.
Li ha fatti educare da vecchi Dei dimenticati e poi li ha rimandati nel mondo a distruggere tutto.
E loro, i figli, l'hanno imparata la lezione cretina.
Sì… da buone masse di piccoli borghesi hanno imparato a distruggere tutto, come già lo aveva imparato Hitler.
Quando tutto ciò che il potere vorrà distruggere, sarà distrutto, i giovani figli avranno esaurito il loro compito.
Quanto alla nostra paziente la lasci giocare ancora un poco, la sua afasia è una scusa per non raccontare i suoi sogni. Finge di non distinguere i nomi delle cose semplicemente perché le cose sono troppo cattive. Vivere tra esse è come vivere in un lager”.
Mio marito disse sottovoce: “La verità è che io non l'amo abbastanza"…
“No… questo non è molto grave. Il problema è piuttosto che Rosaura non ama lei, e non l’ama proprio in quanto compagno piccolo borghese, adulto, voluto dalla società e benedetto da Dio”
“Lei deve guarirla, e ridarla alla vita!. Mia moglie deve riprendere a parlare la realtà!”
“Noi crediamo che sia preferibile dare ai cosiddetti matti il loro universo, piuttosto che farli rientrare in quello che li ha esclusi. Rosaura ha trovato il modo di disobbedire senz'essere disobbediente, tornerà ad ubbidire senza essere obbediente. Le cose riprenderanno il loro posto e le loro qualità perché l'ultima parola spetta sempre alla ragione.
Ma… ma la prego… non confonda la sua condizione borghese con la realtà.
È un'identificazione offensiva. Non confonda la parola… col silenzio… o con l'urlo”


Naturalmente, dopo qualche tempo, mi fecero tornare a casa.
Ci fu una festa, una grande festa. “Una creatura rientra nel mondo, il figliol prodigo ritorna dal padre”. Sì, mio marito comandava prepotente come un padre, e aveva bisogno di affetto come un figlio. Si celebrava una festa, si stappava champagne... e solo in un mondo ingiusto che si può ridere e conoscere la gioia di vivere. Si brindava alla mia salute, “Grazie mamma, di essere tornata nel lager dove siamo costretti a vivere tutti noi, cercando quel poco di libertà che ci è permesso”. Adesso avevo capito: il vero grande valore, era proprio quell'umile e oscura vita che io rifiutavo come atrocità borghese.
Proprio quel giorno, nelle strade, stavano gridando. Gridavano e sparavano, sparavano colpi di fucile, si ammazzavano.
Cominciarono a bussare, sembrava che buttassero sulla porta. “Aprite, aprite per favore... fatemi entrare, per favore...”
Mio marito aprì, entrò un giovane... mio marito sosteneva che ci fossimo guardati con lo sguardo di due che si riconoscono... fu subito sospettoso.
Raccontò che la polizia lo stava inseguendo… la polizia aveva sparato sui dimostranti, studenti... qualcuno era caduto. Parlava con voce rauca ed era molto stanco. Ci raccontò un po'della sua vita. Aveva 19 anni, era di buona famiglia, faceva l'università... scienze politiche. Dava lezioni di purezza. Era venuto a Madrid dalla provincia. Si vergognava di puzzare un po'come chi ha dormito per una notte in una sala d'aspetto, senza togliersi le scarpe e ha i capelli induriti dalla polvere. Sognava una lotta in cui gli studenti fossero a fianco degli operai… e aveva un atteggiamento di comprensione verso i poveri poliziotti adolescenti, figli del sottoproletariato dell'Andalusia, politicamente più puri di lui.

Mi addormentai mentre lo studente parlava, e dopo un po' anche lo studente, stanco, si addormentò, lì… con la sua testa spettinata e cocciuta, con pochi pensieri e pochi dubbi.
Mio marito si sentì tradito... fu come se io mi fossi gettata ai suoi piedi… o fossi fuggita con lui. Sentiva qualcosa di sinistro in quella nostra complicità di addormentati.
Davanti all'eterna vittoria degli innocenti, egli sentiva tutta la fatica di dover difendere la propria degradata realtà…
Sciolse rapidamente l'unico dubbio che gli rimaneva. Avvertire la polizia che lo studente era lì, o meglio… meglio chiamare il comando della Falange… lo studente in questione era un delinquente politico. Si decise e fece “semplicemente” il numero di telefono.

Cosa sognai quella notte?
Ero in uno di quegli ambienti… quelli che abbiamo visto tante volte in quelle fotografie che rappresentano l'interno dei dormitori dei lager... i piccoli letti uno sopra l'altro… le coperte lasciate dai morti… pochi stracci appesi alla parete o abbandonati sul pavimento... poveri esseri umani mostruosi distesi su quelle cucce da bestie, con il cranio rasato, con i ginocchi enormi a causa della magrezza, con gli occhi dilatati, cerchiati che hanno dentro una luce miserabile, quasi un vergognoso sorriso.
Ero felice… ero felice perché la mia vera vita non si svolgeva in una reggia… né in una torre, né in una casa piccolo borghese.
La mia vera vita si svolge in realtà in un lager. In un gelo tenebroso. Nello stanzone dove sono chiusa entro un po' di sole, riflesso dalla neve. Fuori abbaiano i cani. Sui castelli di brande stanno distesi i dannati... i corpi bianchi come di gesso sulle coperte grigie di polvere gelata. Hanno le braccia fuori, abbandonate, stecchite. Guardano come cani che non sanno perché non possono muoversi. Guardano tutti verso un punto dove forse comparirà chi può guardarli forte e libero.
Anch'io sono lì, uno scheletro bianco quasi senza più capelli, nella cuccia. Ho le gambe scoperte.
E anch'io sorrido. Non siamo più uomini… siamo solo cose di cui gli altri possono disporre. Dobbiamo far ribrezzo per poter essere usati meglio da chi lo vuole.
È l'ora in cui si aspetta. Il sole come in qualsiasi giornata, accende per un poco il nostro stanzone.
Ci attende un'intera notte da vivere.
Il padrone ha deciso la nostra morte, e ognuno di noi è sicuro di essere il suo beniamino.
Poco dopo, da un villaggio lontano suonano le campane. Poi torna il silenzio. Sulle pareti arrugginite rimane un'ultima traccia di sole. Poi… il silenzio. Mezz'ora, un'ora... ed ecco… un canto. È un canto che sentivamo da bambini, quando la Spagna libera.
Quel canto avanza, si fa sempre più chiaro… è un mare di persone che lo canta, un mare di persone che avanza e, piano piano, invade il lager. Ecco, le porte vengono battute e cantando, entrano loro… ci vengono vicini, si abbracciano, baciano i nostri visi senza carne, ci rialzano, ci sorreggono come fratelli, ci danno vestiti, ci aiutano a vestirci, ci offrono cibo da mangiare, ci offrono vino da bere…
a noi vengono le lacrime agli occhi, e loro piangono con noi, mentre ci abbracciano e ci ripetono: “Siete liberi, siete liberi!”, come se noi fossimo in grado di capire queste parole.
È un bellissimo sogno, è davvero un bellissimo sogno… anche se, in questo momento, incomincia la vera tragedia. Perché questo è un sogno, non c'è dubbio, è un sogno. Niente altro che un sogno.

* * *
C’era un re, profeta, che aveva letto nel futuro che suo figlio Sigismondo l'avrebbe ucciso.
Allora lo fece chiudere in una torre, incatenato, allontanandolo come un mostro dalla vita.
Ma un giorno, il re si pentì. E volle fare un esperimento, per verificare le sue profezie.
Fece liberare il figlio, dopo averlo fatto profondamente addormentare con leggendari narcotici, e lo fece risvegliare nella reggia, in un letto stupendo, tutto lino e broccati.
Per Sigismondo questo era un sogno, evidentemente.
Nel sogno però vide una donna, di cui si innamorò.
Il sogno era destinato a finire, e infatti Sigismondo fu rinchiuso di nuovo, riaddormentato nella sua torre. Il sogno era destinato a finire, ma non quel suo amore. Nel nuovo sogno un senso continuava. Cosa ha voluto dire, con questo, Calderon?

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